2022-04-12
Dalla politica estera al mercato del lavoro. Londra post Brexit è laboratorio di idee
Non c’è solo il fronte diplomatico, il Regno Unito ritorna centrale nel dibattito sociale. Si veda la querelle sulla settimana corta.No, non c’è solo Boris Johnson in visita a Kiev, che mostra orgogliosamente un piglio churchilliano: e lo fa, significativamente, vestendo in giacca e cravatta, senza bisogno di esibire una divisa, e meno che mai scimmiottando l’Emmanuel Macron che, negli immensi saloni dell’Eliseo, indossa tragicomicamente una felpa dei paracadutisti per ammiccare allo Zelensky-style. Se sei il rappresentante della Global Britain, non hai bisogno di «mascherarti» da superpotere: lo sei e tutti lo sanno. Sta qui il punto, che ci riporta al giugno 2016 e al referendum su Brexit. A cavallo di quel voto, gli eurolirici si affrettarono a descrivere un Regno Unito rinchiuso e marginalizzato, ripiegato su sé stesso, isolato più ancora che isolazionista. È il momento di dire che tutte quelle profezie di sventura erano sciocchezze. I britannici avevano (e hanno) la sterlina; erano (e sono) un membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu; erano (e sono) una potenza anche nucleare; la loro economia andava (e, nonostante il Covid, va tuttora) a gonfie vele. Uscendo dall’edificio pericolante chiamato Ue, hanno ritrovato completa libertà d’azione. Sul piano economico, libertà di negoziare accordi commerciali: con gli Usa, con i paesi del Commonwealth, con la stessa Ue, con i giganti asiatici, senza dover chiedere il permesso a nessuno. Ed è notizia di ieri che l’aeroporto londinese di Heathrow ha fatto segnare in marzo il più alto numero di passeggeri dall’inizio della pandemia, segnale di una rinnovata voglia di vivere (e commerciare) degli inglesi. Sul piano geopolitico e militare, libertà di esercitare un ruolo di leadership: e, piacciano o no le posizioni di ciascuno nel merito, il dinamismo e l’assertività di Johnson mettono in ombra le gaffes, le incertezze, il senso di debolezza trasmesso da Joe Biden. Sul piano politico generale, libertà di fronteggiare le emergenze (si pensi al Coronavirus) divergendo dagli standard Ue: e non a caso Londra si è tenuta alla larga sia dai divieti e dalle restrizioni (green pass e obblighi più o meno surrettizi) sia dai meccanismi di acquisto centralizzato dei vaccini in capo a Bruxelles. Dunque, tutto bene dalle parti di Londra? Naturalmente no, e Johnson ha mille guai da affrontare (in genere, diversi rispetto a quelli raccontati dal Corrispondente Unico). I sondaggi per i conservatori non sempre vanno bene. Non c’è stato l’abbassamento di tasse che doveva essere la chiave della politica economica post Brexit. Da destra (versante thatcheriano: gli editorialisti di Telegraph e Spectator, in primo luogo) si rimprovera al premier un eccessivo interventismo pubblico in economia e un amore incomprensibile per un megapiano green (ma ora Johnson ha preannunciato l’avvio di sette nuove centrali nucleari). Anche nel partito, volano colpi bassi come nella più ruvida tradizione dei Tories. Da un lato, Johnson è ancora sotto tiro per i presunti party a Downing Street durante il (breve) lockdown: i britannici non tollerano l’idea che i politici facciano ciò che vietano ai cittadini. E così, per settimane, il fronte conservatore ostile a Johnson ha pompato il ministro dell’Economia, Rishi Sunak. Il quale però è ora nei guai perché sua moglie, figlia di un miliardario indiano, non risulta domiciliata in Uk e dunque gode di un regime fiscale di favore: tutto assolutamente legale, ma politicamente assai inopportuno, specie se sei il numero due del governo e non stai abbassando le tasse. Tutto ciò per dire che, anche in tempo di guerra, non si deve (anzi: non si può) sospendere la democrazia e lo scontro politico. Di più: la Gran Bretagna è oggi uno spettacolare laboratorio in cui si discutono (e si testano) visioni politiche opposte anche rispetto alla riorganizzazione del mercato del lavoro post pandemia. In questi giorni, ad esempio, circa 3.000 lavoratori di 60 aziende (si va da società del settore medico a gruppi impegnati nella ristorazione, passando per la Royal Society of Biology e per imprese produttrici di birra: come si vede, realtà diversissime) stanno partecipando alla sperimentazione di una settimana lavorativa di soli 4 giorni. Lo schema, secondo gli ottimisti, dovrebbe portare al mantenimento del medesimo salario, con l’impegno ad aumentare la produttività. Il Guardian, testata di sinistra, segue l’esperimento con passione. Al contrario, tempo fa, su un’ipotesi simile, il Telegraph, di orientamento pro mercato, parlò di rischio «sovietico». Osservatori pragmatici hanno mostrato perplessità: forse non è il momento di misure omogenee (del tipo: one size fits all), e magari sarebbe meglio lasciare a ogni settore, a ogni azienda, la ricerca della soluzione più adatta. Ma i sostenitori del tentativo, dal canto loro, insistono su obiettivi certamente desiderabili, in astratto: salvaguardare posti di lavoro ed evitare licenziamenti. In Europa continentale, dibattiti simili già ci furono: le 35 ore settimanali in Francia nel 2000, i rilanci in Italia di Fausto Bertinotti, le suggestioni (spesso dimenticando chi dovesse pagare il conto) su una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ma ciò che conta è che oggi in Uk si discute (e, se necessario, si litiga) su tutto. La democrazia non è sospesa, e il dibattito nemmeno.
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