Prima che si parlasse di populismo con i toni da fine del mondo, prima cioè della Brexit e di Trump; prima che il termine passasse a codificare come impresentabile un’intera offerta politica, accomunando anche partiti, movimenti e idee che non c’entravano nulla l’uno con l’altro; prima di tutto questo le istanze alla base del cosiddetto «populismo» erano state perfettamente descritte e indagate da un grandissimo storico, Christopher Lasch. Il suo «La ribellione delle élite», pubblicato in America nel 1995, è un condensato di acume profetico che non squalifica con etichette ma indaga le ragioni profonde del malessere delle nostre democrazie. L’America degli anni Novanta assomiglia molto da vicino a tanti Paesi europei degli anni Dieci: impoverimento del ceto medio, disagio esistenziale, calo di benessere e sicurezza, senso di distanza dai centri di potere reale (le «élite», appunto), crisi delle comunità e dei corpi intermedi, insicurezza diffusa. Oggi l’epiteto «populista» è già passato di moda: paradossalmente, molti dei temi così etichettati sono passati sotto le insegne di partiti «di sistema», complici anche gli anni del Covid: proprio per questo rileggere Lasch permette di tornare alla radice dei problemi e non alla loro superficiale negazione. E di interrogarsi sul ruolo dello stato, delle comunità, sui limiti della democrazia, delle istituzioni sovranazionali e del liberalismo: non per improbabili istinti di ripulsa, ma per capire che, in fondo, il populismo non esiste. E, con ogni probabilità, non è mai esistito.
Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’islamo-socialismo. Da New York a Birmingham, dalle periferie francesi alle piazze italiane, cresce ovunque la sinistra di Allah, l’asse fra gli imam dei salotti buoni e quelli delle moschee, avanti popolo del Corano, bandiera di Maometto la trionferà. Il segno più evidente di questa avanzata inarrestabile è la vittoria del socialista musulmano Zohran Mamdani nella città delle Torri Gemelle: qui, dove ventiquattro anni fa partì la lotta contro la minaccia islamica, ora si celebra il passo, forse definitivo, verso la resa dell’Occidente. E la sinistra mondiale, ovviamente, festeggia garrula.
La vulgata giornalistica italiana sta ripetendo che, oltre a essere uno «schiaffo» a Donald Trump, la vittoria di Zohran Mamdani a New York rappresenterebbe una buona notizia per i diritti sociali. Ieri, Avvenire ha, per esempio, parlato in prima pagina di una «svolta sociale», per poi sottolineare le proposte programmatiche del vincitore: dagli autobus gratuiti al congelamento degli affitti. In un editoriale, la stessa testata ha preconizzato un «laboratorio politico interessante», sempre enfatizzando la questione sociale che Mamdani incarnerebbe.
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Vincenzo Lanni, l’accoltellatore di Milano, aveva già colpito. Da condannato era stato messo alla Rems, la residenza per le misure di sicurezza, poi si era sottoposto a un percorso in comunità. Nella comunità però avevano giudicato che era violento, pericoloso. E lo avevano allontanato. Ma allontanato dove? Forse che qualcuno si è preso cura di Lanni, una volta saputo che l’uomo era in uno stato di abbandono, libero e evidentemente pericoloso (perché se era pericoloso in un contesto protetto e familiare come quello della comunità, tanto più lo sarebbe stato una volta lasciato libero e senza un riparo)?






