Al solito una faticaccia, ma ricca di soddisfazioni. Stavolta 201 chilometri con un dislivello mostruoso di quasi 2.000 metri, da Perugia fino a Roma, in 6 ore e 36 minuti: «Un tempo fantastico». Per la sesta volta Umberto Roccatti, ex fumatore assiduo e presidente di Anafe Confindustria, l’Associazione nazionale produttori fumo elettronico, compie un’impresa in bicicletta. Dimostra come, abbandonando le vecchie sigarette e passando a soluzioni di nuova generazione, i polmoni e il fisico riescano a sopportare gli sforzi più estremi. In sella e non solo.
È lo spirito della «Ride 4 Vape», l’ormai tradizionale appuntamento che tiene alta l’attenzione sul rischio ridotto dei prodotti da svapo. «Secondo studi autorevoli, sono almeno del 95% meno dannosi. E si rivolgono a quel 91% di fumatori adulti che non vogliono o non riescono a smettere. In Italia hanno già permesso a 3 milioni di persone di abbandonare le sigarette», riassume Roccatti, nemmeno troppo esausto («all’inizio faceva freddo, poi è uscito un sole stupendo», racconta), accompagnato da Marco Piscopo, pallavolista ad alto livello e anche lui ex fumatore.
L’ultima edizione della corsa, arrivata ieri davanti al ministero della Salute intorno alle 15, ha avuto come slogan «Flavour ban = Black market»: non per una predilezione degli anglismi, ma per l’eco continentale della manifestazione.
Il nodo riguarda infatti i divieti che l’Unione Europea potrebbe inserire nella direttiva sul tabacco in corso di revisione, bandendo quegli aromi che rendono più desiderabile la sigaretta elettronica: «Il punto è che un sondaggio di Euromedia Research ci dice che il 77% dei fumatori adulti li ha trovati determinanti per convertirsi allo svapo».
L’Ue fa di tutto per proteggere i minori, ma l’intenzione, per quanto comprensibile, poggia su un paradosso: è illegale vendere prodotti di qualunque tipo a chi ha meno di 18 anni, con o senza gli aromi. Perciò, un divieto tout court, esteso agli adulti, avrebbe come conseguenza diretta quella di far schizzare il mercato nero: «È successo in Paesi come l’Olanda o la Danimarca, dove il commercio illecito ha raggiunto picchi dell’85% in un caso, del 90% in un altro». Gonfiando le casse di organizzazioni criminali e, in parallelo, provocando un rischio per la salute di chi si rivolge a canali senza controllo: «Prima di arrivare sugli scaffali, i nostri prodotti vengono analizzati a livello chimico e di vapori emessi. Si tratta di soluzioni certificate».
Roccatti, che è anche vicepresidente di Ieva, l’alleanza europea indipendente per il vaping, ha portato al ministero della Salute italiano - che non si è ancora espresso sulla questione - una serie di dati e studi che supportano le sue argomentazioni. Ribadendo che le sigarette elettroniche, così come l’uso degli aromi, sono pensate per chi già fuma, non certo per incitare qualcuno a cominciare: «Ai ragazzi dico piuttosto di applicarsi nello sport, che regala molte gioie. La «Ride 4 Vape» non vuole alzare i toni, ma creare un dibattito in punta di piedi». Anzi, di pedali.
Un migliore amico instancabile e complice, disponibile giorno e notte, privo di filtri e particolari remore morali. Una presenza costante capace di dialogare, consolare, consigliare qualunque cosa. Anche come costruire il cappio perfetto, in grado di reggere l’ultimo atto, quello più estremo: il peso di un corpo che si appende nel vuoto per trovare la morte. È così che, lo scorso aprile, il sedicenne californiano Adam Raine si è suicidato nella sua camera. L’ha fatto, come raccontato pochi giorni fa da un’inchiesta del New York Times, con l’aiuto di ChatGpt, l’intelligenza artificiale sapientona che era diventata la sua migliore amica in un periodo complicato. Adam era stato espulso dalla squadra di basket dove giocava e aveva problemi fisici che lo avevano costretto a studiare online, da casa. Una situazione estrema finita in tragedia, forse però non un caso limite, anzi un segnale d’allarme, l’indizio di una trappola per le nuove generazioni: «Perché l’Ia può portare a un nichilismo totale, arrivando ad alimentare un isolamento radicale. È un oracolo che sa tutto, dunque diventa un punto di riferimento assoluto, per i ragazzi come per gli adulti. Ma prima ancora di dimostrare la sua onniscienza, di dare risposte, ha un pregio più grande: sta a sentire quello che le diciamo, ci ascolta» ragiona Mark Perna, giornalista, divulgatore, esperto di tecnologia e innovazione, autore del libro di prossima pubblicazione AI B C. Tutto quello che devi sapere sull’intelligenza artificiale per non rimanere indietro.
