2025-07-16
Assolto il primario di Trento. Non era il mostro? Ormai è in Francia
Il Palazzo di giustizia di Trento. Nei riquadri, Saverio Tateo e Sara Pedri
Il dottor Tateo e la vice accusati di aver provocato il suicidio di Sara Pedri con le loro lavate di capo in sala operatoria. Il giudice: un responsabile può alzare i toni. Le carriere sono segnate e la stampa non si scuserà. «La triste vicenda è stata la miccia che ha acceso il fuoco». «Il caso era mediaticamente interpretato come provocato dal reparto, ma gli atti processuali non restituiscono tale verità». Ogni frase un colpo di martello, ogni pagina (sono 175) uno schiaffo alla superficialità, al condizionamento psicologico, allo squilibrio collettivo della narrazione del caso Sara Pedri. Le motivazioni della sentenza di assoluzione del primario Saverio Tateo e della sua vice Liliana Mereu, condannati dal circo mediatico a qualcosa che andava dall’ergastolo alla gogna per l’eternità dopo essere stati tritati in effigie, sono una lezione per tutti. Una lezione passata quasi sotto silenzio perché faceva comodo accantonarla.A impartirla qualche settimana fa è stato il giudice Marco Tamburrino del tribunale di Trento, firmatario di un provvedimento non facile (controcorrente avrebbe detto Indro Montanelli), arrivato a mettere ordine dentro il reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Santa Chiara e soprattutto dentro il luna park dell’informazione, che aveva massacrato due innocenti con la disinvoltura con cui una palla da bowling abbatte i birilli. E invece «non vi è prova certa della creazione di un clima tossico all’interno del reparto». «Non emerge la colpevolezza degli imputati oltre ogni ragionevole dubbio» nei confronti delle 21 persone (medici, infermieri) che avevano portato davanti al giudice il primario e la sua vice accusandoli di maltrattamenti continuati e in concorso. In realtà 20 persone più una, la più vittima e la più inconsapevole di tutti. Quella Sara Pedri che costituì «la miccia» per accendere il caso e per costruire il presepe degli orrori presunti, gettando sulle spalle di Tateo e Mereu la scomparsa (e l’ipotetico ventilato suicidio) della giovane ginecologa di Forlì che il 4 marzo 2021 era sparita nel nulla dopo aver dato le dimissioni dall’azienda sanitaria trentina. Per il giudice quello fu il motivo scatenante, perché «il dedotto clima terroristico in reparto viene evidenziato solo dopo la scomparsa di Pedri». Con il dubbio che sia stato innescato sull’onda mediatica da «fazioni in reparto» e con l’uscita allo scoperto di un «gruppo coeso», schierato contro il metodo di lavoro di Tateo che richiedeva «un elevato standard qualitativo».Fra i capisaldi dell’accusa c’erano ingiurie, umiliazioni, minacce, urla, «lei non vale niente» e un clima improntato alla sudditanza critica nei confronti del direttore del reparto. Un crogiolo di denunce riassunto nella parola mobbing, così comoda come contenitore refrigerato da significare tutto e il suo contrario. Ma, come ha spesso confutato l’avvocato Salvatore Scuto, tenace difensore del primario, il termine va usato con cautela poiché ha bisogno di essere riportato a fatti concreti. E anche quando si materializzano, è bene non rimanere sulla superficie nel valutarli.La dottoressa Mereu era accusata di maltrattamenti nei confronti di Sara Pedri in due occasioni, sempre in sala operatoria. Il processo ha dimostrato che in una l’avrebbe forse colpita con uno strumento chirurgico su una mano (qui il giudice parla anche di «chiacchiere di corridoio») e nell’altra l’avrebbe rimproverata duramente. Nel primo caso perché aveva impugnato un bisturi invece che una forbice, nel secondo per un non corretto posizionamento di una pinza emostatica. Va ricordato che un errore in sala operatoria può sempre avere conseguenze drammatiche. Sottolinea il giudice: «L’intervento di Mereu in molte occasioni era correttivo di modalità erronee di gestione dei casi». E aggiunge un carico da 11 che dovrebbe far riflettere tutti, compresi i sindacati: «Severità e autorità nella direzione dell’unità sanitaria non devono essere confuse con asserite condotte maltrattanti».Tutto questo a difesa della personalità di chi ha responsabilità di comando, quindi dell’efficienza di un sistema che si chiama sanitario perché fondato proprio sull’obiettivo della guarigione delle persone. Alzare la voce davanti a un’inadempienza significa maltrattare? Secondo la sentenza di Trento non è così. «Appare non consono che sia ritenuto inammissibile che un primario non possa reagire con tono di voce anche alto nei riguardi dei medici a lui sottoposti per tali gravi fatti avvenuti in reparto, che appaiono sminuiti dalla persona offesa senza consapevolezza del calibro degli stessi». Una standing ovation per il giudice Tamburrino e un colpo al cuore al giustificazionismo peloso in voga di questi tempi, nei quali tutti hanno ragione. Dal punto di vista mediatico c’è qualcosa di molto grave, finito sotto la lente di ingrandimento del tribunale trentino. Si legge nella sentenza: «Una teste ha ammesso che vi era un gruppo di medici che si trovava in posizione di forte criticità con il primario e con la dottoressa Mereu, tanto che alla scomparsa della dottoressa Pedri uno di loro aveva affermato, “Adesso si faranno un esame di coscienza, perché lei l’ha fatta piangere in sala operatoria”». Come ad avanzare il dubbio che il sistema dell’informazione, così rapido nel caricare il revolver giustizialista, si sia fatto strumentalizzare da testimoni poco attendibili.La sentenza è una lezione per i colpevolisti del giorno prima, un monito per l’esercito di giudici di redazione che avevano stabilito chi fossero i buoni e i cattivi del film molto prima della fine, accomodandosi con i pop corn. Assoluzione per insussistenza del reato, non sempre le «chiacchiere di corridoio» usate per fare audience diventano prove. Dopo essere stato cacciato sull’onda delle sentenze televisive e giornalistiche (e poi inutilmente reintegrato), oggi Saverio Tateo opera in Francia, Liliana Mereu in una clinica privata di Catania. Nessuno ha chiesto loro scusa.
Eugenia Roccella (Getty Images)
Carlotta Vagnoli (Getty Images)