Mentre stavo concludendo il mio D’Annunzio custode del disordine (2024) ho chiesto alcuni ragguagli a Giuseppe Parlato (nato a Milano nel 1952, laureatosi a Torino nel 1974 e deceduto a Roma il 2 giugno).
Ci conoscevamo dai primi anni Ottanta del secolo passato. Studente universitario alla facoltà di Scienze politiche a Roma, frequentavo le lezioni e i seminari di Renzo De Felice e dei suoi collaboratori. Era gentilissimo. Sempre disponibile, sornione, allegro, divertente. Un galantuomo d’altri tempi. La grandezza dei docenti non sta solo in quello che insegnano e pubblicano. Siamo diventati amici. Successivamente colleghi. Rettore di un ateneo romano mi propose di insegnare una materia a cavallo tra la storia contemporanea e la cinematografia. Purtroppo, non avevo tempo. L’ho sempre ammirato. Innanzitutto, per gli studi. Rigorosissimi. Ma anche, e forse soprattutto, per il coraggio intellettuale.
Parlato è stato uno storico lontano dal pensiero dominante nell’Accademia. Diciamolo senza giraci intorno: è stato uno storico di destra. E ciò, lo ha ricordato il collega e amico di una vita Francesco Perfetti, pur se brillantemente laureato e ricco di cultura, «non aveva grandi prospettive accademiche proprio per l’ostilità di tipo ideologico-culturale che si era trovato a dover fronteggiare a Torino». L’incontro con De Felice lo ha messo a riparo dal fuoco di sbarramento «progressista», favorendone l’ingresso nella vita accademica. Formatosi allo studio del Risorgimento, nel 1989 De Felice nella collana da lui diretta per Bonacci gli ha pubblicato Il sindacalismo fascista. Dalla «grande crisi» alla caduta del regime 1930-1943 (il primo volume, dalle origini allo Stato corporativo, lo aveva scritto Perfetti). Gli orientamenti culturali di Parlato, è bene sottolinearlo, non hanno mai piegato l’investigazione scientifica. La dimostrazione di questa affermazione è confermata dalla sua opera La sinistra fascista: storia di un progetto mancato (2000), studio di riferimento attraverso il quale analizza un percorso intellettuale e politico presente sin dalle origini sansepolcriste, rimasto in vita (pur se minoritario) nel consolidamento dello «Stato totalitario», tornato in auge nel corso della Repubblica sociale italiana e destinato a oltrepassare la definitiva caduta del fascismo.
In fondo la «sinistra fascista», animata da spirito antiborghese, rifiuto del modello capitalista, attenta alle problematiche sociali, rivoluzionaria, alternativa alla democrazia liberale e popolare, aiuta a comprendere la logicità del passaggio, nel dopoguerra, dal fascismo al comunismo di personaggi del calibro - solo per citare alcuni nomi - di Romano Bilenchi, Vasco Pratolini, Elio Vittorini. Parlato, inoltre, ha dedicato ricerche sulla nascita e consolidamento del Movimento sociale italiano: Fascisti senza Mussolini: le origini del neofascismo in Italia 1943-1948 (2006), La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale (2017).
In collaborazione con Andrea Ungari ha disegnato una equilibrata ricostruzione della politica italiana alternativa alla sinistra: Le destre nell’Italia del secondo dopoguerra. Dal qualunquismo ad Alleanza Nazionale (2021). Parlato non è stato solo un intellettuale ricco di curiosità, un coscienzioso docente, un validissimo ricercatore e un Maestro attento alla formazione dei suoi discepoli. È stato capace di contraddistinguersi anche nell’organizzazione culturale. A lui si deve, ad esempio, la pubblicazione in tre volumi dell’opera giornalistica di De Felice (2016-2019). Ma il vero capolavoro è stato la gestione e il rilancio della Fondazione Ugo Spirito, oggi arricchitasi del nome di De Felice, diventata una fucina di iniziative e ricerche di notevole livello. Nel 2023, l’allora ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, lo ha nominato alla guida dell’Istituto di storia moderna e contemporanea. Riconoscimento meritato. Nel concludere il ricordo dello studioso sin troppo generoso con gli altri, mi riallaccio all’ultima nostra conversazione su D’Annunzio. Lo avevo sentito perché sapevo che aveva in cantiere una pubblicazione sul vate. Speriamo venga pubblicata al più presto. Su D’Annunzio serve come il pane uno studio storico rigoroso, poiché circolano troppo leggende, spesso assimilabili alle sciocchezze. Allora a leggerti presto, caro Professore! E grazie per esserci stato.