Perna, quanto bisogna preoccuparsi?
«Per rispondere, non cito il mio punto di vista, ma quello di Sam Altman, il creatore di ChatGpt. Di recente ha sostenuto che non si aspettava la profondità del rapporto sviluppato dalle persone con tali strumenti. Ha detto di esserne rimasto sorpreso».
Quella di Altman, però, appare come una lettura un po’ ingenua, se non furba. In passato, ci siamo persino affezionati ad Alexa e agli altri assistenti vocali.
«Che per giunta non hanno la caratteristica di essere bidirezionali, ma funzionano a comando. Invece, i chatbot sono pseudo-viventi, con loro s’instaura una quasi relazione. Danno la sensazione di parlare realmente con una persona. A rifletterci non è nulla di nuovo: siamo già passati da questa fase».
A cosa si riferisce?
«Alla prima era di Internet, prima ancora dei social network, quando chattavamo con sconosciuti che si nascondevano dietro uno schermo. Almeno, loro avevano una personalità, che poteva piacerci oppure no. La macchina plasma il suo carattere attorno a noi, diventa ciò che le persone vogliono che sia. Colma tutti i vuoti e le criticità della comunicazione umana. Può essere la fidanzata bionda con gli occhi azzurri, il compagno con cui evocare ricordi per un anziano solo o, per gli adolescenti, il genitore adulto che non li ascolta mai».
Un genitore abbastanza irresponsabile e fuori controllo. Uno studio recente della rivista medica Psychiatric Services ha dimostrato come questi servizi, nonostante promettano filtri e cautele, diano risposte dirette alle domande legate all’autolesionismo. E quando non lo fanno, è sufficiente riformularle un minimo.
«Far cadere tutta la colpa su questi strumenti significa deresponsabilizzarsi, trovare un alibi confortevole. Io parlerei piuttosto di trasversalità, di co-responsabilità. Dov’erano gli amici, gli insegnanti, il padre e la madre del giovane suicida? Possibile che nessuno si sia accorto del suo disagio? Se non ci fosse stata l’intelligenza artificiale, probabilmente avrebbe scovato le risposte che cercava su internet, all’interno di un forum, magari in un video con le istruzioni dettagliate passo dopo passo».
I genitori del ragazzo la pensano in maniera opposta. Hanno fatto causa a OpenAI, la società che gestisce ChatGpt e che, dopo questo episodio, ha annunciato «misure di protezione più rigorose per i contenuti sensibili e i comportamenti rischiosi». Denunciare è il modo giusto per tutelarsi o quantomeno spingere queste grandi società tecnologiche a diventare più prudenti?
«Il tema non può ridursi all’atteggiamento di un servizio, al suo talento di darci le informazioni più o meno appropriate, più o meno scomode. Il problema, in generale, riguarda le conseguenze dell’accesso a un’informazione non mediata. L’intelligenza artificiale esige conoscenza, consapevolezza, controllo e verifica, anche perché, è bene ribadirlo, a volte prende delle cantonate assurde. Ignorarlo equivale a girarsi dall’altra parte. O tentare di fermare il mare con le mani».
Qual è l’alternativa?
«Smetterla immediatamente di sottovalutare l’Ia, considerandola una scorciatoia per risolvere qualche piccola necessità operativa, per sbrigare prima un impegno di lavoro o finire più rapidamente i compiti scolastici. Al contrario, è un fenomeno che va compreso molto bene, perché ha un impatto dirompente. In questo campo, non c’è chi ne sa di più e chi ne sa di meno. Ne sappiamo tutti mediamente poco».
A livello pratico, che percorso suggerisce?
«Tornare letteralmente sui banchi, giovani e adulti, uno accanto all’altro. Studiare, formarsi, trovare e ascoltare buoni insegnanti».
A chi spetta questa nuova maieutica? Alla politica?
«Temo che affidandosi alle istituzioni le tempistiche possano dilatarsi. Bisogna agire in autonomia, auto-attivarsi. Imparare a relazionarsi con l’intelligenza artificiale è una necessità urgente».
Prima che sia troppo tardi?
«Casi come quello del ragazzo americano potrebbero accadere di nuovo. Occorre attuare contromisure in fretta. Quella che abbiamo di fronte è un’emergenza sociale».
«La vivremo come un’esperienza naturale, spontanea, che non abbiamo bisogno di imparare perché la conosciamo già a memoria. Fa parte di noi. Il tatto è un elemento del nostro corpo, un senso invisibile che diamo per scontato. Questa tecnologia lo renderà protagonista, sarà una maniera per amplificarlo. Un’estensione delle sue possibilità».
