
Il M5s pubblica i dati sull'aumento esponenziale di ragazzini tolti alle proprie famiglie. Una situazione nota già nel 2015.Che qualcosa non andasse, nel sistema di gestione di minori della Val d'Enza, si era già da capito da qualche tempo. E il compito degli amministratori locali del Pd sarebbe stato quello di andare a fondo al problema e porvi rimedio. Sarebbe bastato dare un'occhiata alle cifre, ovvero al numero di bambini mandati in affido e agli importi degli assegni staccati a beneficio dei vari centri di assistenza per i ragazzini. Invece si è dovuto aspettare che, qualche mese fa, intervenisse Natascia Cersosimo, consigliere comunale del Movimento 5 stelle nell'Unione Comuni Val d'Enza. Quando si trattò di votare l'aumento di 200.000 euro dei fondi a favore delle strutture di accoglienza per minori, la Cersosimo volle approfondire e chiese che le fossero forniti documenti giustificativi. Quando le carte sono arrivate, hanno svelato una realtà sconcertante. Dal 2015 al 2018 si è verificato un aumento esponenziale degli affidi. Come scrive Paolo Pergolizzi su Reggiosera.it, «i minori in struttura erano 18 nel 2015, 33 nel 2016, 40 nel 2017 e 34 nei primi sei mesi del 2018, mentre quelli dati in affidamento sono stati zero nel 2015, 104 nel 2016, 110 nel 2017 e 92 nei primi sei mesi del 2018». Significa che, da un anno all'altro, 100 ragazzini sono stati improvvisamente dati in affido. E, anno dopo anno, il loro numero ha continuato a crescere. Tutti i numeri aumentavano: «Le prese in carico per violenza sono state 136 nel 2015, poi 183 nel 2016, fino alle 235 del 2017 e le 178 del primo semestre 2018. In sostanza, se si fosse arrivati fino a fine anno, si potrebbe dire che nel 2018 sarebbero state praticamente triplicate rispetto a tre anni prima». Ovviamente, crescevano anche gli esborsi di denaro pubblico per l'assistenza ai minori: «Sempre dallo stesso documento», scrive Reggiosera.it, «si vede che la spesa per affidi di minori si impenna conseguentemente passando dai 245.000 euro del 2015, ai 305.000 euro del 2016, fino ai 327.000 euro del 2017 e infine a una proiezione di spesa di 342.000 euro nel 2018. I soldi necessari per le psicoterapie dei minori in affido passano, invece, dai 6.000 euro del 2015 ai 31.000 del 2017, fino ai quasi 27.000 del primo semestre 2018». Un giro di soldi notevole, specie se si considera che la zona interessata non era esattamente mastodontica. Di fronte a queste cifre spaventose, gli amministratori locali della Val d'Enza hanno cercato di giustificarsi. Nel documento ufficiale sulla gestione dei servizi hanno scritto quanto segue: «I dati di grave maltrattamento ed abuso della Val d'Enza, superiori alla media regionale, non sono ascrivibili ad un fenomeno locale specifico, ma sono in linea con i dati mondiali dell'Oms e di importanti organizzazioni internazionali come Save the Children e Terre des Hommes. Tali dati dimostrano l'essenzialità di un lavoro di rete efficace e qualificato, in linea con le ottime - ma ampiamente disattese - linee guida regionali sul tema». Già, secondo loro i dati sugli abusi erano in linea con quelli forniti dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Piccolo problema: quelle Ong lavorano per lo più in territori di guerra o in Paesi in via di sviluppo. E tutto si può dire tranne che nella Val d'Enza ci sia un conflitto in atto. A dirla tutta, però, che il numero di abusi (veri o presunti) nella zona fosse troppo alto era già emerso nel 2015. Se ne parlò nella Commissione parità della Regione Emilia Romagna presieduta da Roberta Mori del Pd. In quell'occasione emerse che il numero di abusi su minori segnalati sul territorio era molto, troppo alto. Davanti alla Commissione, Luigi Fadiga, Garante per l'infanzia e l'adolescenza dell'Emilia Romagna, spiegò che nel bibbianese erano stati segnalati ben 13 casi di abusi su ragazzini. Ma, aggiunse, «l'errore più grave sarebbe etichettare l'area, perché il fenomeno non è certo circoscritto, nel reggiano semmai c'è stato il coraggio di denunciare e intervenire». In Commissione era presente anche la responsabile dei servizi sociali, Federica Anghinolfi, che si precipitò a dar ragione al garante: «È stata molto importante», disse, «la volontà di proseguire l'ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni».In buona sostanza, che ci fossero dei problemi era abbastanza chiaro. Ma gli amministratori del Pd non hanno fatto nulla. Come spiega Silvia Piccinini del Movimento 5 stelle emiliano, «sembra che vi fosse da parte della Regione una presa di coscienza di quanto avveniva sui casi di abusi segnalati su minori in Val d'Enza, e allo stesso tempo una totale incomprensione del fenomeno, visto che sono state audite non le parti lese, ma coloro i quali oggi si scopre pare abbiano messo in atto gli illeciti».Infatti, anche se nel 2015 il numero di abusi segnalati sembrava già troppo alto, i vari protagonisti del «sistema Val d'Enza» hanno continuato a godere di appoggio e di sostegno da parte dei democratici (emiliani e non solo). Almeno fino a quando non sono intervenuti giudici e polizia.
        (Arma dei Carabinieri)
    
Ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 19 persone indagate per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro. Con l’aggravante del metodo mafioso.
