Per investire in fondi e polizze è meglio andare in banca oppure alle Poste?

Meglio banche o Poste per investire il risparmio in fondi e polizze?
In banca o in Posta? Questo è il dilemma. Una volta nella gestione del risparmio le Poste erano famose per i buoni fruttiferi postali che presentavano tassi super-generosi con i risparmiatori-investitori.
Oggi invece le Poste sono diventate un colosso finanziario che fa concorrenza a banche e società finanziarie, ma dei buoni davvero redditizi di un tempo - classico regalo di nonne e zii per costruire un gruzzoletto ai loro nipotini - non c’è neppure più l’ombra. Al loro posto sono arrivati fondi comuni, fondi pensione, polizze Vita, conti correnti: tutti strumenti che fanno delle Poste un operatore finanziario a tutti gli effetti.
CARI VECCHI BUONI
E i buoni postali che fine hanno fatto? In verità c’è una loro versione moderna, anzi più versioni, visto che si sono moltiplicate le tipologie, ma i tassi offerti sono purtroppo davvero bassi: oggi si arriva all’1,5% lordo annuo (2,5% quelli per i minorenni). Resta però l’assenza di costi di sottoscrizione e di rimborso, salvo gli oneri fiscali, che comunque sono agevolati dato che la tassazione sui rendimenti è del 12,5% (rispetto all’aliquota standard del 26%) e non è prevista un’ imposta di successione (ma pagano l’imposta di bollo dello 0,2% annuo sul capitale per investimenti superiori a 5 mila euro, come tutti gli altri strumenti finanziari, a parte i fondi pensione e le polizze vita tradizionali). Possono inoltre essere acquistati anche online tramite una app. Anche i libretti postali offrono al momento rendimenti molto bassi. Per quanto riguarda la sicurezza dei soldi depositati, conti, buoni e libretti postali sono garantiti dallo Stato perché le Poste sono partecipate dalla Cassa Depositi e Prestiti e dal ministero dell’Economia (rimasti in maggioranza nel capitale dopo la quotazione in borsa del gruppo, oggi guidato dall’amministratore delegato Matteo Del Fante). Invece i conti bancari sono coperti dal Fondo Interbancario fino a 100 mila euro per depositante. Semplicità d’uso, capillarità della rete di uffici (quasi 13 mila in tutto il territorio) e offerta low cost fanno delle Poste un punto di riferimento per gli investimenti e per il risparmio che non ha uguali tra banche e società di gestione, d’altra parte queste ultime hanno un’offerta molto più variegata e sofisticata che si presta a chi ha maggiori esigenze di pianificazione patrimoniale, sia per l’entità degli asset sia per gli obiettivi da raggiungere. Ecco allora, prodotto per prodotto, un confronto tra banche e Poste.
FONDI COMUNI
In tutto le Poste offrono 15 fondi senza però avere una eccessiva specializzazione (due obbligazionari, sei bilanciati, cinque flessibili e due azionari). Un’offerta che si può definire «basic». Hanno portafogli non troppo articolati appunto per coprire risparmiatori non troppo esigenti in termini di diversificazione: ad esempio, i due azionari comprendono un fondo che investe sulle azioni di tutto il mondo e un azionario area euro. Molto più profonda è invece la proposta delle società di gestione italiane ed estere: l’ultima moda sono ad esempio i fondi azionari tematici, ovvero esposti a specifici settori come la salute, la tecnologia o addirittura il cibo o l’acqua. I fondi delle Poste sono in diversi casi dati in delega di gestione a società esterne: ad esempio, l’azionario internazionale è seguito da Anima, che lo gestisce con costi più bassi rispetto ai suoi fondi: nel 2021 ha avuto spese dell’1,74% rispetto al 2,14% dell’omologo azionario internazionale di Anima. Il rendimento nel 2021 è stato nel primo caso del 27,15% e nel secondo del 29,7%. Offrono poi la possibilità di investire a rate, da 50 euro al mese con addebito automatico sul conto BancoPosta o sul libretto postale.