La previsione è di Antonio Frisoli, professore di robotica presso l’istituto di intelligenza meccanica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e tra i massimi esperti in Italia di interfacce aptiche. Poche settimane fa ha tenuto uno dei discorsi di apertura a Eurohaptics, il principale evento europeo dedicato a queste soluzioni innovative che, a suo avviso, si affermeranno con decisione nei prossimi cinque anni.
Professore, perché non è ancora avvenuto, nonostante se ne parli da tempo? Non è che rischiano di trasformarsi in una promessa mancata o, peggio, in un buco nell’acqua?
«In realtà sono già la normalità, non solo in ambito professionale. Pensiamo ai controller delle console dei videogiochi, che vibrano con intensità differente in base alle azioni del protagonista. Il gaming è uno dei tanti ambiti di successo possibile».
Ma non sembra determinante.
«La scommessa, in generale, è uscire dalla nicchia, lanciare una produzione di larga scala capace di abbattere i costi. Ricordiamoci che siamo nel terreno dell’hardware, che incontra barriere all’ingresso e difficoltà distributive maggiori rispetto al software».
Come si aggira l’ostacolo dei prezzi elevati e la disponibilità limitata?
«Le interfacce aptiche vanno inserite in oggetti d’uso quotidiano come gli smartphone oppure devono diventare un loro accessorio facilmente attivabile, alla pari degli auricolari senza fili. Non è improbabile: ieri non credevamo ai display flessibili, oggi i telefoni pieghevoli sono dappertutto. Lo stesso accade nell’e-commerce».
In che senso?
«In pochi scommettevano che avremmo comprato abiti online, ora vari colossi sono leader di un mercato florido. Domani potremo sentire sulle dita il tessuto di una camicia o un pantalone prima di ordinarli e farceli spedire a casa. A patto, certo, di avere un dispositivo capace di restituirci tali qualità».
È l’approdo, il traguardo. Fasi intermedie per avvicinarsi alla meta?
«La rivoluzione nella robotica umanoide darà un contributo notevole. Per poter comandare a distanza i robot, vanno istruiti. Sentire le loro sensazioni in tempo reale, aiuterà a farlo meglio. Solo così saranno davvero un avatar, un nostro alter ego».
Qualcosa di meno futuristico?
«Le automobili. Sono sempre più multimediali, hanno grandi schermi al posto del cruscotto. Una delle richieste del mercato di alta gamma è abbinare alle superfici un comportamento intelligente. Simulare pulsanti e le loro funzioni senza che ci siano, privilegiando la pulizia del design».
Non tutti possono permettersi vetture così evolute.
«Quasi tutti invece usano un computer. Ecco, mouse e tastiere, pur resistendo, rappresentano la preistoria dell’informatica. Non sono naturali, all’opposto dei comandi vocali, di un accenno di conversazione con le macchine. La tecnologia aptica s’inserisce nella stessa scia. Dopo le illusioni ottiche, avremo le illusioni aptiche».
Facciamo esempi pratici.
«Anziché cliccare o schiacciare tasti, useremo le mani per alzare o abbassare il volume o regolare la luminosità. Come nel caso delle automobili, percepiremo manopole e pulsanti senza che esistano fisicamente. Il controllo con il tatto è più soddisfacente. Per convincerci della veridicità di scenari del genere, si può di nuovo dare uno sguardo al passato. Credevamo che la tastiera fisica sui telefonini non sarebbe mai morta, sappiamo che fine ha fatto».
Perché ritiene che il punto di svolta sia adesso?
«La tecnologia ha fatto importanti passi in avanti nel tracking, ovvero nel seguire il movimento delle dita e trasmetterlo a un software attraverso sensori leggeri e a poco prezzo. È fondamentale per poter inserire l’aptica in dispositivi indossabili o portatili».
Pensa che un giorno arriveremo a riprodurre l’olfatto?
«Anche qui ci sono esperimenti e avanguardie. Ma chi si occupa di profumi sa bene quanto sia un territorio complicato. Per dare vita a un’essenza, è necessario un campionario ampio al quale attingere. Il tatto combina percezione e azione, è un senso attivo; l’olfatto è più contemplativo, lo trovo meno cruciale da riprodurre a distanza».
Ci attende una vita digitale polisensoriale, che superi il duopolio vista-udito?
«Riusciremo a fare meglio di sentire e guardare. Sapremo immergerci in contesti che supereranno i limiti del quotidiano, i confini dello spazio fisico. Sarà come entrare dentro un quadro di Dalì e toccarne con mano le fantasie. Sono convinto che, presto, vivremo in una realtà estesa. Realizzeremo in pieno l’idea di andare oltre il qui e ora».





