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Silvano Petrosino indaga i colossi della letteratura: nella favola del burattino, Lucignolo e il gatto e la volpe sono l’eterna tentazione di cancellare storia e tempo. Che invece ci spingono a diventare ciò che siamo.
Il tempo che caratterizza il soggetto umano ha una natura diversa da quello che scandisce il divenire del semplice individuo vivente. La nuda vita procede linearmente, in modo monotono, seguendo un ritmo uniforme ed inarrestabile; il tempo umano è invece soggetto a cadute, battute d’arresto, esitazioni, sospensioni, passi indietro, eccetera. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che il «diventare» al centro delle Avventure di Pinocchio si qualifica come «storico» in quanto caratterizzato da un tempo drammatico, abitato da prove, decisioni, fallimenti, attese, speranze, desideri, un tempo il cui sviluppo, proprio perché «storico», non è mai lineare, garantito e inevitabile.
Nel racconto di Collodi vi sono due episodi in cui il tempo è posto al centro della narrazione: nell’incontro del burattino con il Gatto e la Volpe, e in quello con Lucignolo. In entrambi i casi si assiste a ciò che propongo di definire una «distruzione della storia».
Il Gatto e la Volpe invitano Pinocchio a «piantare» nel Campo dei miracoli i suoi cinque zecchini «garantendogli» che «dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila». Ritorna il tema del «diventare» che tuttavia, non a caso, nella proposta dei due malandrini, per assumere i caratteri della certezza e dell’immediatezza, si qualifica, non in riferimento al tempo umano, ma a quello del mondo vegetale: «Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua, ci metti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno».
Analogamente, nel secondo incontro di Pinocchio con i due truffatori, ritorna il riferimento al mondo vegetale: «“Quant’è distante da qui il Campo dei miracoli?” - “Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là; semina subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni colle tasche piene. Vuoi venire con noi?”».
A tale riguardo si è giustamente osservato: Il rapporto tra tempo e denaro gode di una proporzionalità molto singolare: tanto più esiguo è il lasso necessario per accumulare soldi, tanto maggiore è l’ammontare a cui si può pervenire. Nel discorso della Volpe e del Gatto questo paradosso è reso possibile dalla natura prolifica dei soldi, che appare in tutto e per tutto assimilabile ad un essere vivente e vegetale, capace di riprodursi […] «La colpa di Pinocchio» - scrive Cavallone - «non è soltanto quella (relativamente lieve) di essersi fidato dei malandrini, ma anche e soprattutto quella (molto più grave) di aver desiderato una ricchezza generata da sé stessa, senza alcun rapporto con la fatica e con il merito».
È ciò che rimprovera il grosso Pappagallo a Pinocchio impegnato ad annaffiare la terra che ricopre le monete: «Sì, parlo di te, Povero Pinocchio: di te che sei così dolce di sale da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa».
Alla distruzione del tempo storico generata dall’illusione e dalla falsa certezza del «subito», si affianca la distruzione generata dal sogno paralizzante del «sempre». In un saggio intitolato Il paese dei balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco, Giorgio Agamben osserva: Nella descrizione di questa utopica repubblica infantile, Collodi ci ha lasciato l’immagine di un universo in cui non vi è altro che gioco [...] Questa invasione della vita da parte del gioco ha come immediata conseguenza un cambiamento e un’accelerazione del tempo: «In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni». Com’era prevedibile, l’accelerazione del tempo non lascia immutato il calendario. Esso - che è essenzialmente ritmo, alternanza, ripetizione - s’immobilizza ora nello smisurato dilatarsi di un unico giorno di festa.
«Ogni settimana» - spiega Lucignolo a Pinocchio - «è composta di sei giovedì e una domenica. Figurati che le vacanze d’autunno cominciano con il primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre». Se dobbiamo credere alle parole di Lucignolo, il «pandemonio», il «passeraio» e il «baccano indiavolato» del paese dei balocchi hanno, cioè, per effetto una paralisi e una distruzione del calendario [...]