Questa mattina, nei comuni di Gallipoli, Nardò, Galatone, Sannicola , Seclì e presso la Casa Circondariale di Lecce, i Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce hanno portato a termine una vasta operazione contro un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti che operava nella zona ionica del Salento. L’intervento ha mobilitato 120 militari, supportati dai comandi territoriali, dal 6° Nucleo Elicotteri di Bari Palese, dallo Squadrone Eliportato Cacciatori «Puglia», dal Nucleo Cinofili di Modugno (Ba), nonché dai militari dell’11° Reggimento «Puglia».
Su disposizione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lecce, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia, sono state eseguite misure cautelari di cui 7 in carcere e 9 ai domiciliari su un totale di 51 indagati. Gli arrestati sono gravemente indiziati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro, con l’aggravante del metodo mafioso.
Tutto è cominciato nel giugno del 2020 con l’arresto in flagranza per spaccio di stupefacenti avvenuto a Galatone di un giovane nato nel 1999. Le successive investigazioni avviate dai militari dell’Arma hanno consentito di individuare l’esistenza di due filoni parallel ed in costante contatto, che si spartivano le due principali aree di spaccio della zona ionica del Salento, suddivise tra Nardò e Gallipoli. Quello che sembrava un’attività apparentemente isolata si è rivelata ben presto la punta dell’iceberg di due strutture criminali ramificate, ben suddivise sui rispettivi territori, capaci di piazzare gradi quantitativi di droga. In particolare, l’organizzazione che operava sull’area di Nardò è risultata caratterizzata da una struttura verticistica in grado di gestire una sistematica attività di spaccio di stupefacenti aggravata dal tipico ricorso alla violenza, in perfetto stile mafioso anche mediante l’utilizzo di armi, finalizzata tanto al recupero dei crediti derivanti dalla cessione di stupefacente, quanto al controllo del territorio ed al conseguente riconoscimento del proprio potere sull’intera piazza neretina.
Sono stati alcuni episodi a destare l’attenzione degli inquirenti. Un caso eclatante è stato quando,dopo un prelievo di denaro presso un bancomat, una vittima era stata avvicinata da alcuni individui armati che, con violenza e minaccia, la costringevano a cedere il controllo della propria auto.
Durante il tragitto, la vittima veniva colpita con schiaffi e minacciata con una pistola puntata alla gamba destra e al volto, fino a essere portata in un luogo isolato, dove i malviventi la derubavano di una somma in contanti di 350 euro e delle chiavi dell’auto.
Uno degli aggressori esplodeva successivamente due colpi d’arma da fuoco in direzione della macchina, uno dei quali colpiva lo sportello dal lato del conducente.
In un'altra circostanza invece, nei pressi di un bar di Nardò, una vittima era stata aggredita da uno dei sodali in modo violento, colpendola più volte con una violenza inaudita e sproporzionata anche dopo che la stessa era caduta al suolo con calci e pugni al volto, abbandonandolo per terra e causandogli la deformazione e lo sfregio permanente del viso.
Per mesi i Carabinieri hanno seguito le tracce delle due strutture criminose, intrecciando intercettazioni, pedinamenti, osservazioni discrete e perfino ricognizioni aeree. Un lavoro paziente che ha svelato un traffico continuo di cocaina, eroina, marijuana e hashish, smerciati non solo nei centri abitati ma anche nelle località marine più frequentate della zona.
Nell’organizzazione, un ruolo di primo piano è stato rivestito anche dalle donne di famiglia. Alcune avevano ruoli centrali, come referenti sia per il rifornimento dei pusher sia per lo spaccio al dettaglio. Altre gestivano lo spaccio e lo stoccaggio della droga, controllavano gli approvvigionamenti e le consegne, alcune avvenute anche alla presenza del figlio minore di una di loro. Spesso utilizzavano automobili di terzi soggetti estranei alla compagine criminale con il compito di “apripista”, agevolando così lo spostamento dello stupefacente.
Un’altra donna vicina al capo gestiva per conto suo i contatti telefonici, organizzava gli incontri con le altre figure di spicco dell’organizzazione e svolgeva, di fatto, il ruolo di “telefonista”. In tali circostanze, adottava cautele particolari al fine di eludere il controllo delle forze dell’ordine, come l’utilizzo di chat dedicate create su piattaforme multimediali di difficile intercettazione (WhatsApp e Telegram).
Nell’azione delle due strutture è stato determinante l’uso della tecnologia e l’ampio ricorso ai sistemi di messaggistica istantanea da parte dei fruitori finali, che contattavano i loro pusher di riferimento per ordinare le dosi. In alcuni casi gli stessi pusher, per assicurarsi della qualità del prodotto ceduto, ricontattavano i clienti per acquisire una “recensione” sullo stupefacente e quindi fidelizzare il cliente.
La droga, chiamata in codice con diversi appellativi che ricordavano cibi o bevande (come ad es. “birra” o “pane fatto in casa”), veniva prelevata da nascondigli sicuri e preparata in piccole dosi prima di essere smerciata ai pusher per la diffusione sul territorio. Un sistema collaudato che ha permesso alle due frange di accumulare ingenti profitti nel Salento ionico, fino all’intervento di oggi.
Il bilancio complessivo dell’operazione è eloquente: dieci arresti in flagranza, il sequestro di quantitativi di cocaina, eroina, hashish e marijuana, che avrebbero potuto inondare il territorio con quasi 5.000 dosi da piazzare al dettaglio.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha ritenuto gravi gli elementi investigativi acquisiti dai Carabinieri della Compagnia di Gallipoli, ha condiviso l’impostazione accusatoria della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, emettendo dunque l’ordinanza di custodia cautelare a cui il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce ha dato esecuzione nella mattinata di oggi.
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