2024-04-09
La casta intellettuale antirazzista esercita un vero terrore culturale
Esce in una nuova edizione il pamphlet incendiario di Richard Millet contro i gendarmi del pensiero unico. «Opporsi a questa ideologia dominante equivale a indossare un abito di infamia e a subire un linciaggio».«Non è possibile sopravvivere come civiltà in uno stato di vergogna umiliante. Sono molto sospettosa nei riguardi di tutto questo senso di colpa. Di solito viene utilizzato dai bianchi per affermare la superiorità sugli altri bianchi. Il vero senso di colpa è una sensazione terribile. Non è qualcosa da ostentare, purtroppo. E non è quello che stanno sperimentando queste persone. Questo è un senso di colpa orgoglioso. Viene utilizzato per zittire le persone, essenzialmente per privare gli altri del diritto alla libertà di parola. Sai, sei stato privilegiato, quindi ti toglieremo tutti i privilegi e li daremo ad altre persone. Non funziona. Ha tutto a che fare con il senso di colpa ereditario. E lo rifiuto a priori». Lionel Shriver - scrittrice britannica di enorme talento e notevole successo (tra i suoi bestseller Dobbiamo parlare di Kevin, trasposto sul grande schermo nel 2011 e I Mandible) - con poche parole è arrivata dritta al cuore della «questione woke». Lo ha fatto in una lunga chiacchierata con il Daily Telegraph, presentando il suo romanzo Mania: una sorta di distopia che si cala nelle profondità oscure e limacciose della mentalità occidentale, lì dove affondano le radici del politicamente corretto. Una deriva già nota da parecchio tempo, di cui già il critico Robert Hughes aveva colto la pericolosità nel fondamentale La cultura del piagnisteo, pubblicato nei primi anni Novanta. Una deriva che non cessa di mietere vittime, e che si tratti di opere d’arte da correggere, emendare e censurare o di intellettuali da spedire al rogo non fa molta differenza.Tra i più illustri martiri della «cultura della cancellazione» va annoverato uno dei più straordinari intellettuali europei, considerato in un tempo lontano un maestro della letteratura francese e in seguito trattato da paria, emarginato, vilipeso e privato persino del lavoro. Trattasi di Richard Millet, letterato dei più raffinati e redattore di Gallimard a cui si deve la pubblicazione de Le Benevole di Jonathan Littell (vincitore del prestigioso premio Goncourt), autore che La Verità ha avuto il privilegio di enumerare tra le firme. Per via di un pamphlet polemico sul multiculturalismo finì nel mirino - erano i primi anni Dieci del Duemila - della cricca di intellettuali impegnati guidata da Annie Ernaux, che lo accusarono di essere un reazionario e un fascista, nientemeno, e ne sancirono la cacciata dal bel mondo letterario. Da quella esperienza Millet ricavò un libro fulminante intitolato L’antirazzismo come terrore letterario, pubblicato nel 2012 e portato in Italia dall’editore Liberilibri. Ora, a dodici anni dalla prima uscita, questo breve ma fondamentale scritto ritorna in libreria, sempre con la curatela di Renato Cristin, e a rileggerlo appare ancora più efficace e rilevante. Il «totalitarismo angelico», il «terrore letterario» del nuovo giacobinismo che aveva metaforicamente decapitato Millet ha allargato la sua azione, e ogni giorno abbiamo nuove prove della sua geometrica potenza. Le cosiddette «guerre culturali» sono all’ordine del giorno e, in effetti, all’ordine del giorno è il terrore per chiunque non si sottometta alla cultura dominante. Chi osa sostenere che la cultura europea non sia svendibile o smantellabile in nome della accoglienza, chi contesta il meccanismo della immigrazione di massa, chi rifiuta la mordacchia buonista è immediatamente accusato di razzismo, e dunque escluso dal novero dei presentabili. Anche se è molto difficile sostenere che esista un razzismo diffuso o «sistemico», come si usa dire, «l’ideologia antirazzista ha bisogno di inventarlo per giustificare il terrore permanente che essa esercita su tutti, a partire dagli scrittori, ai quali rimane solo la scelta fra la collaborazione (a cui acconsente la maggioranza, soprattutto gli indignati) e il rifiuto di questo terrore», scrive Millet. «Opporsi a questa ideologia dominante equivale a indossare un abito di infamia». Secondo l’autore francese, «in un mondo dai valori interamente rovesciati e in cui la parola vietata di razza diventa l’ossessiva metafora della donna, dell’obeso, del “giovane”, dell’animale eccetera, gli antirazzisti si dedicano, in nome del Diritto, a ciò in cui si sono distinti i razzisti più violenti: linciaggio mediatico, condanna giudiziaria, distruzione dell’uomo libero». Millet ha colto perfettamente il punto: «Viene dunque dichiarato razzista, oggi, colui che contesta non l’eguaglianza delle razze e delle etnie, ma il Nuovo Ordine politico-razziale dispiegato, nei Paesi europei, dal capitalismo mondializzato, con la collaborazione attiva del complesso mediatico-culturale, in particolare quello degli scrittori». La gnosi antirazzista, così la definisce Millet, impone una nuova «purezza politica» a colpi di maglio, e gli «eretici» che la rifiutano passano al non tenero vaglio dell’Inquisizione liberal. Quando Millet scriveva queste pagine la parola woke non era ancora entrata di prepotenza nel dibattito politico, e ancora non era stata definita la «cultura della cancellazione». I picchi di immigrazione sul territorio europeo dovevano ancora verificarsi, ma si manifestavano già clamorosi esempi di sottomissione e certo non mancava l’astio neopuritano dei gauchiste. E mentre le popolazioni europee (o comunque larga parte di esse) iniziavano a rendersi conto che qualcosa non andava, la gran parte degli intellettuali preferiva, al solito, adeguarsi al Nuovo Ordine Morale. Così il Terrore ha proseguito a diffondersi, si è allargato ben oltre i confini dell’antirazzismo, e oggi esplode nelle università, nelle scuole pubbliche, nei consigli comunali e nelle più varie manifestazioni pubbliche. Rileggere oggi le pagine profetiche di Millet serve come antidoto alla follia collettiva e, se non altro, consegna una grande lezione: nessuno è al sicuro, nemmeno chi si crede al riparo per via del suo servilismo.