Il paese dei balocchi è un paese i cui abitanti sono occupati a celebrare riti e a manipolare oggetti e parole sacre, di cui hanno però dimenticato il senso e lo scopo. E non dobbiamo stupirci se, attraverso questo oblio [...] entrano così in un’altra dimensione del tempo, in cui le ore corrono come «baleni» e i giorni non si alternano. È uno dei sogni più ricorrenti dell’uomo: fermare il tempo; di fronte al monotono fluire della nuda vita, cercare di compiere un passo indietro e arrestare l’inarrestabile. Il gioco è uno dei modi attraverso il quale il soggetto tenta di e in parte anche riesce a sottrarsi al continuo movimento che travolge tutto ciò che esiste. L’uomo gioca, è capace di giocare con la massima serietà, e in tal modo, per un certo tempo, si abbandona all’oblio del tempo. In questo «certo tempo» è come se si assistesse a un congelamento del tempo stesso mediante una universalizzazione del presente: nel gioco, attraverso e grazie al gioco, il soggetto si dimentica del passato, non si preoccupa più del futuro e si concentra unicamente sul presente: giocando si rende il presente sempre presente, si fa del presente - ecco in che modo si produce la distruzione della storia - il solo modo dell’intera temporalità.
Ma il tempo del gioco - come, per l’appunto, mostra con estrema chiarezza la vicenda relativa al «Paese dei balocchi» - può essere solo un «certo tempo». In effetti, se da una parte non si può negare che le promesse di Lucignolo siano state in qualche modo mantenute; Pinocchio lo riconosce: «È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: “Non praticare quella birba di Lucignolo, perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!...”. “Povero maestro!”, replicò l’altro tentennando il capo. “Lo so pur troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono!”. “Anima grande!”, disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi».
D’altra parte, una volta riconosciuta «questa verità», non è difficile intravedere la «menzogna» che sempre l’accompagna: una simile verità, «questa verità», è relativa sempre e solo a un «certo tempo». L’uomo, infatti, non può limitarsi a giocare, anche perché è il suo stesso vissuto soggettivo a non poter mai essere paralizzato nel solo presente. Dopo un «certo tempo», la verità risveglia Pinocchio del suo incanto: «Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo mise proprio di malumore». Ad essere rigorosi, non si tratta solo di «una gran brutta sorpresa» ma dell’unica e della più terribile delle «cattive notizie». La storia è nota ma conviene a tale riguardo rileggere il drammatico dialogo tra Pinocchio e la Marmottina: «“Sono malato, Marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?”. “Un pochino”. “Senti dunque se per caso avessi la febbre”. La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse sospirando: “Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!...”. “Cioè?”. “Tu hai una gran brutta febbre!”. “E che febbre sarebbe?”. “È la febbre del somaro”. “Non la capisco questa febbre!”, rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita. “Allora te la spiegherò io”, soggiunge la Marmottina: “Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più né un burattino, né un ragazzo...”. “E che cosa sarò?”. “Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato”».
Il tempo, che il gioco aveva momentaneamente sospeso congelandolo nel presente, ritorna con prepotenza in scena; la Marmottina lo ripete per ben due volte: «tra due o tre ore» tu diventerai (ecco riemergere ancora una volta il tema carsico del «diventare») non ciò che avresti potuto essere, un ragazzo, e neppure ciò che forse a questo punto preferiresti restare, un burattino, ma un ciuchino. Il tempo, sebbene ci si possa illudere di sospenderlo momentaneamente (e il gioco è questa magnifica illusione), non può essere fermato ma soltanto abitato. L’uomo non può fermare il tempo ma neppure può semplicemente abbandonarsi ad esso; egli lo deve piuttosto abitare trasformandolo in storia, in quella «sua storia» all’interno della quale il tempo diventa un’occasione per il compiersi della doppia nascita.
