Che cos’è il cristianesimo? Questa è una domanda che, presto o tardi, con maggiore o minore consapevolezza, tutti finiscono col porsi. Il più delle volte, le risposte che si ascoltano cominciano con le parole: Secondo me. «Secondo me» sono le parole giuste per cominciare a rispondere a chi ci chiede: Qual è la canzone più bella? Qual è la ricetta migliore per cucinare gli asparagi? Qual è la squadra di calcio più forte? Ma alla questione che cosa sia il cristianesimo cominciare a rispondere con queste parole è il segno certo che la risposta sarà sbagliata.
Una risposta «soggettiva» non conta niente e non serve a nessuno: bisogna arrivare a capire che cosa sia il cristianesimo in sé stesso, come di fatto è, qual è la sua vera natura.
Per rispondere correttamente alla questione è necessario capire bene come il cristianesimo si è presentato al momento della sua origine, quando si è affacciato alla ribalta della storia. In altre parole: dobbiamo ricordare che cosa sono andati in giro a dire gli apostoli a tutti e in tutto il mondo, all’indomani dell’evento che si è realizzato nella Pasqua dell’anno 30. Essi hanno obbedito al preciso comando ricevuto da Gesù risorto: «Andate ad annunciare a tutti una «bella notizia» (cf Mc 16,15). «Bella e buona notizia», è l’esatta traduzione della parola greca «evangelo».
Dare una notizia significa proclamare che è avvenuto un fatto. Qual è questo fatto? Gesù di Nazareth, un uomo morto dissanguato in croce, è ritornato alla vita e oggi è vivo, vivo per sempre in tutto il suo essere (corporeo e spirituale).
Egli ha dunque sconfitto la morte (che era la «signora», implacabile dominatrice di tutti); perciò adesso il «Signore» è lui. Ed essendo il Signore di tutti può salvare e portare con lui nel Regno eterno tutti quelli che con la fede si aggrappano a lui. Questa è la «bella e buona notizia»; questo è il Vangelo; questo è la sostanza del cristianesimo.
Come si vede, gli apostoli non sono andati in giro a proporre una «religione nuova»: sono andati in giro a proporre un «avvenimento» rivoluzionario e unico. Ed è un avvenimento che si riassume e si identifica in una persona: la persona di Cristo. […]
Il cristianesimo è un fenomeno singolare in tutta la storia religiosa dell’umanità; è un caso inedito nell’avvicendamento delle scuole di pensiero e nel susseguirsi delle dottrine. La singolarità è questa: Gesù di Nazareth non è solo il fondatore, il promotore, il teorico del cristianesimo: è anche il suo contenuto. Senza dubbio la Chiesa, già nell’epoca apostolica, possiede un suo patrimonio di princìpi, di convinzioni, di idee. Ma tale patrimonio non è percepito come adeguatamente distinto da colui che ha detto di sé: «Io sono la verità» (Gv 14,6); frase che è tra le più stupefacenti e provocatorie che siano mai state proferite da labbra umane. […]
Il cristianesimo dunque è Cristo: accoglierlo nella sua realtà autentica e piena - una realtà che eccede ogni nostra misura e ogni naturale intelligibilità - significa anche raggiungere finalmente il «senso» sia della nostra esistenza sia della totalità delle cose. È un’adesione elementare e culturalmente sobria, proposta a tutti gli uomini anche ai più semplici; ma è al tempo stesso un’adesione ardua, esigente, continuamente insidiata.
Un’insidia particolarmente perniciosa, diffusa non poco nella cristianità dei nostri giorni, è quella di risolvere l’annuncio dell’evento pasquale e l’assenso integro e vitale al suo Protagonista in un’offerta di convinzioni, d’impulsi generosi, di «valori». Ma la donazione al Figlio di Dio crocifisso e risorto non è «traducibile» in una serie, sia pure lodevole, di buoni propositi e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità dominante.
I battezzati - onerati, proprio in virtù del loro battesimo, della fatica di dare consenso e testimonianza a colui che solo è il Signore (ed è entrato come unico Salvatore nella nostra storia) - sono tentati oggi più che mai di alleviare il loro gravoso impegno scambiandolo surrettiziamente con l’impegno meno gravoso (e «politicamente corretto») di propugnare i «valori», e quindi di propagandare piuttosto la pace, la solidarietà, l’apertura verso tutti, il dialogo ad ogni costo, la difesa della natura, eccetera.
Ovviamente non s’intende qui colpevolizzare o ritenere inutile la giusta attenzione ai «valori». Solidarietà, pace, natura, comprensione tra i popoli, ecc., possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. E nel cristiano questi stessi «valori» possono offrire preziosi stimoli a una totale e appassionata resa del suo mondo interiore al Signore di tutto e al Salvatore di tutti.
