Presidente
della Fondazione Julius Evola
Caro direttore Sangiuliano, consentirai ad un ex Rai come adesso sei (almeno temporaneamente) anche tu, di rivolgermi così a te da vecchio collega, invece di scrivere «Caro ministro». E di proporti, nello spirito schietto dell’eodem sentire, qualche suggerimento del tutto disinteressato.
Immagino che ti renda benissimo conto di essere entrato in un ambiente che per quasi dieci anni è stato feudo di Dario Franceschini, il ministro Pd che si vantava di andare in giro per le strade di Ferrara col padre ostentando copia della «Costituzione più bella del mondo» e che giubilò quel funzionario che aveva detto parole positive sul fatto che la famiglia avesse donato tutto l’archivio di Pino Rauti allo Stato. Quindi sarai circondato da burocrati che, come tali, saranno devoti del tuo potente predecessore. Occhio dunque alla insabbiamento o allo stravolgimento in itinere delle tue decisioni. Circondati di persone fidate.
Hai un compito fondamentale, «da far tremare le vene ai polsi» come ha detto un tuo neo collega di governo, dato che anche tu credi che la cultura, gramscianamente parlando, sia veicolo di trasmissione di idee e valori: essa è il più importante mezzo di influenza esistente, oggi mille volte più di ieri grazie – appunto – allo straordinario sviluppo dei mass media.
Sono cose che conosci benissimo avendo lavorato nella carta stampata e nella televisione e che, scusa se mi cito, dico da decenni alla destra politica ricordando come il filosofo liberale Nicola Matteocci avesse coniato il termine di «egemonia culturale comunista» in Italia dal dopoguerra in poi: la Dc si accaparrò i ministeri economici con appalti e quant’altro, mentre il Pci si intestò il dominio sulla cultura nei suoi vari aspetti: editoria, giornali, premi letterari, cinema, teatro, radio, televisione, sino ai fumetti. La destra di tutto questo, stando sia all’opposizione sia al governo grazie, è ovvio dirlo, a Berlusconi, pochissimo si è occupata. Ed è un eufemismo.
La prima cosa che hai detto in una intervista tv è che saresti andato a Napoli a rendere omaggio a Benedetto Croce. Giustissimo, ma come sai bene Croce non è certo l’unico nome autorevole rimosso e dimenticato dalla cultura italiana di oggi. Il grande e sfortunato Franco Volpi disse e scrisse che l’Italia ha avuto tre grandi filosofi nel Novecento: Croce, Gentile ed Evola, per identificare altrettanti filoni di pensiero. E un acuto osservatore come Massimo Franco, il giorno della presentazione del governo lo ha definito non solo – ovviamente - «di destra», ma anche «tradizionalista». Un termine che si può intendere in molti modi; confido che tu lo intenda nel modo migliore e più giusto possibile.
Sarebbe inoltre tempo che la destra si interessasse e preoccupasse non solo della cultura «alta» e di élite, ma anche di quella «bassa» e «media», destinata ad ambiti popolari: territorio dal dopoguerra ad oggi di esclusivo appannaggio della sinistra che in tal modo, ergendosi a sua paladina, ha condizionato e manipolato a senso unico generazioni di italiani. Scusa anche qui l’autocitazione, ma si tratta di cose che vado vituperando sin dagli anni Settanta, quando iniziai a scrivere su L’Italiano di Pino e Adriano Romualdi e su Il Conciliatore di Gastone Nencioni e Piero Capello. Senza grandi risultati, però; diciamo pure parole al vento.
Che cosa intendo dire con questo sproloquio? Che il tuo compito a mio giudizio dovrebbe intendersi a 360 gradi, ossia occuparsi della cultura in toto, inclusa appunto quella pop (che non vuol dire automaticamente di sinistra), utilizzando tutti gli strumenti giuridici e promozionali che le strutture e le regole del tuo ministero ti mettono a disposizione e che certo io non so nei particolari, ma che ora tu puoi conoscere direttamente.
Tu hai un certo tipo di formazione culturale, idee, autori e libri di riferimento, ma la cultura di destra è multiforme, è variegata, percorre molte strade, come sai meglio di me. Sarebbe necessario promuoverle e valorizzarle tutte, percorrerle tutte nel loro complesso per cercare di scardinare l’«egemonia» progressista facendo uso dei suoi stessi strumenti.