È anche per questa ragione che le Avventure di Pinocchio meritano di essere considerate un classico della letteratura universale: esse, infatti, aiutano a comprendere meglio il senso dell’imperativo che Nietzsche ha saputo riconoscere con fermezza e lucidità: trattandosi dell’uomo, se c’è un dovere, questo non è altro che quello di diventare ciò che si è.
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Nella riedizione di «Le fiabe non raccontano favole» il filosofo Silvano Petrosino legge l’avventura della scarpetta a caccia del senso profondo: un’educazione implicita alla libertà negli affetti soprattutto coi parenti di sangue.
Al centro della fiaba di Cenerentola è posto il tema della rivalità fraterna e dell’ostilità in famiglia. Si tratta di un tema universale che emerge con chiarezza, ad esempio e per limitarsi alla sola narrazione biblica, nella vicenda di Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i fratelli. Nel nostro caso, trattandosi di una fanciulla, l’ostilità è quella esercitata dalle sorellastre: in Cappuccetto Rosso l’ostacolo è costituito dal lupo (l’uomo-seduttore), in Biancaneve dall’altra donna (la regina invidiosa), in Cenerentola dalle persone di casa (la matrigna e le perfide sorellastre). Anche in Cenerentola la protagonista è sola: la madre è morta, il padre è assente perché è in viaggio; inoltre la fanciulla è relegata ai margini della casa, ed è costretta, come uno scarto, a vivere vicino al focolare e tra la cenere. […]
Cenerentola vive come un’estranea tra i suoi. Da questo punto di vista il tema della rivalità fraterna deve essere ricondotto a un’esigenza fondamentale che si colloca all’origine stessa del costituirsi di ogni identità soggettiva: si tratta del desiderio di riconoscimento. La ragione di questa insopprimibile tendenza non è difficile da comprendere; si viene alla vita senza deciderlo, ma ora si deve precisare che si viene alla vita sempre all’interno di una scena già allestita, in cui altri attori già da tempo recitano la loro parte: il ‘nuovo arrivato’ è ‘nuovo’ proprio perché ‘sopraggiunge’ in un luogo in cui deve ‘ritagliarsi’ il proprio spazio, in cui deve trovare quella collocazione che, per lo meno in prima battuta, deve essere ‘autorizzata’ e ‘accettata’ mediante il riconoscimento di altri (la madre, il padre, i fratelli, le sorelle, ecc.). Tuttavia, anche in questo caso, come accade sempre per le vicende umane, il «desiderio di riconoscimento», un desiderio che deve essere senz’altro considerato un desiderio legittimo e «buono», può trasformarsi in una trappola in cui il soggetto alla fine rischia di perdersi. […]
È un primo grande insegnamento di questa fiaba: essere amati, riconosciuti, ammirati, scelti, è una speranza del tutto legittima che tuttavia non deve mai trasformarsi in una pretesa: posso stare in attesa del riconoscimento ma non devo cadere nella trappola di concepire e vivere una simile attesa come una pretesa. Quest’ultima porta alla cecità perché spinge a guardare l’altro sempre e solo in riferimento a sé stessi, come uno specchio di sé stessi, come se l’altro non avesse altro da fare che riconoscermi e amarmi. Cenerentola, dicevamo, è sola ed esclusa, eppure ella non resta vittima di tale situazione, non si lascia andare cedendo allo sconforto. Il ramoscello che chiede in dono al padre (mentre le sorellastre chiedono «bei vestiti, perle e gemme») svolge da questo punto di vista una funzione simbolica assolutamente fondamentale: non è una cosa inerte, non è un semplice oggetto da indossare e usare, ma è un essere vivente di cui ci si può prendere cura e soprattutto che può crescere. Il tema e il tempo relativo alla «crescita», così come la differenza tra «usare» e «curare», sono qui essenziali; infatti, dopo aver ringraziato il padre per il dono ricevuto, Cenerentola si reca sulla tomba della madre e vi «piantò il rametto e pianse tanto che le lagrime vi caddero sopra e l’innaffiarono. Il ramo crebbe e divenne una bella pianta. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava, e ogni volta si posava sulla pianta un uccellino bianco, che, se ella esprimeva un desiderio, le gettava quel che aveva desiderato». […]
