2020-05-12
«Il vestito verde di Silvia? Roba da jihadisti»
Maryan Ismail, somala e musulmana sufi, ha perso un fratello per mano di Al Shabaab. E ora avanza dubbi sulla celebrata conversione della Romano: «Non poteva essere libera di scegliere. Ha incontrato la religione dei qaedisti che è un abominio». Maryan Ismail della Somalia conosce i colori, le parole dolci della poesia. Ma pure le zone d'ombra, i deserti spietati, la violenza. Docente di Antropologia dell'immigrazione, a lungo impegnata in politica a Milano prima con il Pd (che ha lasciato in polemica dopo lunga militanza) poi con Energie per l'Italia - Maryan, musulmana sufi, è forse la voce più forte e visibile della comunità somala in Italia. E non poteva non restare profondamente colpita dalla vicenda di Silvia Romano. La violenza di Al Shabaab, il gruppo jihadista che ha rapito la giovane cooperante italiana, è responsabile della morte del fratello della Ismail. Che, anche per questo motivo, da sempre si batte contro ogni deriva intollerante e liberticida dell'islam.Ieri Maryan ha pubblicato su Facebook un bellissimo post, che contiene entrambi gli aspetti della Somalia: il colore gioioso e la durezza arroventata dal sole. «Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva», ha scritto. «L'aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabaab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa. Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosiddetto volto “perbene". Gente capace di trattare, investire, fare lobbying, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo. Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi». Ed è così, con calma e decisione, che Maryan ha vergato la sua lettera a Silvia Romano. «Ho sentito il bisogno di scrivere questa lettera aperta a Silvia e alla sua famiglia», spiega alla Verità, «per approfondire la questione somala, per rassicurarla su fatto che la Somalia non è soltanto quella cultura violenta che ha sperimentato. Questa ragazza ha affrontato in maniera molto dura una esperienza drammatica nel mio Paese. Ho pianto di felicità quando l'ho vista libera: ogni vita che si salva dal jihadismo è preziosissima. Per me che sia stata salvata è il regalo più bello». Tuttavia, nel modo in cui i media e la politica hanno reagito al ritorno della cooperante ci sono anche parecchi aspetti che hanno ferito Maryan. «Mi ha dato fastidio il modo in cui è stata sbattuta nelle fauci della comunicazione. Le hanno tolto la libertà, ha dovuto affrontare tanta fatica, paura, disagio... Mi pare logico che abbia dei traumi». In particolare è il discorso sulla conversione di Silvia a toccare la Ismail. «Capisco che cosa le è successo», dice. «Io, se fossi stata in lei, mi sarei convertita a qualunque cosa, forse anche all'adorazione di un sasso pur di aver avuto salva la vita. In quella situazione sei talmente impaurito e pressato che puoi avere libertà di scelta». Già: a sentire Maryan, la conversione di Silvia «Aisha» Romano non è stata affatto «libera» come si dice. «Non può esserci stata una libera scelta. Oppressa, condizionata, spaventata: io penso che Silvia si sia trovata ad accettare questa conversione, e magari pure un eventuale matrimonio di cui poi, se vorrà, sarà lei a parlare». Il punto è: che genere di islam ha conosciuto Silvia? A quale religione si è convertita? «L'islam che l'hanno obbligata ad accettare», dice la Ismail, «è un islam jihadista. Non credo proprio che sia l'islam di una moschea sufi o quello che si impara in università e istituti. Nella savana con il fucile puntato addosso che razza di islam puoi avere compreso? E che cosa può avere compreso Silvia della cultura somala? Forse ha avuto modo di vivere la quotidianità di una Somalia tranquilla?». Secondo Maryan, l'islam a cui Silvia si è convertita (anzi, è «ritornata», come si dice in questi casi per sottolineare che ogni essere umano nasce musulmano) è una fede feroce e terribile. «È l'islam di gente che nel 2018 ha piazzato una autobomba nella piazza principale di Mogadiscio provocando 600 morti. È la stessa gente che ha ucciso 148 universitari cristiani in Kenya, che ha compiuto la strage di Nairobi. Gente che sgozza e violenta le donne, che fa fuggire una intera generazione di giovani somali dal loro Paese». Le parole della Ismail non sono certo un atto di accusa verso la Romano, tutt'altro. Maryan, quando parla della ragazza, si fa affettuosa, a volte preoccupata. Si irrita quando legge certe descrizioni della veste verde che la cooperante milanese indossava al ritorno. «Nella cultura somala abiti del genere proprio non esistono», spiega. «Noi abbiamo abiti sgargianti con cui coprici il corpo e la pelle. Siamo africani. I simboli, specie sul corpo delle donne, hanno grande valore. E quella sorta di tenda verde non ci rappresenta. Non è un nostro abito tradizionale: quella è roba jihadista, qaedista. Serve a segnare il corpo delle donne, a ribadirne il possesso. A causa dei jihadisti neanche le donne somale possono continuare a mettere i loro abiti tradizionali». Maryan sospira: «Ognuno può pensarla come vuole. L'unica che ci può dire quanto sia stata libera è Silvia. Ma non ora, ci vuole tempo. Io dico: se vuole convertirsi almeno non scelga quella roba che è stata spacciata per islam. Non ci si può convertire tenendo in mano da soli il Corano. Serve una guida». E non può essere la guida di Al Shabaab. «Quello è puro abominio», dice Maryan, grave. «È bestemmia verso Allah e tutte le vittime».