2018-11-28
Il professorone idolatrato dal Pd vince il premio Nobel per l’arroganza
L'atteggiamento dell'accademico è molto simile a quello del marchese del Grillo: umilia e bullizza chiunque si permetta di esprimere anche un semplice dubbio. Uno stile emblematico di un certo modo di fare politica. Confesso: fino a ieri non mi ero mai occupato di Roberto Burioni. Di lui sapevo il necessario, cioè, oltre al suo incarico di docente universitario, mi erano noti gli interventi polemici a favore dell'obbligo di vaccinazione. Dal titolo di un paio di suoi libri (Il vaccino non è un'opinione, La congiura dei somari. Perché la scienza non può essere democratica) ne avevo dedotto che, assieme a una innegabile competenza in campo immunologico, fosse fornito anche di una non modica quantità di arroganza. Messo da parte il curriculum, che certo è vasto e sostenuto da studi in numerose università estere, il suo atteggiamento è piuttosto simile a quello del marchese del Grillo. Ogni volta che si presenta in tv o scrive sui social, infatti, premette che lui è lui e gli altri non sono un cazzo e con questo, ergendosi al di sopra di qualsiasi interlocutore, chiude il discorso. Se non si ha una laurea pari alla sua in pratica non è consentito interloquire. A prescindere. È successo anche di recente, durante uno scambio di post su Facebook con un altro docente. Non un immunologo come Burioni, ma un filosofo della scienza. Siccome il secondo è professore a contratto, e non ordinario come il nostro marchese, il celebre medico lo ha liquidato dicendogli che se si è saliti in cattedra e a 40 anni si è ancora precari vuol dire che si è in pratica dei falliti. Dunque non si ha titolo per dare lezioni, per lo meno a lui, che dall'alto della sua docenza non può essere contraddetto da un professore a contratto. «Da contrattista», ha scritto Burioni, «lei mi sta facendo una lezione gratuita su come riuscire dove lei continua a fallire». Ma che aveva detto di tanto grave per essere trattato come uno studentello qualsiasi il filosofo della scienza? Semplice, aveva detto che il professor Burioni non sa comunicare. Sarà di certo un pozzo di scienza, ma quando apre bocca, va in tv e schiaffeggia tutti con toni boriosi si rivela una pozzanghera. «La scienza è una cosa buona», ha scritto l'uomo che ha osato mettere in discussione l'autorità indiscussa del marchese, «ma ci sono medici che ne hanno un'idea così ingenua e imbarazzante da fare danno alla scienza. Certo, non si può chiedere a tutti di conoscere un po' di filosofia della scienza. Però ignoranza e arroganza non aiutano se decidi di metterti a discutere nello spazio pubblico». Come sia finita la discussione sui social lo sapete. Burioni non ha mandato giù il consiglio del collega e ha rispedito al mittente proprio ciò che il mittente gli rimproverava. Scrivendogli non che sbagliava, ma che non aveva titoli - accademici, s'intende - per rivolgersi a lui. In pratica, dicendogli non sei un mio pari, Burioni ha confermato non solo l'immagine che si ha di lui, ma quel che pochi giorni fa ha detto all'assemblea nazionale del Pd il giovane candidato Dario Corallo, il quale lo ha portato ad esempio di un certo modo di fare politica, dove si umiliano le persone, bullizzando con le parole anche chi ha espresso un semplice dubbio. Cioè, ridotto all'osso, Burioni è Burioni e gli altri non sono un cazzo. Ma attenzione, quando si bullizza, poi si rischia di esagerare. Ed è quello che è accaduto al celebre e illuminato (nel senso di circonfuso di luce propria) marchese. Con squillo di trombe e di fanfare, il professore l'altroieri ha lanciato un suo sito contro le fake news. Si chiama Medical Facts e ha il compito di smascherare le bugie in campo medico. E qual è la prima che viene svelata? Quella riguardante gli extracomunitari: non sono gli immigrati che ci portano i batteri, ma siamo noi italiani a trasmetterli a loro. Tradotto: siamo noi gli untori. Chi lo dice? Uno studio di Lancet, nota rivista scientifica, che riporta i risultati di una ricerca condotta sui profughi. A leggere ciò che spiega il sito di Burioni, la ricerca sarebbe definitiva. Peccato che già sul sito della rivista si capisca che definitiva non è, ma si tratta di una «scoperta» tutta da valutare, innanzitutto perché - come ammettono gli stessi ricercatori - basata su dati un po' scarsi e poi perché a influire sulla diffusione dei batteri resistenti agli antibiotici non sono gli italiani, ma «le condizioni di viaggio» dei migranti per arrivare da noi. Quindi non siamo noi che li contagiamo, ma sono persone già ammalate che contagiano chi viaggia con loro. Del resto, lo stesso sito di Burioni spiega che «i batteri resistenti i migranti li contraggono quando sono costretti a vivere, pigiati con altre centinaia di persone, in condizioni inumane». Cioè certo non da noi, perché in Italia non ci risulta che gli immigrati siano pigiati come sardine. Dunque? La risposta è semplice: il sito anti fake news è stato inaugurato con una fake news. Per rendersene conto non serviva Lancet, bastava leggere i rapporti dell'Unicef, consultare i dati del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell'Istituto di sanità o leggere qualche articolo di persone del mestiere. Purtroppo, però, il marchese del Grillo non si abbassa a leggere, ma solo a twittare. Lui è Burioni e gli altri non sono un cazzo. Se non si ha una laurea pari alla sua e una docenza, si prega di non fiatare.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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