I giornalisti e l’autocensura rossa. Di invidia

I giornalisti e l’autocensura rossa. Di invidia
Nancy Porsia (Ansa/iStock)

Continua la tiritera contro l'inchiesta di Trapani in cui sono coinvolte alcune Ong. Siccome nel calderone delle intercettazioni è finita anche una giornalista pro migranti, fior di colleghi si sono schierati contro le indagini, chiedendo di censurare i magistrati che hanno osato ascoltare le riservatissime conversazioni.

L'Ordine dei giornalisti, che da anni personalmente ritengo un ente inutile da abolire (in altri Paesi, dove la libertà di stampa è pure meglio garantita, non esiste), ha addirittura scomodato il presidente della Repubblica, chiedendone l'immediato intervento. Le proteste hanno pure smosso il Guardasigilli, Marta Cartabia, che a Trapani ha spedito degli ispettori del ministero allo scopo di accertare irregolarità. Tuttavia, nonostante il grande agitarsi di questi giorni, credo non che non ci sia da preoccuparsi. Come ho già scritto, non esiste alcun vulnus alla democrazia, semmai al buonsenso. I giornalisti sono cittadini come tutti gli altri e come tutti gli italiani - parlamentari esclusi da una garanzia costituzionale - possono essere intercettati. Questo dice la legge, che dunque non è stata violata, ma soltanto applicata.

Se torno a parlare della faccenda però, è perché coloro che si lamentano sono gli stessi che fino a ieri erano schierati a difesa delle stesse intercettazioni, di cui rivendicavano il diritto alla pubblicazione, denunciando il rischio di una limitazione all'esercizio della libertà di stampa. Quella che fino a ieri era una garanzia a tutela dei cittadini, che hanno il diritto di essere informati, all'improvviso si è trasformata nel suo contrario, ossia in una violazione della privacy giornalistica, anzi in un attentato al segreto professionale, che non è previsto dalla legge, ma solo da un regolamento della categoria.

Ciò detto, vorrei però ricordare ai vari indignati speciali che ora si agitano e reclamano censure, che in passato molti giornalisti sono stati intercettati, ma non essendo dalla parte giusta, cioè non scrivendo per giornali di sinistra e non difendendo i migranti, nessuno si è lamentato. Faccio il direttore da qualche decennio e ho memoria di molti miei colleghi che hanno patito l'invasività delle intercettazioni telefoniche. Non per un giorno, ma per mesi. Uno di questi è il bravo Gian Marco Chiocci, oggi direttore dell'agenzia di stampa Adnkronos: ogni sua conversazione telefonica, anche quelle private, fu ascoltata e trascritta e il privilegio di essere spiato non fu riservato solo a lui, ma anche ai familiari. La stessa cosa è capitata pure a un altro bravissimo cronista come Gianluigi Nuzzi, che fu pedinato per settimane e intercettato per altre. Anche nel suo caso, gli ascolti furono estesi alla cerchia di chiunque fosse in contatto con lui, al punto che perfino una conversazione tra la moglie e la parrucchiera della moglie fu «attenzionata». Giacomo Amadori, altro formidabile cacciatore di notizie, uno che nella sua carriera ha collezionato più scoop di chiunque altro, credo sia finito in almeno una mezza dozzina di inchieste, l'ultima delle quali quella della Procura di Perugia che vede al centro Luca Palamara. La sua colpa? Aver fatto il proprio mestiere che è, come noto, trovare notizie, soprattutto quelle che qualcuno vorrebbe tener nascoste.

Tuttavia, per Chiocci, Nuzzi e Amadori, nessuno si è indignato e nessun presidente dell'Ordine si è scaldato, chiedendo a ministri e presidenti della Repubblica di intervenire. All'epoca, nonostante i fatti fossero pubblici, tutti sono stati zitti. Siccome a essere colpiti erano altri, si preferì il silenzio. Anzi, forse qualcuno si rallegrò, perché gli intercettati erano altri, evidentemente ritenuti non degni di sedere al tavolo della grande stampa. Il risultato è quello che avete sotto gli occhi oggi, la rappresentazione di una casta che si credeva intoccabile e che scopre di essere come gli altri. Rossi di rabbia e pure di invidia nei confronti dei veri intoccabili: i magistrati.

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