2021-12-19
«Nel processo Eni ha deposto un teste falso»
Vincenzo Armanna, Piero Amara e Fabio De Pasquale (Ansa-Getty Images)
Nelle carte sul finto complotto spunta la bufala del presunto agente segreto nigeriano portato in tribunale dal pm Fabio De Pasquale per confermare le accuse farlocche di Vincenzo Armanna e Piero Amara. Demolito pure il patto della Rinascente, ma la Napag resta intoccabile.Il terzo testimone nigeriano portato dal procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale al processo Opl 245 non era la persona descritta dal grande accusatore Vincenzo Armanna. Isaac Eke, infatti - il fantomatico terzo Victor che avrebbe dovuto confermare il pagamento di tangenti intorno alla licenza di esplorazione per il giacimento petrolifero in Nigeria -, non aveva alcun incarico nell’intelligence di Abuja, né rapporti con il presidente Goodluck Jonathan. Si tratta di un signore che con il Nigeriagate non c’entra nulla. È quanto emerge tra i documenti depositati la scorsa settimana nel procedimento sul falso complotto, appena chiuso dal procuratore aggiunto Laura Pedio, con la contestazione di reati che vanno dall’associazione per delinquere all’intralcio alla giustizia, dalla truffa alla calunnia, dalla frode in commercio al reimpiego di denaro di provenienza illecita, dalla corruzione tra privati al favoreggiamento. Contestazioni a carico, tra gli altri, del faccendiere Piero Amara, dello stesso Armanna, dell’ex capo dei legali di Eni Massimo Mantovani, dell’ex numero 2 della compagnia petrolifera Antonio Vella, dell’ex manager Alessandro Des Dorides. Coinvolte anche per reati societari l’Eni trading & shipping in liquidazione, la Napag e la Oando. In questo filone di indagine l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata sono considerate «persone offese». Tra gli atti spunta così un report molto dettagliato, commissionato da Eni alla propria security nigeriana, su Isaac Chnononyerem Eke, quello che fu chiamato da Armanna dopo che De Pasquale aveva già interrogato un altro Victor Nwafor, anche questo presunta fonte della mazzetta da 1 miliardo di dollari. Va infatti ricordato che la Procura aveva già interrogato un Victor che, secondo Armanna, avrebbe dovuto confermare il passaggio delle tangenti. Ma l’uomo, durante il processo, aveva negato di «aver mai conosciuto Armanna o altri manager dell’Eni». Così era spuntato un secondo testimone che, però, era stato rigettato da tribunale. A questo punto Armanna aveva proposto di portare Eke (sostenendo avesse il soprannome di Victor) che, citato da De Pasquale, era stato ammesso in aula. Fu portato a Milano con tanto di scorta e pernottamento in un albergo del centro, dove gli furono sequestrati quattro telefoni, poi spariti dall’indagine. Il giudice Marco Tremolada protestò perché la foto del documento esibito era coperta da una pecetta e De Pasquale aveva chiesto di farlo deporre protetto da un paravento. Alla fine anche Eke smentì Armanna e Eni decise di far preparare un dossier dalla propria security per dimostrare l’inattendibilità del grande accusatore. Nel report depositato viene evidenziato come Eke non avesse alcun rapporto con i servizi segreti nigeriani al contrario di quanto sostenuto dall’ex manager Eni. Anzi, l’unica vera vicinanza del terzo falso Victor era con la società Fenog, l’azienda nigeriana che aveva riconosciuto il pagamento di 6,6 milioni di dollari ad Armanna e 1 milione ad Amara.Ma nell’avviso di chiusura delle indagini c’è un altro colpo durissimo al castello accusatorio di De Pasquale e riguarda il cosiddetto «accordo della Rinascente», di cui hanno parlato ai pm Armanna, Amara e il suo sodale Giuseppe Calafiore. I tre avrebbero inventato la storia del patto del centro commerciale sul quale La Verità aveva già scritto anticipando le conclusioni alle quali ora è giunta anche la Procura meneghina.Alla Rinascente di Roma Amara e Armanna avrebbero incontrato il manager Eni Granata per negoziare la ritrattazione delle accuse da parte dello stesso Armanna contro i vertici dell’Eni e per De Pasquale l’esistenza di quell’accordo era ulteriore prova della colpevolezza di Descalzi. Infatti l’Ad, era questa l’ipotesi accusatoria, avrebbe cercato di «comprare il testimone» Armanna