Ma se il battezzato - per amore di attenzione e rispetto verso gli «altri», oltre che per sollecitudine di dialogo e di buon vicinato con tutti - quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico e la realtà dell’unico Redentore nell’esaltazione di questi traguardi nobili ma secondari e nel ricercare il loro conseguimento, allora pone a repentaglio la sua connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, e consuma a poco a poco il peccato di apostasia.
Colui che è stato provvidenzialmente inviato a metterci in guardia da questo travisamento è stato il pensatore russo Vladimir S. Solovev. Egli nel suo ultimo scritto - a pochi mesi dalla sua morte, avvenuta nel luglio 1900 - ha tratteggiato così la figura dell’Anticristo (un personaggio emblematico, antitesi perfetta dell’unico Salvatore) che secondo lui comparirà sulla scena della vicenda umana alla fine del secolo XX.
L’Anticristo - come egli lo descrive - appartiene evidentemente alla schiera dei «sapienti» e degli «intelligenti». È, dice Solovev, un esperto biblista. Di più, è un asceta e un «convinto spiritualista», e dà «altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza». In particolare è un illuminato e attivo pacifista. Noi oggi lo diremmo anche un ecologista e un animalista: «Pieno di compassione, non solo amico degli uomini ma anche amico degli animali». Soprattutto l’Anticristo si dimostra un eccellente ecumenista, capace di dialogare «con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza». Ha però un’invincibile antipatia nei confronti della persona di Cristo. È addirittura dominato da una morbosa insofferenza verso il fatto che Gesù sia risorto e sia oggi vivo, tanto che va istericamente ripetendo: «Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto! È marcito, è marcito nel sepolcro...». In sintesi potremmo dire: ciò che più specificamente connota la posizione dell’Anticristo è di aver sostituito all’identificazione del cristianesimo con la persona del Salvatore glorificato (che è prospettiva fondamentale e irrinunciabile fin dai tempi apostolici) l’identificazione del cristianesimo con quei «valori» che, pur se provengono da una matrice evangelica, sono però anche facilmente esitabili sui mercati mondani.
Cardinale, arcivescovo di Bologna (1928-2015)
L’enciclica Rerum novarum (pubblicata nel maggio 1891 da papa Leone XIII, ndr) è stata un forte provvidenziale segnale a tutta la Chiesa: ha fatto recuperare alla cattolicità un’attenzione autenticamente evangelica all’uomo e ai suoi problemi, in tal modo richiamando energicamente la verità che non c’è questione implicante l’uomo e la sua dignità che non possa e non debba essere affrontata alla luce dei principi della fede.
Il primo rilievo che va fatto riguarda la lucidità con cui l’enciclica sceglie la difesa dei più deboli: una società che si limitasse soltanto a garantire la libertà e i diritti di tutti, considerando tutti allo stesso modo, sarebbe, nella sua apparente giustizia, del tutto ingiusta e crudele.
Leone XIII non ha paura delle parole, quando denuncia la situazione di fatto che ai suoi tempi si era creata per i lavoratori, una volta venute meno con la Rivoluzione francese le protezioni delle antiche strutture cristianamente ispirate; essi, dice, sono ormai «soli e indifesi in balìa della disumanità dei padroni e della sfrenata cupidigia della concorrenza». Perciò, insiste, «bisogna provvedere senza indugio e con opportuni provvedimenti a coloro che sono posti ai gradini più bassi della scala sociale, i quali per la maggior parte si trovano ingiustamente ridotti a una condizione miserevole e sventurata», «al punto che pochissimi ricchi e straricchi hanno imposto un giogo da schiavi all’infinita moltitudine dei proletari».
E ancora: «I diritti vanno tutelati in chiunque li possieda... Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri... Perciò agli operai, che sono nel numero di quelli che hanno più bisogno, lo Stato deve di preferenza rivolgere le sue cure e le sue provvidenze».
Sarebbe però un errore anche più grave, quello di credere che, per salvarsi dalla prepotenza dei privilegiati, si debba dar via libera alla prepotenza dello Stato.
«L’uomo è anteriore allo Stato», dice il Papa. Lo Stato quindi non ha il diritto di esercitare a suo arbitrio, costantemente in presa diretta, quelle attività che possono essere compiute dai cittadini, dalle famiglie, dalle libere aggregazioni; ha piuttosto il dovere di mettere tutti nella condizione concretamente efficace di attendere ai propri compiti e sviluppare le proprie capacità.
Come è stato acutamente notato, tra il «lasciar fare» (teorizzato dal liberalismo ottocentesco) e il «fare direttamente» (proposto dal collettivismo socialista), lo Stato, secondo Leone XIII, deve scegliere come principio ispiratore della sua azione l’«aiutare a fare».
