I giudici della Corte aprono all’eutanasia. Spalancate le porte al diritto di uccidersi
Le motivazioni con cui la Consulta legittima il suicidio assistito: l'autodeterminazione estrema prevale sulla tutela della vita.
Il 25 settembre, la Consulta ha dichiarato che, in alcuni casi, l'aiuto al suicidio non può essere punito. L'area «di non conformità costituzionale» del reato, sancito dall'articolo 580 del Codice penale, afferisce solo alle circostanze in cui «l'aspirante suicida» sia affetto da una patologia irreversibile, «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche» intollerabili e sia tenuto in vita artificialmente, «ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Ieri, i magistrati supremi hanno depositato la sentenza con la quale hanno illustrato le motivazione della decisione anticipata due mesi fa.La Corte costituzionale, come si leggeva già nel comunicato di settembre, ha ribadito che a verificare la sussistenza delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio devono essere «strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale», previo l'intervento dei «comitati etici territorialmente competenti». Requisiti chiaramente assenti nel caso di Marco Cappato, sul quale le toghe della Consulta erano state chiamate a pronunciarsi dalla Corte d'assise di Milano. Nel febbraio 2019, l'attivista radicale aveva accompagnato l'ex dj paraplegico, Fabiano Antoniani, a morire in una clinica svizzera. Tutto si era svolto, insomma, al di fuori del Ssn italiano e senza alcun intervento dei comitati etici territoriali. Nondimeno, la Corte ha stabilito che Cappato non può essere condannato. Per i giudici, «riguardo ai fatti anteriori» alla sentenza, «la non punibilità dell'aiuto al suicidio rimarrà subordinata [...] al fatto che l'agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee [...] a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti». Ma così, la Corte costituzionale mette nero su bianco che, in fin dei conti, interpellare una struttura della sanità pubblica nazionale e i suoi comitati etici è «sostanzialmente equivalente» a portare un malato in una clinica svizzera - la Dignitas - che ricava profitti dai suicidi assistiti, utilizza procedure mai vagliate dal Ssn italiano e, soprattutto, accetta di mettere a morte finanche i pazienti depressi. Basti pensare alla vicenda, svelata da Verità e Panorama, di Alessandra Giordano, la quarantaseienne catanese depressa suicidatasi in quella clinica di Zurigo nel marzo 2019.Il salvataggio ex post di Cappato, naturalmente, ha scatenato l'esultanza dell'imputato e dell'associazione Luca Coscioni. Entrambi hanno subito esplicitato qual è il loro vero obiettivo: «Prossimo passo», ha twittato l'organizzazione, «la legalizzazione dell'eutanasia».Nel dispositivo della sentenza della Consulta, comunque, emergono diversi aspetti controversi. I giudici spiegano che la loro decisione non avalla i rilievi della Corte d'assise meneghina sul primato del diritto all'autodeterminazione, rispetto all'obbligo di tutelare la vita, definito tipico del «regime fascista» dalle toghe del capoluogo lombardo. Tuttavia, nei fatti, i magistrati supremi certificano che la vita non è più un bene sacro e intangibile, spalancando le porte - magari involontariamente - al diritto alla morte. Né sorprende leggere che l'appiglio giuridico l'ha offerto la legge sulle Dat, l'ultimo «regalo» del governo Gentiloni. La Corte costituzionale osserva infatti che i soggetti nei confronti dei quali è lecito agevolare il proposito di suicidio sono quelli «che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari» salvavita. Come volevasi dimostrare: il testamento biologico era il sentiero appena più tortuoso per arrivare all'eutanasia.Resta però oscura ogni eventuale distinzione tra eutanasia attiva e passiva. Ai sensi della norma, chi ha sottoscritto le Dat ha manifestato, come esige la Consulta, una volontà di morte «autonomamente e liberamente formatasi». Ma, a differenza di quanto fatto da Dj Fabo, un uomo in coma non può attivare un meccanismo per la somministrazione di un farmaco letale. È lecito, in quei casi, accelerare la morte del paziente, anziché limitarsi a interrompere alimentazione e nutrizione? Tra noi e l'abisso, ora, non resta che un ultimo presidio, salvato dalla sentenza di ieri: l'obiezione di coscienza dei medici.