2022-06-02
«Con l’addio alla rete più servizi per Tim»
L’ad Pietro Labriola spiega in Parlamento la cessione appena ratificata: non è prevista la creazione di «bad company» su cui scaricare debiti né esuberi. L’infrastruttura ora passa alla fase operativa e alle valutazioni di prezzo.Ora che il Memorandum of understanding con Open Fiber è stato firmato, la creazione della rete unica entra nella sua fase operativa. Detto in parole povere, con la sottoscrizione del protocollo d’intesa, la visibilità sulla realizzazione dell’infrastruttura unica per la banda larga è aumentata notevolmente. D’altronde tutte le parti coinvolte hanno finalmente trovato la quadra. Così, ora, oltre a Cdp, Tim e Macquarie è della partita anche Kkr, attraverso la controllata lussemburghese Teemco Bidco. Proprio il fondo americano di private equity, fino a poco tempo fa, era poco convinto che la combinazione con gli altri asset di Tim e con Open Fiber potesse dare i frutti sperati. Ora, invece, la strada verso la rete unica sembra essere decisamente meno in salita. In primis perché, come spiegano alcuni analisti, è positivo che Cdp abbia il controllo dell’infrastruttura facilitando l’approvazione da parte degli organi politici e regolamentari. Inoltre, dal suo punto di vista, Tim si impegna a una operazione «amichevole» sottoponendo il progetto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Kkr, dal canto suo, è disponibile a rilevare una partecipazione riducendo l’impegno finanziario per Cassa depositi e prestiti e la pressione negoziale sulle valutazioni.Certo, il processo - come spiegano gli esperti - sarà lungo, ci saranno diversi nodi da affrontare, in particolare quelli legati alla valutazione e alla governance. C’è poi da chiarire se Tim manterrà una quota di minoranza nella rete unica e se uscirà completamente. Quanto alle valutazioni, Intermonte assegna alla rete unica un valore di circa 25 miliardi di euro, stimando un valore per NetCo di 16,7 miliardi (suddivisi tra gli 8,2 per FiberCop, 7 per la rete primaria e 1,5 per Sparkle). Per Open Fiber la stima si aggira attorno agli 8,6 miliardi. Secondo Equita, invece, NetCo vale circa 21 miliardi, mentre per Bestinver il prezzo si aggira intorno ai 16,6 miliardi per NetCo e 15,1 per ServCo. Ora, una volta scorporati gli asset in pancia a Tim dalla parte servizi, questi entreranno in AccessCo, insieme con quelli pubblici di Open Fiber. La nuova società finirà sotto la guida di Cassa depositi e prestiti, che potrebbe avere fino al 70-77% della nuova società. Giusto martedì, sul tema, l’ad di Tim Pietro Labriola è stato ascoltato in commissione Trasporti della Camera. La seduta era secretata, ma ne abbiamo carpito i punti salienti. La gran parte della seduta è stata quasi tutta sull’operazione di scorporo della parte servizi da quella commerciale. Il numero uno dell’ex Telecom Italia ha sottolineato i vantaggi dell’operazione, tra cui il fatto che il riassetto del gruppo dovrebbe portare più equilibrio nel rapporto tra costi e ricavi. In particolar modo, ha fatto notare Labriola, quello che è venuto a mancare è il legame biunivoco tra servizio fornito e rete. Per questo motivo, è molto più efficiente ed efficace un coordinamento interno (cioè la contrattazione tra fornitore di servizi infrastrutturali e acquirente di tali servizi) e non l’obbligo di una integrazione verticale, ritenuta ormai anacronistica. Oggi, infatti, gli operatori preferiscono concentrarsi sull’offerta di servizi al dettaglio, piuttosto che su dotazioni infrastrutturali molto pesanti sotto il profilo finanziario. Questo modello, ha sottolineato il manager, potrà essere di esempio anche per altre telco che operano all’estero. Labriola avrebbe anche escluso l’ipotesi che dallo smembramento delle attività possano nascere una good e una bad company, opzione poco gradita ai sindacati. Il mantenimento dei livelli occupazionali, del resto, è stato una esplicita richiesta dei deputati presenti all’audizione. Il mondo della politica, d’altronde, ha da tempo gli occhi puntati sull’operazione. Labriola ha «descritto le linee del piano industriale» e «mi pare che ci sia solidità nel progetto di scorporo della rete e anche dell’assetto complessivo. Ho trovato molto confortante la relazione anche sotto il punto di vista della salvaguardia dell’occupazione», ha detto Stefano Fassina, deputato di Leu al termine dell’audizione a porte chiuse dove ha parlato Labriola. «Da come ci è stato esposto, mi sento piuttosto fiducioso sulla possibilità di salvaguardare in modo completo il personale», ha continuato, precisando che Labriola «ha sostenuto che c’è necessità di persone per ampliare la rete infrastrutturale italiana, c’è un’età media elevata che consente di individuare strumenti per poter eventualmente gestire le situazioni che si possono verificare, ovviamente c’è ancora un livello generale delle linee e ci dovremo rivedere sicuramente, ma devo dire che ho trovato solido il processo di scorporo della rete». Ieri il numero uno di Vivendi Arnaud de Puyfontaine ha rilasciata una intervista per alzare il prezzo della sua quota. Solo che questa sembra essere una operazione di sistema. I singoli partner dovranno andare per forza d’accordo.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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