GESTIONI DIGITALI
L’offerta delle Poste si è arricchita di recente di linee di gestione patrimoniali attivabili online tramite un conto corrente BancoPosta o un libretto Smart. Sono in totale sette linee, tutte in Etf (Exchange Traded Fund) con investimento minimo da 5 mila euro. Sono gestite da Moneyfarm a costi bassi (dall’1% annuo fino a 0,4% in base agli importi investiti) rispetto alle gestioni offerte dalle banche o dalle sim (attorno al 2%) proprio perché hanno in portafoglio strumenti low cost come gli Etf (presentano spese attorno allo 0,5% annuo che si aggiunge al citato costo di gestione della linea). Invece le tradizionali gestioni delle banche sono solitamente in fondi, i cui costi si aggirano intorno all’1,5%. Inoltre anche la soglia di ingresso di 5 mila euro è più bassa rispetto a quella che gli istituti di credito fissano per poter accedere alle proprie gestioni.
POLIZZE E PENSIONI
Nel segmento delle polizze Vita non ci sono molte differenze tra il gruppo Poste e le compagnie assicurative, anche perché in questo caso sono gestite internamente da Poste Vita, la società assicurativa del gruppo, e anche i costi appaiono in linea. Più conveniente è invece il Piano individuale pensionistico (pip), ovvero la polizza ai fini previdenziali che rientra tra gli strumenti per costruire una rendita integrativa alla pensione pubblica al pari dei fondi pensione aperti o dei fondi pensione negoziali con i relativi benefici fiscali di cui godono tutti questi prodotti. Solitamente una spina nel fianco dei pip sono i costi, più elevati rispetto ai fondi negoziali (che sono i meno cari) e ai fondi pensione aperti (una via di mezzo). E ciò accade perché i pip, essendo polizze, presentano alcune garanzie assicurative che gli altri due tipi di fondi non hanno. Ma nel caso del suo pip il gruppo Poste ha scelto di posizionarsi in una fascia di prezzo media, allineata a quella dei fondi pensione aperti. E i costi in un orizzonte di lungo periodo come quello della previdenza integrativa giocano un ruolo rilevante nel determinare la prestazione finale. La Covip afferma che un costo del 2% invece che dell’1% può ridurre il capitale accumulato dopo 35 anni di partecipazione di circa il 18% (ad esempio, lo riduce da 100 mila euro a 82 mila euro) a parità di rendimento.
«Questi prestiti non sono gratis, costano in questo momento […] poco sopra il 3%». Finalmente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti fa luce, seppure parzialmente, sul grande mistero del costo dei prestiti che la Commissione ha erogato alla Repubblica italiana per finanziare il Pnrr. Su un totale inizialmente accordato di 122,6 miliardi, ad oggi abbiamo incassato complessivamente 104,6 miliardi erogati in sette rate a partire dall’aprile 2022. L’ottava rata potrebbe essere incassata entro fine anno, portando così a 118 miliardi il totale del prestito. La parte residua è legata agli obiettivi ed ai traguardi della nona e decima rata e dovrà essere richiesta entro il 31 agosto 2026.
Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’islamo-socialismo. Da New York a Birmingham, dalle periferie francesi alle piazze italiane, cresce ovunque la sinistra di Allah, l’asse fra gli imam dei salotti buoni e quelli delle moschee, avanti popolo del Corano, bandiera di Maometto la trionferà. Il segno più evidente di questa avanzata inarrestabile è la vittoria del socialista musulmano Zohran Mamdani nella città delle Torri Gemelle: qui, dove ventiquattro anni fa partì la lotta contro la minaccia islamica, ora si celebra il passo, forse definitivo, verso la resa dell’Occidente. E la sinistra mondiale, ovviamente, festeggia garrula.
Ma li sentite? Il Pd è corso a celebrare la vittoria a Brooklyn, esattamente come ieri celebrava quelle a Madrid, Londra e Rio de Janeiro (il Papa straniero è una nota pomata elettorale che lenisce il dolore per le italiche batoste). E non s’accorge di quello che sta avvenendo. O forse se ne accorge e pensa di sfruttarlo: se Parigi val bene una messa, s’illudono, Roma non può valere una Mecca? Non è da ora, per altro, che la sinistra strizza l’occhio agli ayatollah: Jean-Paul Sartre, idolo di molti degli attuali campioni dell’internazionale islamo-socialista, si era iscritto al comitato di sostegno di Khomeini e inneggiava ai pasdaran. C’è una differenza, però: allora sotto attacco c’era lo scià. Oggi, invece, sotto attacco ci sono le nostre libertà.