Dopo il tema della «solitudine», emerge fin dalle prime battute della fiaba quello delle «avversità». La solitudine di Cenerentola, come già si accennava, è particolarmente drammatica perché essa è da ricondurre non solo all’assenza della madre e del padre, ma anche alle angherie a cui è sottoposta da parte della matrigna e delle sorellastre. Emerge a questo livello un tratto di particolare interesse; le prove a cui la fanciulla è sottoposta sembrano insormontabili, e in verità lo sono, ma ella, grazie all’aiuto degli uccellini del cielo, riesce a superare le prove. Se ci si fermasse qui, si banalizzerebbe il senso del racconto; si potrebbe infatti ridurre tutto all’intervento magico e inverosimile degli aiutanti alati; ma il testo precisa che nonostante Cenerentola riesca a superare le prove impossibili a cui è sottoposta dalla matrigna il risultato resta comunque lo stesso: lei non potrà partecipare al ballo organizzato dal re per trovare una sposa al figlio. Contro ogni ottimismo ingenuo, non è vero che tutte le difficoltà, se ci si impegna (esaltazione idolatrica della propria volontà), prima o poi saranno superate; inoltre, a volte accade che anche quando esse vengono superate la situazione non cambi: «Ma la matrigna le disse: – È inutile, tu non vieni, perché non hai vestiti e non sai ballare: dovremmo vergognarci di te –. Le voltò le spalle e se ne andò in fretta con quelle due figlie boriose».
La fanciulla, dunque, avrebbe tutte le ragioni per avvilirsi e rinunciare, abbandonandosi così allo sconforto; ma ancora una volta, sebbene sia sempre più sola, ella risponde e, ritornando sull’unico luogo che riesce concretamente ad abitare e in cui si sente realmente accolta in quanto Cenerentola, ribadisce con forza il proprio desiderio: «Rimasta sola, Cenerentola andò sulla tomba della madre e gridò – Piantina, scuotiti, scrollati, d’oro e d’argento coprimi». Questo «grido» non è riducibile a un semplice ‘atto di volontà’ assomigliando piuttosto a un’invocazione, a una preghiera; quando tutto sembra ormai perduto, si può sempre gridare, si può sempre pregare, e non c’è solitudine che possa impedire quel grido che è sempre rinvio ad altro, all’altro. Nel grido, infatti, si è al tempo stesso soli e non già più soli.
Il grido di Cenerentola viene ascoltato e «allora l’uccello le getto un abito d’oro e d’argento e scarpette trapuntate d’argento e di seta. In fretta in fretta ella indossò l’abito e andò a nozze». Inizia l’avventura del ballo a palazzo reale dove Cenerentola si reca tre volte ma dal quale fugge anche tre volte. […]
Nel corso dell’ultima fuga Cenerentola perde la scarpetta d’oro, una scarpetta che essendo d’oro non può essere modificata, nel tentativo ma anche con la pretesa di adattarla a qualsiasi piede, ma solo indossata dalla sua legittima proprietaria. […]
Si apre a questo punto il capitolo a mio avviso più drammatico dell’intero racconto. Davanti alla prova di indossare la scarpetta per verificare se sono loro la giovane con la quale il principe ha ballato tutta la sera durante la festa a palazzo, la madre spinge entrambe le figlie, prima la maggiore e poi la minore, a mutilarsi il piede in modo da riuscire ad infilarlo nella calzatura che risulta troppo piccola per loro. […] Ecco come la determinazione si trasforma in ostinazione e come l’ostinazione porta alla violenza, alla mutilazione della propria persona, arrivando così a stravolgere la propria vita pur di raggiungere lo scopo; quando si ragiona secondo la logica del ‘a ogni costo’, questo costo, in ultima analisi, non potrà essere altro che quello della propria vita. Vale la pena ripeterlo: si può desiderare e sperare di essere scelti e amati, così come si può desiderare e sperare di diventare sposa e madre (la matrigna di Biancaneve), ma non si deve pretendere di esserlo ad ogni costo.