Insomma: unicuique suun. I ragazzini non possono leggere Croce, Gentile, Evola o Platone, Hegel e Kant. Ci sono forme espressive e linguaggi appropriati alla loro età per far passare certi valori: la musica, i fumetti, la grafica, persino i videogiochi. Per il pensiero conservatore si tratta di approcci ancora oggi inediti, ma fondamentali per non perdere, in questa straordinaria opportunità che adesso ci si presenta, la grande contesa culturale e generazionale che abbiamo di fronte.
Superfluo inoltre rammentare proprio a te come nel mondo dell’editoria, ma anche del teatro, del cinema, della musica ci siano figure anche ben note che non sono de sinistra e non lo nascondono, e per questo sono almeno in parte penalizzate. In certi ambienti, lo sai, essere progressisti (o mostrarsi tali) è d’obbligo per fare carriera. Il vento politico sembra ora cambiato grazie al voto degli italiani, se non ci saranno inghippi da parte degli alleati più che delle opposizioni. Vediamo di approfittarne nei modi migliori con una strategia a breve e lungo termine. Sei una persona colta come dimostrano non solo le parole dette alla stampa dopo la tua nomina, ma anche e soprattutto i libri di spessore che hai scritto, su cui Roberto Saviano rosica palesemente (lui autore, sostanzialmente, di un unico libro), e che non sono certo i romanzetti alla Franceschini (moltissime recensioni, scarsissime vendite). Nonostante ciò lasciami insistere nel ricordare che non c’è solo da rimettere in pista grandi filosofi e grandi letterati dimenticati, ma anche altro. Quando il ministro delle Poste Tatarella fece stampare un francobollo per commemorare Giovanni Gentile si scatenò un putiferio, ma lui andò avanti imperterrito. Non essere da meno.
Con i miei migliori auguri di buon fattivo lavoro.
Presentiamo qui, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Terrae Incognitae. Luoghi che non esistono, di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco (Bietti), dedicato ai luoghi immaginari della letteratura di ogni tempo. Il volume è acquistabile sul sito della casa editrice o su Amazon.
Dell'utopia sono state date molte definizioni, sia dal punto di vista letterario, sia soprattutto da quello delle dottrine politiche (una prova ulteriore, questa, del mutamento di direzione subito dal simbolo della «terra che non esiste»); generalmente, la si indica come un «modello di società» i cui caratteri distintivi vennero per così dire canonizzati nell'opera che diede poi il nome a tutto il genere: il De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia libellus di Tommaso Moro, cancelliere del Regno sotto Enrico VIII (essa apparve nel 1516, anche se assunse il titolo definitivo, che sopra si è riportato, nel 1518). Come si sa, la parola è un neologismo di derivazione greca che vuol dire «non luogo», «nessun posto». [...] Ad ogni modo, era al «modello di società» proposto da Tommaso Moro che bisognava ispirarsi per porre rimedio a quelli che il cancelliere considerava i mali del suo tempo. Di conseguenza, la società dell'isola di Utopia avrà i seguenti caratteri: da un lato uniformità, dirigismo, simmetria, istituzionalismo, autarchia, collettivismo, tendenze missionologiche, razionalità e coerenza; dall'altro, disprezzo dell'onore cavalleresco, delle virtù guerriere, dei valori e interessi tradizionali. Pur se apparsi un secolo dopo, vengono ricordati accanto all'Utopia, come «classici» del genere, La città del sole del domenicano Tommaso Campanella (scritta nel 1602 e pubblicata nel 1623) e la Nuova Atlantide dell'inglese Francesco Bacone (1627). Anch'essi, infatti, benché maturati in ambienti diversi e quindi sviluppati con intenti differenti, rivelano un sottofondo comune, vale a dire il desiderio di presentare un modello ideale di società che possa offrirsi come alternativa a quella del tempo: lavoro al posto dell'ozio, classe di governo basata sul sapere e non sul sangue, razionalità, scienza e ragione al posto di religione, sentimenti e passione. [...]