Notiamo che questa diffida pontificia avrebbe ricevuto una tragica giustificazione nella continua catena di sventure che nel secolo XX si sarebbe abbattuta sull’umanità proprio a causa delle teorizzate esorbitanze stataliste; esorbitanze diverse tra loro per indole, per denominazione, per colore, ma ugualmente mortifere e disumane.
«Non è giusto», afferma la Rerum novarum, «che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato; è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra la facoltà di agire con libertà, salvo il rispetto del bene comune e dei diritti altrui» .
La menzione della famiglia non è marginale o fortuita: Leone XIII ha intuito che le prepotenze stataliste si sarebbero di preferenza indirizzate a colpire la realtà familiare, e quindi a derubare i poveri del solo bene che non hanno mai dovuto invidiare ai potenti del mondo. «La famiglia, cioè la società domestica», insegna il Papa, «è una società piccola ma vera, anteriore a ogni società civile; e pertanto possiede diritti e doveri propri, indipendenti dallo Stato». E ancora: «È un grave e dannoso errore volere che lo Stato possa intervenire a suo arbitrio nel santuario della famiglia».
Infine l’enciclica è una chiara e inequivocabile contestazione della utopia socialista, intesa come sistema organicamente basato sulla collettivizzazione dei beni o almeno dei mezzi di produzione.
Fa impressione leggere queste nitide pagine, dopo gli avvenimenti di questi ultimi tempi (si riferisce alla caduta del Muro di Berlino del 1989, ndr). Ci sono voluti 100 anni e 100 milioni di morti nelle varie parti del globo terracqueo; ma alla fine si è universalmente capito ciò che un vecchio Pontefice aveva già visto con un secolo di anticipo: tutta l’irragionevolezza e tutta la spietatezza del così detto socialismo reale. Quando si pensa che soltanto una decina d’anni fa dei cattolici acculturati cercavano ancora di persuaderci che il marxismo era la prospettiva storicamente vincente, si prova una grande ammirazione per Leone XIII - un Papa più che ottantenne, chiuso per forza entro le mura vaticane - che ha saputo guardare alla vicenda della famiglia umana e alle sue sofferenze con occhi davvero capaci di leggere l’avvenire.
Un’ultima annotazione per concludere. La fine del socialismo reale non è la fine delle insidie alla dignità dell’uomo e degli attentati ai suoi nativi diritti. In una società che privilegia il benessere economico, la competitività e il profitto, l’uomo avrà ancora bisogno di essere energicamente difeso. Noi non abbiamo niente contro il benessere economico in sé stesso; né, a certe condizioni, contro la competitività e il profitto. Ma non possiamo accettare che siano considerati valori assoluti o primari. La missione della Chiesa - e dunque di tutti noi che non vogliamo essere latitanti in questa battaglia - in questo campo non è ancora finita. Servite Cristo Signore (Col 3,24), ci ha detto San Paolo: anche in uno scenario completamente cambiato dai tempi della Rerum novarum, noi dobbiamo e vogliamo continuare a esprimere fattivamente e socialmente il nostro amore per il Signore Gesù e per la sua immagine viva che è l’uomo.
L'interpretazione cosmica è offerta direttamente ed esplicitamente da Cristo stesso quando dice: «Il campo è il mondo» (Mt 13,38). Secondo questa lettura, la parabola evangelica è un invito a riflettere sul male e la sua origine nell'universo.
L'insegnamento di Gesù a questo proposito è estremamente sintetico ma limpidissimo: il nemico che ha frammischiato l'erbaccia alla buona coltivazione di Dio è il diavolo (Mt 13,39). Mette conto che abbiamo a richiamare, sia pure in cenni rapidissimi, l'intera concezione della fede cattolica circa il male del mondo (concezione che è implicitamente evocata da questa breve frase del Signore). Essa oggi è così faziosamente e acriticamente contrastata dalla cultura dominante, che capita di percepire una irritata meraviglia - quando non addirittura di sentir gridare allo scandalo - se il papa o qualche vescovo la ripropone nella sua semplicità e nella sua nativa interezza. Come se fosse impensabile, dopo tutte le aperture e gli irenismi, che ci sia ancora qualche cristiano che si attardi a pensare da cristiano.
Secondo il realismo della Rivelazione, il male - inteso senza ambiguità come colpevole prevaricazione morale - esiste. «Voi che siete cattivi» (Mt 7,11), dice tranquillamente Gesù ai suoi ascoltatori; e così ci ammonisce che non ci si deve fare illusioni di tipo illuministico sulla nativa bontà morale dell'uomo. Le illusioni, tra l'altro, si sono rivelate storicamente molto pericolose. […]
Le ideologie che si rifiutavano di credere alla malvagità del cuore dell'uomo, hanno dato vita ripetutamente in questi due secoli a forme esasperate di crudeltà. L'iniquità umana c'è, ed è largamente diffusa. Così diffusa da costituire un problema: come mai gli uomini più o meno tutti sconfinano nell'ingiustizia? La Rivelazione cristiana risponde con la dottrina del peccato originale.