Inoltre, ciò che rende particolarmente drammatica e tragica questa trasformazione – quella dalla determinazione all’ostinazione, dall’attesa alla pretesa – è che essa è sollecitata dalla madre stessa nei confronti delle proprie figlie, madre che, a differenza del padre di Cenerentola, non fa mai un passo indietro e resta caparbiamente al centro della loro vita impedendole di raggiungere una piena autonomia. […]
Le sorellastre riescono, a turno, a calzare la scarpetta, e riescono anche ad ingannare il principe, ma nonostante questi ‘successi’ non possono impedire che l’effetto della loro mutilazione si manifesti con assoluta evidenza: il sangue sgorga dalla calzatura rivelando al principe la trappola in cui è caduto. […]
Il principe, caduto in un primo momento nell’inganno delle sorellastre ma che ora dimostra di non limitarsi a vedere ma di sapere anche guardare, andando al di là dell’aspetto esteriore poco piacevole della ragazza, porge infine la scarpetta a Cenerentola, la quale, di propria iniziativa, indossa la calzatura con facilità e alla perfezione. Non è il principe ad infilare la scarpetta a Cenerentola ma è quest’ultima a calzarla autonomamente; il particolare è di fondamentale importanza e può essere collegato al fatto che solo Cappuccetto Rosso, e non il cacciatore o la nonna, può decidere di lasciare il lupo fuori dalla propria casa/vita.
Anche in Cenerentola, così come in Biancaneve, il racconto non finisce affatto con l’ovvio «e tutti vissero felici e contenti»; per le sorellastre, così come per la matrigna in Biancaneve, la storia si conclude tragicamente e questo permette di evidenziare uno degli aspetti più fecondi delle fiabe, le quali, evitando ogni ipocrisia e non cadendo nella trappola della parola edificante, sollecitano il lettore a identificarsi con tutti i personaggi messi in scena e non solo con le eroine o con gli eroi del racconto. [..]
Il viaggio di quest’ultime giovani donne, per certi aspetti mosso dallo stesso legittimo desiderio che muove il viaggio dell’altra giovane donna della storia, ha dunque un esito terribile: la mutilazione dei piedi, infatti, evolve con estremo rigore nella mutilazione degli occhi. In effetti, una stessa logica lega tra loro lo sguardo di sbieco, l’in-vidia della regina di Biancaneve e la cecità delle sorellastre di Cenerentola, come se la prima fosse sempre destinata, prima o poi, a trasformarsi nella seconda: «Quando stavano per celebrarsi le nozze, arrivarono le sorellastre, che volevano ingraziarsi Cenerentola e partecipare alla sua fortuna. E mentre gli sposi andavano in chiesa, la maggiore era a destra, la minore a sinistra di Cenerentola; e le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi, all’uscita, la maggiore era a sinistra, la minore a destra; e le colombe cavarono a ciascuna l’altro occhio. Così furono punite con la cecità di tutta la vita, perché erano state false e malvage».
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Ansa
Nel suo ultimo libro, il filosofo Silvano Petrosino definisce l'epidemia l'«irruzione dell'imprevedibile» nel cuore del mondo più avanzato. E contesta l'idea che il pensiero scientifico sia assenza di dubbi e incertezze.
Se dovesse in modo diretto e sintetico indicare l'aspetto più rilevante dell'epidemia che ci ha colpito quale termine utilizzerebbe?