Un altro studioso dell'utopia politica, il professor Rodolfo de Mattei, ha rilevato che «non vi è alcuna costruzione “ideale" della quale non siano riconoscibili i rapporti con l'epoca che li ha prodotti». Ciò è valido non soltanto per gli scritti di cui si è parlato sino ad ora, quanto soprattutto per quelli nati sulla scorta delle nuove teorie socio-economiche scaturite dalla Rivoluzione francese (1789), dal precisarsi del pensiero di Marx (il Manifesto dei comunisti è del 1848, il Capitale del 1867) e di quello scientifico-filosofico di Darwin (The origin of the species è del 1859). La Francia e l'Inghilterra videro di conseguenza il sorgere di tutta una serie di nuove utopie che, in contrasto con la società del tempo, proponevano un «modello» di ispirazione socialista e comunista, in genere collettivista: opere letterarie, costruzioni filosofiche, tentativi reali. [...] Se per l'utopia classica - nelle sue due forme, positiva e negativa - le cose possono apparire abbastanza chiare (anche con l'aiuto offerto dalle parole di Tilgher), nel caso di una forma letteraria che in un modo o nell'altro sia contraria alla precedente la situazione appare un po' confusa, a iniziare dalla stessa denominazione. A questo riguardo, sono state avanzate diverse proposte: «utopia negativa» (Walsh), «utopia in negativo» (Aldani), «contro-utopia» (Adriani), «dystopia» (Pagetti) e, infine, «antiutopia» (Hillegas). Per nostro conto accettiamo quest'ultimo termine, ma con ulteriori specificazioni contenutistiche - le stesse, in fondo, ritenute valide per l'utopia classica. Pone esattamente il problema del perché sia nata l'antiutopia uno studioso romeno stabilitosi in Spagna, George Uscatescu: «Per lo meno, in quanto atteggiamento spirituale, il trionfo della tecnica e del macchinismo, della Scienza in generale, l'esaltazione della volontà di potenza nel campo delle forze sociali, provoca una serie di opere che, scritte in realtà d'accordo con la tradizione della letteratura utopistica, sono, per ciò che si riferisce ai loro fini, esaltazione dell'“uomo completo" di Scheler, con le sue virtù ed i suoi peccati, e, quindi, vere e proprie anti-utopie. Nel fondo di quasi tutte le utopie contemporanee esiste questo atteggiamento critico, che si nutre di paradossi. Perché, nel nostro tempo, la vera Utopia sta nella realtà e nel corso degli avvenimenti. L'Utopia si converte, così, in un metodo critico della realtà, che è, essa stessa, una situazione utopistica. Ed i fini dell'utopia finiscono per essere antiutopistici. Tre delle più importanti utopie del nostro tempo, che prenderemo come esempio, sono nella loro finalità antiutopie, giacché offrono una critica ampia degli elementi più utopistici prodotti a ritmo crescente nella nostra epoca della Tecnica e della Scienza». […] Concludendo: se è pur vera la frase di Adriano Tilgher sopra riportata, secondo cui basta rovesciare l'Utopia «per avere il contorno della realtà di cui è la negazione», essa non può certo applicarsi all'operazione effettuata dagli scrittori di antiutopie. Infatti, il loro rovesciamento dell'utopia non riconduce alla «realtà effettuale», ma ha altri scopi. Rovesciandola negativamente essi mettono in evidenza gli errori e le illusioni che sono al fondo di ogni utopia pura: partono dagli identici presupposti per trarne le estreme conseguenze negative. Rovesciandola positivamente non ritornano alla realtà quotidiana, ma costruiscono un «modello di società» che ha basi diverse, ideologie opposte, fini contrari a quelli dell'utopia «classica»: un «modello» visto in un'ottica costruttiva e non distruttiva, allo scopo di esporre le strutture di uno «Stato perfetto» imperniato su presupposti esattamente contrari a quelli dell'utopia per eccellenza. Sotto questo aspetto, si può parlare in parte di un tentativo di ritorno degli antiutopisti ad alcune formulazioni tradizionali, con i cui presupposti essi cercano di costruire delle società più consone all'uomo - anzi, «a misura d'uomo». Il fatto in se stesso è però, contemporaneamente, una dimostrazione che l'odierna situazione di decadenza generale in un certo qual modo obbliga uno scrittore a ricorrere a degli artifizi per descrivere un “modello di società" a carattere tradizionale. Il mondo tradizionale non è più naturale, ma viene proposto come alternativa: il che vuol dire che la realtà è diversa, è antitradizionale, è utopia.