La verità del peccato originale come ogni mistero è oscura in sé stessa, ma è illuminante per noi e per la nostra condizione. […]
A dire il vero, il Libro della Genesi, raccontando la colpa di Adamo e di Eva come frutto della istigazione perfida del serpente, sembra insinuare che l'inizio assoluto del male nell'universo vada ricercato antecedentemente alla comparsa dell'uomo sulla terra. E il libro della Sapienza - implicitamente citato da san Paolo nella lettera ai Romani - dà una lettura teologica dell'antico racconto indicando nel demonio la prima fonte delle nostre sciagure: «La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 2,24). Ci ritroviamo così all'identico insegnamento offertoci da Gesù appunto nella parabola che stiamo tentando di capire: «Il nemico che ha seminato la zizzania è il diavolo» (Mt 13,39). Come si vede, la nostra meditazione sul male del mondo è stata progressivamente sospinta dalla verità del peccato personale a quella del peccato che dall'alba della vicenda umana universalmente contamina la nostra stirpe; e dalla verità del peccato originale a quella dell'esistenza del demonio, prima e oscura fonte di ogni perversione.
Siamo così invitati a risalire a poco a poco l'enigmaticità delle cose fino a raggiungere la soglia del mondo invisibile che precede la storia dell'uomo; vale a dire la soglia della realtà che sta al di fuori e al di sopra del nostro tempo. I guai di cui ci sforziamo di renderci conto hanno, come si vede, radici lunghissime e premesse extratemporali. Léon Bloy ha una piccola frase splendente di verità: «Il male di questo mondo è di origine angelica e perciò non può essere espresso in lingua umana» (Le sang du pauvre, Conclusion).
Nella cristianità contemporanea è in atto invece un curioso processo di smarrimento, tanto che si arriva a percorrere in senso contrario la strada sulla quale, come s'è visto, siamo stati guidati dalla fede. Tra i teologi c'è chi si impegna alacremente in un lavoro cosiddetto di smitizzazione, dopo il quale del demonio non resta neppure la coda. Questi teologi - diversamente da Gesù Cristo - pare che non pensino più a Satana come a un essere reale concretamente e personalmente esistente; sembrano piuttosto ridurlo a una sorta di immagine simbolica della intrinseca inclinazione al male che c'è nelle creature.
Ma - tolto di mezzo il diavolo - anche il peccato originale non è più plausibile; e infatti in molte odierne presentazioni teologiche esso fatalmente si estenua e si sbiadisce fino a essere la cifra dell'umana finitezza o al più la denominazione collettiva di tutte le colpe individuali. Le quali, a loro volta, tendono a essere considerate non tanto come peccati responsabilmente commessi quanto come turbe psichiche conseguenti a squilibri congeniti o alla violazione di tabù senza fondamento.
Insomma, prima si risolve l'idea del demonio in quella del peccato originale, poi l'idea del peccato originale in quella dei peccati dei singoli, infine l'idea dei peccati dei singoli in quella di un malessere senza colpevolezza. Così l'universo diventa una specie di innocente giardino d'infanzia, senza malvagità e senza malvagi, dove però non si capisce più perché tanto spesso ci si imbatta nella ferocia umana, e soprattutto non si capisce più che senso abbiano la morte, il dolore, la redenzione di Cristo.
Un mondo così sarà anche bello, ma ha l'inconveniente di non esistere affatto. Verso la miseria umana questa è, a ben guardare, una falsa pietà, che ritiene di liberarci dal male negandolo e aiutandoci a non credere più nel demonio, a vanificare la dottrina della colpa d'origine, a banalizzare l'idea stessa di responsabilità personale. La vera misericordia - quella di Dio - batte la strada opposta.
Il grande avversario comincia a essere sconfitto non nel momento in cui lo si relega tra le favole ma nel momento in cui lo si prende sul serio, in modo da prendere sul serio la vittoria ottenuta su di lui dalla morte e dalla risurrezione del Figlio di Dio; vittoria che quotidianamente si impianta nella vicenda di ognuno di noi mediante la nostra crescente partecipazione al mistero pasquale. […]
Questo è il senso della proposta evangelica della «metànoia» (della conversione), che Gesù ci ha indicato come necessaria premessa della nostra salvezza. Il Vangelo non è la notizia che siamo già tutti innocenti per incapacità di intendere e di volere o perché i fatti non costituiscono reato; è la notizia che siamo tutti peccatori e, proprio per questo, siamo i fortunati destinatari dell'invincibile misericordia del Padre.