«Non riesco a pensare a nulla di più appropriato del termine “imprevedibile". L'epidemia che ci ha colpito si è manifestata con la violenza dell'imprevedibile, è stata una vera e propria “irruzione dell'imprevedibile". Certo, non avevamo bisogno di questa tragica lezione per sapere che la nostra vita è continuamente attraversata dall'imprevedibile: l'infarto ci colpisce spesso all'improvviso, così come la foratura dello pneumatico dell'autovettura che ci porta al posto di lavoro avviene senza alcun preavviso; ci sono poi i terremoti, le alluvioni e gli infiniti incidenti, più o meno gravi, che affollano la quotidianità di ogni essere umano. Ma tutti questi eventi, proprio perché più o meno frequenti, sono degli imprevisti in qualche modo previsti, sono degli “imprevisti previsti" che in una certa misura fanno parte della contabilità che governa le nostre esistenze; in altre parole, come non a caso si usa dire, essi “sono messi in conto". Ma, a eccezione forse di alcuni virologi, per la stragrande maggioranza delle persone l'epidemia ha colpito come un evento del tutto e da tutti inatteso; inoltre - e questo neppure i virologi sono riusciti a prevederlo - essa si è sviluppata e poi diffusa non nel terzo e quarto mondo, o nelle periferie degradate delle megalopoli dell'America latina, e neppure in alcune città del nostro stesso Paese in cui le condizioni igieniche e la raccolta dei rifiuti sono ancora lontano dalla normalità, ma nel “primo mondo", in grandi nazioni tecnologicamente avanzate ed economicamente solide, in Cina e poi in Italia, più precisamente nel Nord ricco e industrioso, e infine in tutta Europa e poi nel mondo intero». [...]
Vorrei invitarla a esaminare una questione complessa che tuttavia non si può evitare di affrontare; mi riferisco al ruolo svolto in questa dolorosa vicenda dalla scienza.
«Questo tema è davvero molto complesso e non può essere adeguatamente trattato in questa sede. Tuttavia su almeno due suoi aspetti è possibile avanzare alcune brevi considerazioni. Bisognerebbe prima di tutto distinguere la “scienza" dalla “immagine (mediatica e non solo) della scienza". All'interno della nostra cultura la scienza - il che vuole dire: il suo modo di ragionare, i termini che essa utilizza, l'immaginario che essa mette in scena, eccetera - svolge un ruolo così importante da risultare esclusivo; essa ha in qualche modo finito per assorbire in sé stessa ogni pretesa di verità e di certezza: all'interno del comune sentire la verità vera (scusi la formula), la verità più autentica, quella più potente ed efficace, è in ultima istanza quella scientifica. Al di fuori di essa vi sarebbero solo dei pareri, delle emozioni, dei sentimenti, delle fedi, un universo simbolico ricco e dal punto di vista antropologico certamente rilevante ma non per questo oggettivo, certo, sicuro, vale a dire, per l'appunto, vero. La scienza autentica è abitata da dubbi, incertezze, perplessità, correzioni, eccetera, ma tutto questo travaglio è assente dall'immagine della scienza che alimenta il comune sentire. Di fronte a un'epidemia non si può far altro che lottare con gli strumenti della scienza, ma l'immagine della scienza ha finito per alimentare nelle persone delle aspettative a cui la scienza, come dovrebbe essere ovvio, non ha potuto rispondere. Si è trattato di un'autentica attesa salvifica: come mai la scienza, questa assoluta protagonista all'interno del nostro potente primo mondo, non ha risolto subito la tragedia? Come mai non l'ha neppure prevista? Come mai, noi cittadini del potente primo mondo, abbiamo dovuto vivere nell'incertezza così a lungo?
In secondo luogo bisognerebbe distinguere la “scienza" dagli “scienziati". Da questo punto di vista la raccolta, l'elaborazione e l'interpretazione dei dati epidemiologici da parte degli scienziati hanno messo in luce un'incertezza - in verità a mio modesto avviso molto interessante e preziosa - che il sentire comune non si attendeva da quella immagine della scienza che oggi rassicura il vissuto di tante persone.