proprio per impedire che costui riferisse sulla corruzione dei pubblici ufficiali nigeriani da parte dell’Eni. Oggi ricostruzione ipotesi investigativa è stata minata alle fondamenta dalle risultanze del fascicolo parallelo sul presunto complotto.L’inesistenza del patto, in realtà, doveva essere sembrato palese ai pm di questo secondo filone d’indagine già da almeno due anni, quando, nell’interrogatorio del 2 dicembre 2019, la Pedio e il collega Paolo Storari chiedono ad Amara di spiegare un improvviso affollarsi di testimonianze convergenti: «Le facciamo notare» dicono quel giorno, «che c’è una coincidenza temporale tra il momento in cui ha deciso di rendere dichiarazioni e il momento in cui Armanna ha deciso di raccontare il cosiddetto “accordo della Rinascente” nel corso del dibattimento […]. La memoria che ha inviato all’Ufficio di Procura è di poco precedente alle dichiarazioni dibattimentali di Armanna. C’è stato un accordo tra di voi? O quantomeno lei ha avuto notizia da Armanna della sua decisione di rendere dichiarazioni raccontando come si sono effettivamente svolti i fatti?». Due anni dopo, concluso il processo Eni Nigeria che si reggeva anche sulle balle di Amara, arriva ora l’avviso di conclusione delle indagini firmato dalla stessa Pedio che smonta quella coincidenza.L’avviso di conclusione delle indagini presenta, però, anche dei lati oscuri. In particolare relativamente ai rapporti dell’Eni con la Napag, società calabrese di import-export di succhi di frutta riconvertita nel trading di prodotti petroliferi. Per l’Eni e per l’ex pm di Roma Stefano Fava socio di fatto della Napag sarebbe stato Amara, ma gli inquirenti milanesi non si spingono ad affermarlo, limitandosi a contestare i reati commessi attraverso la Napag anche ad Amara senza specificarne il ruolo in commedia. Ad Amara, Francesco Mazzagatti e Giuseppe Cambareri, gli ultimi due soci effettivi di Napag, viene contestata una ipotesi di «riciclaggio-reimpiego di denaro di provenienza illecita per l’importo di quasi 26 milioni di euro» per avere costoro ricevuto il denaro dall’Eni quale profitto dei reati di intralcio alla giustizia e corruzione tra privati per poi utilizzarlo per l’acquisto di un impianto petrolchimico in Iran.Va detto che quei 26 milioni di euro erano già stati contestati ad Amara dall’ex pm Fava che nella sua richiesta cautelare dell’8 febbraio 2019, mai inoltrata dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dai suoi aggiunti al Gip, in cui aveva scritto con quasi tre anni di anticipo che l’avvocato siracusano aveva commesso il reato di autoriciclaggio investendo denari nel petrolchimico iraniano, ma non direttamente, bensì attraverso l’acquisto del capitale sociale di una società di Singapore. Una specificazione che nell’avviso di chiusura delle indagini di Milano non compare. Anzi gli inquirenti restano vaghi e parlano addirittura di un «greggio di incerta origine» a proposito del carico acquistato dalla Napag e che sostò oltre un mese davanti alle coste italiane a bordo della petroliera White moon in attesa di un sequestro che non è mai stato effettuato, nonostante le denunce dell’Eni.Sarà per questa indeterminatezza che la Procura meneghina non ha chiesto l’arresto di Amara né, soprattutto, il sequestro dei 26 milioni di euro, al contrario di quanto fatto, senza fortuna, da Fava. Ma i codici insegnano che il sequestro del corpo del reato è obbligatorio, a maggior ragione nel caso di riciclaggio-reimpiego, delitto contestato, come detto, ad Amara, Mazzagatti e Cambareri: di fronte a questa fattispecie di reato la legge lo impone anche nella forma «per equivalente», cioè attraverso il recupero di beni dello stesso valore. Il codice prescrive anche che per certi reati, come il riciclaggio-reimpiego, in presenza di un’«incongruenza» tra redditi dichiarati e patrimonio posseduto, il giudice debba procedere alla cosiddetta «confisca allargata», non solo cioè del provento del reato, ma di tutto i beni dell’indagato.Invece Amara, durante le feste, per quanto sia costretto in cella, si potrà consolare contando, per addormentarsi, anziché le pecorelle, i milioni di euro che non gli sono mai stati sequestrati.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)