2021-11-02
Media sdraiati per Draghi (nonostante il flop)
Il principe Carlo e Mario Draghi (Ansa)
Le cronache italiane del G20 sono un'esplosione di culto della personalità: «empatico», «vincente», «sincero», «salvatore della democrazia». E pazienza se il summit del fine settimana è stato un buco nell'acqua: per le sue groupie, Mario Draghi non ha colpe.Leggendo la rassegna stampa di ieri mattina sulla due giorni del G20 romano siamo stati catapultati in un universo parallelo. Anzi, in un regno magico. Quello di Mario Draghi. La carrellata di titoli è stata un crescendo ai confini della realtà, ma anche del culto della personalità. O quantomeno, della lucidità. «Un passo avanti per curare il clima», Repubblica. «Successo di Draghi ma spiccioli per il clima», La Stampa. «Clima, accordo su più 1,5 gradi», Corriere della Sera. «Briciole sul clima ma accordo d'oro su dazi e affari», Il Giornale. «Draghi prigioniero, il G20 è un successo solo per lui», Libero. «Passo avanti sul clima», Il Messaggero. «Mini intesa sul clima. Ma Draghi vince», QN. Il piatto di inchiostro zuccheroso è stato accompagnato da foto di lanci di monetine (coniate appositamente per l'evento) nella Fontana di Trevi con Angela Merkel al posto di Anita Ekberg, nonché da «racconti» sulle vacanze romane dei leader del mondo che tra «romanticismo e capolavori hanno addolcito le vecchie ruggini». Per non parlare della «tattica dell'empatia» con cui il premier ha «smosso anche Pechino e Mosca ed evitato un fiasco finale» (Corriere della Sera). E giù tutti a complimentarsi con lui, Biden, Macron e Johnson, «eppure è lui stesso, con professione di modestia e sincerità, a descrivere quello che è anche un compromesso» (sempre il Corriere). Una melassa ancor più stucchevole se facciamo un confronto con titoli e articoli dei giornali stranieri: «I Paesi poveri preoccupati dai limitati progressi climatici del G20», titolava ieri il Guardian. Il Washington Post parla di «risultati modesti» sottolineando che «mentre il primo ministro italiano Mario Draghi e il presidente francese Emmanuel Macron hanno descritto il G20 come un successo, l'esito ha deluso il capo delle Nazioni Unite e il leader del Regno Unito». In Italia, invece, le rotative hanno stampato una sorta di estasi collettiva, dove l'aggettivo più usato (gli spin hanno fatto bene il loro lavoro) è stato «il tessitore». Fuori dal coro, si fa per dire, il Draghi «troll che ha fatto impazzire i populisti» (Il Foglio). Picchi glicemici anche negli editoriali. Come in quello di Alessandro Sallusti, direttore di Libero, per il quale «Draghi ha compiuto un capolavoro per sé innanzitutto e per l'Italia di conseguenza, un successo personale addirittura eccessivo e come tale fastidioso». Superato, però, con stratosferico distacco dal commento di Alan Friedman su La Stampa. L'ex biografo di Silvio Berlusconi sembra avere dimenticato il Cavaliere, ora ha occhi solo per Mario. Perché «per gli storici del futuro il G20 simboleggerà anche il momento in cui il mondo intero avrà preso coscienza che “Italy is Back!!". L'economia è forte, la leadership è autorevole, il premier è riconosciuto come il salvatore dell'euro». La prossima sfida che dovrà affrontare? «Magari sarà lui a salvare la democrazia liberale occidentale, una volta che Merkel sarà fuori dalle scene». E ancora. «Il mondo intero ha ormai preso nota di tutto ciò che Draghi ha saputo realizzare in soli otto mesi a Palazzo Chigi: ha vaccinato l'80% della popolazione, ha riscritto il Pnrr e ha programmato investimenti per un totale di 220 miliardi di euro nell'arco di cinque anni, istituendo nel frattempo un sistema di green pass che funziona e lanciando una serie di importanti riforme strutturali. Tutto questo mentre guidava l'economia italiana, circondato da un team di comprovata competenza», aggiunge il giornalista americano esperto di economia. E ormai innamorato pazzo di Mario. Pronto a contenderselo con il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che ha bruciato tutti sul tempo qualche mese fa ricordando cosa succedeva nei passati G20: «Quando parlavano i Paesi di seconda fila, i Paesi di prima fila spegnevano gli auricolari. Ora quando parla Draghi tutti sono in ascolto. Da quando non succedeva? Da Ottaviano Augusto. Draghi supera anche i leader regionali come Cavour e De Gasperi nel bene, e come Mussolini nel male. La sua credibilità ha una dimensione globale». Cosmica, o almeno galattica, obietterebbe Friedman. O altri cantori del mito draghiano. Non solo sulla stampa ma anche in tv dove mirabile è stata la colonna sonora scelta per alcuni servizi sul G20: We are the champions dei Queen, o Zitti e buoni dei Maneskin. Un'apoteosi. Roba da campioni del mondo. O da groupies scatenate per la star di Palazzo Chigi. Tutto questo entusiasmo, whatever he does, tutta questa irrefrenabile campagna di beatificazione, tutti questi inchini di chi, per il mestiere che fa, dovrebbe avere la schiena sempre dritta, faranno bene a Mario Draghi? Noi crediamo di no. Poche cose danneggiano la leadership e rovinano lo stato come l'adulazione. Non a caso Dante spedisce gli adulatori nella seconda delle Malebolge, condannati a essere immersi nello sterco fino al busto: «Ed elli allor, battendosi la zucca: / Qua giù m' hanno sommerso le lusinghe / ond'io non ebbi mai la lingua stucca».
Il laboratorio della storica Moleria Locchi. Nel riquadro, Niccolò Ricci, ceo di Stefano Ricci
Il regista Stefano Sollima (Ansa)
Robert F.Kennedy Jr. durante l'udienza del 4 settembre al Senato degli Stati Uniti (Ansa)