Guardate il video che hanno diffuso ieri gli islamici di Birmingham. Ci sono alcuni di loro vestiti di nero e incappucciati che tappezzano la città di bandiere e volantini. Musica araba di sottofondo, gesti di dominio, messaggio chiaro: qui comandiamo noi. L’occasione è stata la partita di Europa League Aston Villa-Maccabi Tel Aviv: le autorità inglesi hanno vietato ai tifosi israeliani di seguire la loro squadra nella trasferta inglese. Ma ai musulmani di Birmingham ciò non è bastato. Hanno voluto mostrare i muscoli, come ha notato sui social il giornalista Leonardo Panetta, «forti dell’abbraccio caloroso del mondo progressista». A Birmingham i musulmani rappresentano il 30%o della popolazione. Voti che fanno gola all’internazionale islamo-socialista. Voti che fanno vincere le elezioni. Proprio come è successo a New York.
È l’inevitabile e pericolosa conclusione di anni di politiche suicide. Pensateci: la sinistra ha aperto le porte all’immigrazione incontrollata, ha favorito la distruzione delle nostre radici cristiane, ha permesso che la laicizzazione della società lasciasse il passo alla sua progressiva islamizzazione. Questo è il risultato: sono state abbattute una dopo l’altra le statue della Madonna ma proprio a Birmingham due anni fa è stata innalzata una statua alla donna con il velo. Ci sono intere zone della nostra Europa dove, con il silenzio complice dei profeti dell’accoglienza e dell’integrazione, si applica la sharia. L’altra settimana a Sesto San Giovanni, non a Teheran, una donna è stata aggredita perché non portava il velo. Nessuno ha protestato. L’Europa vuole sostituire il Natale con la festa d’inverno ma intanto, nelle scuole, si festeggia il Ramadan. Se una maestra fa dire un’Ave Maria viene sanzionata, se i bambini vengono portati in moschea e costretti a inginocchiarsi verso La Mecca tutti applaudono. Ovvio, no? I voti degli islamici fanno gola.
Già: con i voti degli islamici si vince, lo ha dimostrato il socialista Mamdani a New York, prima di lui il laburista Sadiq Khan a Londra. In Francia la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon ha sfondato elettoralmente nelle banlieu proprio sfruttando imam, moschee e persino i Fratelli musulmani. Quest’estate in Gran Bretagna Jeremy Corbyn ha lanciato insieme con Zarah Sultana il partito islamista-marxista. E in Italia la sinistra radicale di Avs strizza l’occhio a Mohammad Hannoun, leader dei palestinesi, già finito nell’elenco Usa dei terroristi, per provare a trasformare in voti le piazze pro Pal. Il risultato elettorale nella Grande mela ridà fiato a tutti loro: ora e sempre Resistenza, ma anche un po’ di jihad. Stamattina mi son svegliato e ho trovato il muezzin.
Ma stanno giocando con il fuoco. Quello che sta avvenendo, infatti, è chiaro: la conquista dolce dell’Europa da parte dell’islam è a un punto di svolta. Che passa proprio per la via istituzionale. Quando gli islamici provarono a conquistare l’Europa con le armi, furono sempre sconfitti: Poitiers 732, Lepanto 1571, Vienna 1683… Ora, invece, usano le armi della demografia e della democrazia, passando per i canali istituzionali, e noi ci inchiniamo e addirittura festeggiamo trulli trulli, come fa la sinistra. Michel Houellebecq l’aveva scritto, ora si sta avverando. Ogni giorno arriva un segnale preoccupante, anche se molti non lo vogliono vedere. Al ministero degli Interni inglese c’è una laburista che dice: «È l’islam a guidare le mie azioni». In Italia si sono già fatte (a Monfalcone) le prime prove tecniche di partito islamico. A New York viene eletto il primo sindaco islamico. E a Birmingham gli islamici fanno capire che vogliono comandare loro.
Tra non molto, temo, sarà così evidente che ce ne accorgeremo tutti. Ma allora sarà troppo tardi.
Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.
Una decisione contestata da Alfredo Robledo, titolare di una delle inchieste, ma la sua denuncia portò solo al trasferimento a Torino dello stesso Robledo. L’allora titolare della Procura, Edmondo Bruti Liberati, ancora oggi rivendica la decisione e spiega che senza quell’impostazione Expo avrebbe rischiato l’insuccesso. «Se si vuole chiamare questa sensibilità istituzionale», dice ora, «io sono d’accordo». Del resto, per salvare Expo si mosse pure Giorgio Napolitano, il quale per giustificare l’operazione di salvataggio della manifestazione spiegò che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non sono patrimonio del singolo magistrato, ma dell’ufficio nel suo complesso. Dunque, Robledo aveva poco di cui lamentarsi, perché l’autonomia e l’indipendenza erano garantite dal suo capo, in quanto titolare della Procura.
Ricordo l’episodio a distanza di dieci anni, non soltanto perché con la riforma della giustizia oggi è tornata di moda la questione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, ma per rappresentare che, quando ci sono state di mezzo manifestazioni o opere pubbliche di interesse nazionale, è prevalsa quella che Bruti Liberati chiama sensibilità istituzionale. L’ex procuratore capo ovviamente non la spiegherebbe mai così, ma diciamo che su Expo pm e giudici si mossero con i guanti bianchi, forti probabilmente anche della lettera con cui il capo dello Stato, ossia il presidente del Consiglio superiore della magistratura, avallò l’operato della Procura. Al contrario, a causa del clima reso incandescente da una riforma osteggiata dall’Anm, oggi anche opere pubbliche e manifestazioni di rilievo internazionale ne fanno le spese. Al Quirinale non c’è più Napolitano e al suo posto da dieci anni si è insediato Sergio Mattarella. E a Palazzo Chigi non c’è Renzi ma Giorgia Meloni. Dunque, la sensibilità istituzionale le toghe la sentono meno. O forse non la sentono affatto. Risultato, dopo la sentenza della Corte dei Conti che rischia di minare alla base il progetto del Ponte sullo stretto, ecco arrivare un ricorso del gip di Milano contro la fondazione Milano-Cortina. Il decreto del governo, che l’ha istituita in vista delle Olimpiadi invernali, la considera un ente di diritto privato, forse per metterla al riparo da eventuali indagini per turbativa d’asta (reato che riguarda la pubblica amministrazione e per consumare il quale può bastare una decisione che punti a sveltire l’iter di un appalto o di un contratto). Ma per il giudice per le indagini preliminari, aver stabilito che le attività della fondazione sono regolate da norme di diritto privato, consentendo dunque all’ente di operare sul mercato in condizioni di concorrenza e con criteri imprenditoriali, sarebbe incostituzionale. Di qui la decisione di sottoporre il quesito sulla legittimità del decreto direttamente alla Consulta. In pratica, la magistratura (la richiesta del gip è stata sollecitata dai pm), messa da parte la sensibilità istituzionale, vorrebbe ottenere il semaforo verde per continuare a indagare e fors’anche processare i vertici della fondazione. Che, come Expo, anche Milano-Cortina sia un evento di portata internazionale poco importa. E che uno stop a un’opera d’interesse pubblico possa diventare un problema d’immagine, per i giudici non sembra d’impedimento, così come in passato non lo furono le inchieste su Tap e Mose pure se conclusesi con un nulla di fatto. Per altro adesso ci sono i centri in Albania. Non contenti di aver svuotato o quasi le strutture per migranti costruite sulla sponda opposta dell’Adriatico, ora i giudici puntano a far dichiarare illegittimo, dalla Corte di giustizia europea, qualsiasi trasferimento all’estero di extracomunitari in attesa di espulsione, mettendo così la parola fine al progetto e all’investimento a Tirana.
In pratica, la guerra tra governo e magistrati prosegue ogni giorno senza esclusione di colpi e da qui al referendum probabilmente ne vedremo delle belle. Così, mentre vi preparate al peggio, segnalo l’ennesima sentenza che lascia (semi) libero un migrante. Per di più sospettato di terrorismo.












