2019-06-25
Università svenduta ai centri sociali
Anni di abusi impuniti, raduni con droga e alcol gestiti dai centri sociali, finché c'è scappato il morto. I templi del sapere ormai sono perduti e c'è lo scaricabarile fra le forze dell'ordine e il rettorato, secondo il quale non si poteva sgomberare «perché siamo inclusivi». Tutti sapevano. E nessuno ha fatto niente per fermarlo. Lo scandalo nello scandalo è che il sangue, versato dal giovane Francesco sul muretto della Sapienza, ha sollevato il velo su una seconda tragedia: non abbiamo perso soltanto un ventiseienne laureato che stava festeggiando la sua prima assunzione. Abbiamo perso anche l'università italiana. Essa, infatti, è stata svenduta. Evidentemente. Per un pugno di soldi. Lo dimostra proprio la Sapienza, il più grande ateneo del nostro Paese, caduto ormai nelle mani dei centri sociali: bande di prepotenti organizzati che usano gli spazi accademici per le feste illegali, per il commercio di alcol e droga, per far soldi, insomma. E per far soldi si appropriano delle aule, dei cortili, del tempo, delle notti, trasformando i locali destinati allo studio in un palcoscenico di esibite e lucrose irregolarità. Ciao mamma, vado all'università. Chi lo immaginava che fosse per laurearsi in rave. Eppure tutti lo sapevano. Tutti. Rettore, prorettori, professori, questori, vicequestori, istituzioni accademiche e organi dello Stato. Tutti sapevano. E tutti hanno chiuso un occhio anzi tutti e due, anno dopo anno, mese dopo mese, party dopo party, perché non potevano disturbare l'onda rossa del business mascherato da impegno civile. Non hanno la forza di dire basta. Forse non hanno la convenienza di dire basta. Forse hanno paura. O forse peggio. Forse, in fondo, guardano perfino con un po' di simpatia quelle feste all'insegna della «convivenza alternativa», «ora e sempre resistenza» e «su il dito medio per Salvini». Così hanno permesso tutto, illegalità dopo illegalità, fino all'altro giorno, quando ci è scappato il morto. E adesso si difendono dicendo: «Noi non potevamo farci niente». Ma come «non potevate farci niente»? Potevate impedire quei rave, per esempio. Eccome se potevate. Anzi, più: dovevate. E perché non lo avete fatto? Forse perché l'ultimo si chiamava «Sapienza porto aperto»? E il «porto aperto», si sa, suona sempre tanto bene? È patetico il prorettore della Sapienza, Renato Masiani, che balbetta le sue scuse davanti ai microfoni: «Sapevamo che c'era la festa illegale, ci siamo premuniti di fare quello che si poteva fare». Ci siamo premuniti? E come? Lasciando che centinaia di ragazzi (e meno ragazzi) bivaccassero nell'illegalità? La questura era stata informata, ma fa sapere di non avere avuto nessuna richiesta esplicita di usare la forza, richiesta che (dicono loro) sarebbe necessaria per entrare nell'ateneo. Ma anche questo è un po' strano, no? Se la questura avesse scoperto che nell'ateneo si stavano organizzando sacrifici umani o stupri di gruppo che faceva? Aspettava l'autorizzazione del rettore per intervenire? E se il rettore, per dire, era impegnato a giocare a golf alle Seychelles? O stava in vacanza alle Maldive? Che faceva la questura? Lasciava proseguire stupri e sacrifici? Davvero? Senza «richiesta esplicita» non si interviene a mettere fine a nessuna illegalità? O forse l'illegalità dei centri sociali che organizzano i loro festini è considerata meno grave? Più tollerabile? Quasi utile? Viene il sospetto che l'università italiana sia finita proprio per questo. Perché qui, in quello che dovrebbe essere il tempio del sapere, il concerto irregolare con annesso spinello e birretta esentasse sembra godere di maggior favore della regolare lezione di diritto civile o, peggio, penale. Che palle, questo Stato che vuol far rispettare la legge, per fortuna stasera si comincia con le «lotte sociali» e i «flussi metropolitani» per riportare «l'università al centro della resistenza» al fianco dei «nuovi partigiani». Capito, compagni? Fate quello che vi pare. Tanto nessuno ve lo vieta. Il prorettore Masiani, infatti, davanti a precisa domanda sullo sgombero, prima la spara grossa: «Per sgomberare ci vuole l'occupazione, e la festa non è un'occupazione perché dura soltanto poche ore…». Poi ammette: «Lo sgombero non è l'approccio migliore. Noi siamo inclusivi». Sono inclusivi, ecco. E così includono l'illegalità. E quel che ne consegue, morte compresa. Del resto che la Sapienza sia luogo di periodici festini esagerati e non autorizzati lo sanno tutti. L'ultimo si è tenuto dall'8 al 10 maggio, con il nome invitante di Teppa Fest-Resistenza Metropolitana, con la partecipazione di Sapienza Clandestina (sic) e Sovvertiamo la Metropoli (sic). È da alcuni anni che l'ameno convivio Teppa Fest, si tiene dentro gli spazi dell'Università, solo in un caso (nel 2018) è stato interrotto dalla polizia. I partecipanti si sono prontamente rifatti, replicando con un rave, sempre illegale, lo scorso settembre. L'anno accademico deve pure cominciare nel migliore dei modi, no? Qualcuno prima o poi glielo spiegherà agli italiani che pagano le tasse per sostenere l'università, sperando di avere buoni medici, buoni ingegneri, financo buoni architetti. Qualcuno glielo spiegherà che invece stanno finanziando strutture a disposizione dei centri sociali che inneggiano alla «Teppa» e vogliono «sovvertire la metropoli». Ma la cosa più grave è che lo fanno da sempre, da impuniti, come fosse normale, sfruttando i rettori che vogliono «essere inclusivi» e le Questure che tentennano. E così, party dopo party, i templi del sapere sono diventati epicentri dell'illegalità, zone franche dello sballo, droga libera e alcol low cost, dove gli studenti lasciano spazio ai professionisti dei rave, organizzatori seriali di Teppa Fest, tutto regolarmente clandestino eppure tutto regolarmente propagandato sui social, noto e stranoto, denunciato e conosciuto. Ora, dopo la morte del giovane laureato, la Procura indaga per omicidio colposo. E ci chiediamo come potrà ignorare la colpa di chi sapeva e, nonostante sapesse, ha permesso tutto ciò. Lo faccia. Per salvare Francesco è tardi, per salvare l'università forse no.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)