Se la sola verità certa è quella della scienza, come mai gli scienziati si dimostrano così incerti, così perplessi, così in contrasto tra di loro, così timidi nel dire quando comincerà una cosa e terminerà l'altra? Chi, dunque, ci potrà mai almeno un po' rassicurare se non proprio salvare? Questi scienziati, infatti, smentendo l'immagine della scienza di cui parlavo, si sono comportati come gli altri uomini di cultura, hanno confermato che non tutto si può prevedere, che c'è un avvenire al di là del futuro, che c'è sempre qualcosa che non funziona, un resto che non si riesce in alcun modo a contabilizzare.
Ci si dovrebbe dunque interrogare con maggiore attenzione e serietà su rapporti che intercorrono tra la scienza e l'immagine della scienza, evitando ad esempio di liquidare frettolosamente (magari accusando subito la stampa, i giornalisti e più in generale il mondo dei media) la questione relativa a una eventuale responsabilità della scienza stessa nei confronti della costruzione di quella immagine così favorevole e potente che non a caso le garantisce un ruolo sociale di assoluta rilevanza».
Percepisco nelle sue parole una sorta di presa di distanza nei confronti della «scienza» o, se preferisce, di una certa «immagine della scienza». Eppure [...] di fronte a un'epidemia come quella che ci ha colpito chi ci poteva e ci può ancora aiutare se non la scienza?
«Mi dispiace di averle dato questa impressione. Alla scienza non ci deve opporre, anche perché sarebbe semplicemente una follia il farlo; sono soprattutto gli scienziati, i medici e gli infermieri che lottano contro il diffondersi di un'epidemia, e il loro operato non può essere sostituito da niente e da nessuno. Per fortuna, dunque, c'è la scienza; per fortuna il sapere scientifico progredisce e ci viene di continuo in aiuto. In quel magnifico testo che Céline dedica al dottor Semmelweis e a un'altra epidemia, quella della febbre puerperale, lo scrittore francese scrive: “Non credete a quei poeti che vanno lamentandosi contro i rigori e le costrizioni del pensiero o che maledicono le catene materiali con cui pretendono venga intralciato il loro mirabile slancio verso il cielo dei puri spiriti! Beati incoscienti! Pretenziosi ingrati, in verità, che non concepiscono altro che un grazioso cantuccio di quell'assoluta libertà che pretendono di desiderare!".
Riconosciuto questo, bisognerebbe tuttavia anche evitare, così almeno a me sembra, di trasformare lo stesso termine scienza in una sorta di “parola magica" in grado di leggere, interpretare e risolvere, prima o poi, sempre tutto, come se al di fuori della razionalità strettamente scientifica si agitassero solo “pulsioni incontrollate, illusioni e nuvole". Vi sono aspetti della vita dell'uomo, aspetti essenziali della sua esperienza umana, che oppongono un'evidente resistenza a una loro lettura e interpretazione in termini strettamente scientifici. Poco più sopra ho parlato della verità; ecco, ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se sia possibile risolvere nella sola “certezza", in quella che viene anche definita la “pura obiettività", il senso che la parola “verità" continua a fecondare all'interno del vissuto umano. Sempre Céline - e questo è solo un altro esempio -, a proposito del metodo sperimentale che è il cuore stesso della scienza così come noi la concepiamo, osserva: “Il metodo sperimentale non è che una tecnica infinitamente preziosa, ma deprimente. Esso richiede dal ricercatore un sovrappiù di fervore per non crollare prima di raggiungere il suo scopo, su quello spoglio sentiero che bisogna percorrere accompagnati appunto dal metodo. L'uomo è un essere sentimentale. Senza sentimento, niente grandi creazioni, e l'entusiasmo si esaurisce rapidamente nella maggior parte degli uomini, a mano a mano che si allontanano dal loro sogno"».
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