2024-08-06
Il Garante bacchetta la stampa: «Sbagliato diffondere i colloqui in carcere di Turetta»
Filippo Turetta (Ansa/Tg1)
Per l’Authority, pubblicare ha violato privacy e deontologia. Anche il padre di Giulia Cecchettin ha giustificato quello dell’imputato.Ora che l’Authority ha bollato come non pubblicabile la conversazione in carcere tra Filippo Turetta e suo padre e che il papà di Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa a coltellate perché voleva interrompere il rapporto con il suo assassino, con la dignità di chi ha sofferto il dolore più grande, pur non entrando nel merito ha sottolineato l’insensatezza della pubblicazione di quei dialoghi, chi si è scagliato contro Caino sarà costretto a ingoiare un boccone amaro. La conversazione tra papà Nicola e Filippo risale ai primi giorni di dicembre, quindi pochi giorni dopo il delitto, ma è finita sui giornali nove mesi dopo. Quando il contesto era completamente cambiato e Turetta aveva anche scelto di saltare l’udienza preliminare e di affrontare direttamente il giudizio in Corte d’assise con le accuse di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dall’efferatezza, ma anche di sequestro di persona, occultamento di cadavere e stalking. I due, papà e figlio, sono nella sala colloqui del carcere veronese di Montorio. Si sente Nicola affermare: «Non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare...». Si è detto che con quelle poche frasi il padre avrebbe assolto il figlio, colpevole del brutale omicidio della ex fidanzata che perseguitava. Elena Cecchettin, la sorella della vittima nota per le sue uscite infarcite di ideologia, ha accusato Turetta di aver «normalizzato il femminicidio». È finita che Turetta padre si è dovuto scusare pubblicamente per quelle parole pronunciate in privato. «Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio. Solo tante fesserie», ha scandito ai cronisti. «Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso. Temevo che Filippo si suicidasse. C’erano stati tre suicidi a Montorio in quei giorni. Ci avevano appena riferito che anche nostro figlio era a rischio. Quegli istanti per noi erano devastanti. Vi prego, non prendete in considerazione quelle stupide frasi. Vi supplico, siate comprensivi». Era davvero così difficile capire il contesto di quelle parole? Nicola Turetta era un padre disperato e temeva per la vita del figlio. In un momento di massimo sconforto, cercava di dargli forza come poteva. Ma da qui a considerarlo un complice morale del femminicidio ce ne passa. E ieri il Garante ha freddato i linciatori professionisti: «La pubblicazione di conversazioni private, intercorse in un contesto di particolare delicatezza, come i colloqui in carcere tra detenuti e parenti, viola la normativa privacy e le regole deontologiche dei giornalisti». L’Autorità informa anche di aver avviato istruttorie nei confronti di varie testate e richiama gli organi di stampa e i social media al rigoroso rispetto del principio di essenzialità dell’informazione e della dignità delle persone coinvolte in fatti di cronaca. E alla fine la lettura più equilibrata, a sorpresa, l’ha offerta Gino Cecchettin: «Quello che come società tutti noi, nessuno escluso, dovremmo fare è aiutare la famiglia Turetta. Questo dovrebbe essere il nostro dovere, aiutare un uomo che sta vivendo un momento di grande difficoltà, non accanirci contro di lui». Parole che rimbombano come un richiamo all’umanità perduta. E non è finita. «A questo proposito», afferma ancora Gino Cecchettin, «vorrei dire che far uscire quei dialoghi a distanza di nove mesi non ha avuto alcun senso a mio avviso. Quando sono state pronunciate, mia figlia era appena stata uccisa e Filippo era da poco in carcere». Nel suo interrogatorio Turetta, dopo essere stato rintracciato e arrestato in Germania, raccontò della serata passata con Giulia in un centro commerciale di Marghera, poi del diniego di lei alle richieste di ritornare insieme, e confessò quello accadde in un parcheggio di Fossò con botte, calci e 75 coltellate. Il suo difensore, l’avvocato Giovanni Caruso, inoltre, ha anche annunciato che non chiederà una perizia psichiatrica: «Non è intenzione della difesa, né di Turetta, contrariamente a quanto preannunciato senza titolo e a sproposito dalla grancassa mediatico-giudiziaria, fatta salva ogni diversa valutazione dell’autorità giudiziaria, che resta ovviamente impregiudicata». Il quadro, quando sono stati pubblicati gli stralci delle conversazioni in carcere, era ormai questo. «Le regole deontologiche per i giornalisti servono a poco, se chi deve farle rispettare considera il diritto di cronaca come una patente di immunità», ha commentato il deputato di Azione Enrico Costa. Ed era stato anche molto più duro il professore di diritto della comunicazione e dell’informazione Ruben Razzante: «Quando il giornalismo si accanisce sui protagonisti dei fatti cessa di essere servizio pubblico e diventa pornografia del dolore, spettacolarizzazione della sofferenza. Il caso Cecchettin rappresenta un esempio eclatante di questa degenerazione. Gli sciacalli del gossip non dovrebbero appartenere allo stesso ordine professionale dei cronisti attenti e scrupolosi».
Francesca Albanese (Ansa)