È stato un dettaglio a cambiare la storia italiana.
Il 20 gennaio 2013 sento al telefono Francesco Nucara, segretario del Partito Repubblicano: «Guarda - mi avverte Nucara - che il Pri non sarà nelle liste del Popolo della libertà». Ci vediamo a ora di pranzo davanti Montecitorio. Una volta arrivato, Nucara ha l'aria feroce: «Sono stato due ore a palazzo Grazioli per incontrare Alfano. Dopo due ore in sala d'attesa è uscita una segretaria per dirmi: Alfano sta chiudendo le liste per le elezioni e non riesce a vederla. Dice se vi sentite la prossima settimana… E io allora che ero andato a fare lì? A chiudere l'alleanza del Partito repubblicano con il Pdl! In sostanza ci hanno escluso».
Con Nucara decidiamo di tentare un'ultima carta prima che le liste siano consegnate in Corte d'Appello.
Faccio un paio di telefonate; invio due, tre, sms a palazzo Grazioli. Spiego la situazione: il Pri conta su due deputati, ed è l'ultimo partito storico rimasto veramente in piedi dopo tangentopoli, con sezioni, federazione giovanile e strutture, radicato in alcune zone forti, Calabria, Toscana, Romagna, Marche, e in grado di dare un suo contributo in città come Roma e Milano.
Alle elezioni europee del 2004, le ultime in cui si è presentato su tutto il territorio il partito dell'edera ha preso 232.744 voti. La richiesta in vista del voto è minima: al Pdl si chiede che nelle liste siano garantiti due indipendenti del Pri (un deputato e un senatore), ma per ulteriore prudenza preciso: «Se la richiesta vi sembra eccessiva date al Pri un seggio sicuro, mentre l'altro, incerto, passerebbe solo in caso di vittoria con il premio di maggioranza».
Ma a palazzo Grazioli è un finimondo. Berlusconi ha fatto una campagna elettorale strepitosa, con una rimonta incredibile, agevolata anche dalle trame di palazzo che hanno mandato Mario Monti al governo e dalle misure impopolari che Monti ha voluto o dovuto prendere. È facile prevedere che dal voto uscirà un testa a testa tra Pd, Pdl e l'arrembante Movimento cinque stelle. Testa a testa vuole dire che allo scrutinio elettorale del 25 febbraio lo scarto tra i partiti sarà minimo e quindi nulla, come lo stesso Berlusconi ha ripetuto ai suoi, dovrebbe essere trascurato per chiamare i possibili alleati a formare una sola quadra. Il problema è che intorno al leader non tutti sono persuasi che la vittoria possa arrivare e, di conseguenza, molti giudicano che i posti per assicurarsi un seggio siano pochi, assai meno di quanti ne assicurerebbe una vittoria con il premio di maggioranza. In sostanza, la richiesta del Pri viene giudicata eccessiva e scartata e il Pri, alle strette, si disperde tra proprie liste, Scelta civica e Udc, provocando un doppio risultato: voti in meno al centrodestra e in più al centrosinistra.
Il 25 febbraio la coalizione di Bersani ottiene 10.049.393 voti, conquistando il premio di maggioranza a Montecitorio. Berlusconi con il centrodestra ne ottiene 9.923.600. Grillo e i Cinque stelle si fermano a 8.691.406. Lo scarto tra primi e secondi è di 125.793 voti.
Quanti voti avrebbe portato il Pri, se quel giorno, alla chiusura delle liste, l'allarme fosse stato recepito da palazzo Grazioli? Non più, certamente, i 230mila delle elezioni 2004, ma avrebbe presumibilmente colmato il piccolo divario tra Pd e Pdl. E' vero che la storia non fa con i «se», ma se l'alleanza fosse andata in porto possiamo ritenere più che plausibile un risultato elettorale con il Pdl in testa. E allora sliding doors: oggi Matteo Renzi sarebbe sindaco di Firenze, mentre Silvio Berlusconi sarebbe non solo in Senato ma anche a palazzo Chigi.
Un presidente del Consiglio, legittimato dalle elezioni, invece delle solite trame bizantine che spingono gli italiani verso l'antipolitica.