Avendo deciso di lasciarci per sempre, Catherine Spaak non solo si porta via il suo sorriso eterno, la voce delicata e dolce, il portamento elegante di una ragazza splendida mai invecchiata davvero, di una intelligenza raffinata e curiosa. Si porta via il sogno degli anni Sessanta. La stagione più bella per gli italiani che hanno avuto la fortuna di viverla (e anche per quelli che l’hanno solo sognata). Da vecchi. Da giovani. Da adolescenti. In cerca di lavoro o ben sistemati. Ricchi o poveri. Meridionali o settentrionali. Con il diploma preso alle scuole serali o con la laurea. È stata una stagione unica e irrepetibile. Le famiglie erano numerose. C’era il babbo e la mamma. I nonni in casa. La domenica si metteva l’abito della festa e si compravano le paste. La sale cinematografiche, con le seggiole di legno, si riempivano all’inverosimile. L’estate le città si svuotavano e si correva tutti al mare. C’eravamo lasciati alle spalle le paure e le ristrettezze della guerra. Il boom economico si manifestava in ogni angolo. La felicità bussava quasi a ogni porta. Le gonne si accorciavano. La musica scandiva l’esistenza. Nel decennio precedente sullo schermo avevano trionfato le maggiorate e le ragazze povere seppur belle. Poi arrivò Catherine. Francese di origine belga. Ricca e di ottima famiglia. Molto diversa dalle italiane alla moda. Sapeva cantare e ballare. Parlava un italiano dolcissimo, talvolta quasi sussurrato, con la erre arrotata. Esplose con La voglia matta (1962) di Luciano Salce. Un tipico industriale milanese di mezza età (l’ineguagliabile e indimenticabile Ugo Tognazzi), si imbatte in una comitiva di giovani. Ha tutto: la fabbrica, l’auto sportiva, il danaro. È un uomo di successo. Sfrontato. Sicuro di sé. Domina il mondo. Nella comitiva c’è Francesca. Suona la chitarra e canta. È carina da morire. Gli piace. Lei lo provoca. Lui è certo di conquistarla. Invece di passare una serata al night club si aggrega alla compagnia. È un matusa. Si toglie prima la cravatta. Poi la giacca. Anche le scarpe. Ma è patetico. Sprofonda nel ridicolo, diventando lo zimbello di quei giovani che pensava di dominare. Convinto di sedurre la ragazza con estrema facilità, si rende conto che è lei ad averlo illuso. Sembrava ingenua e indifesa. A portata di mano. Il padrone della fabbrichetta col portafogli gonfio, davanti alla ragazza yè yè si scopre vecchio. Il mondo è loro. Saranno loro a guidare la rivoluzione antropologica. Francesca un decennio dopo avrà la gonna lunga a fiori, leggerà il Libretto rosso di Mao e Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, rivendicherà la propria autonomia sessuale, magari lancerà anche qualche sasso e persino una molotov. Due decenni dopo Francesca avrà la gonna stretta grigia e firmata. Si muoverà in aereo, regolarmente in prima classe, tra la Milano da bere e la New York da mangiare. Francesca è stata la sorella più grande della prima e la zia adorata della seconda. Ma, onestamente, è stata anni luce diversa da entrambe. Della prima non aveva la testardaggine e la stoltezza ideologica. Rispetto alla seconda era priva dell’aridità umana e dalla sete di comando. Francesca/Catherine di La voglia matta è stata la ragazza ideale, vissuta miracolosamente in una stagione ideale. Libera senza eccessi. Emancipata senza arie da salvatrice dell’universo. Ben vestita senza stravaganze finto povere o finto ricche. Forbita nel parlare priva di sconcezze. L’icona di un’esistenza dolce, spensierata. Sicura che il passato non fosse un ingombro. Che il presente si dovesse vivere senza troppi problemi. E che il futuro, tutto sommato, riservasse piacevoli sorprese. Francesca/Catherine ha rappresentato al meglio l’immagine dei giovani non ancora diventati «ggiovani». Aveva la sana voglia di vivere. Non la voglia matta di vivere. Dopo quella magica apparizione in bianco e nero, Francesca/Catherine è stata tutto: cantante, presentatrice, opinionista, ospite, intrattenitrice, ricercatrice delle nuove forme della spiritualità, salutista. È stata questo, e altro ancora, con intelligenza, ironia, eleganza, semplicità. Il mondo dello spettacolo, nel frattempo diventato sempre più sguaiato e volgare, non l’ha contaminata. Da ragazza del proprio tempo, ha attraversato il cambiamento, integrandosi ma senza troppi entusiasmi. In fondo, non si è spostata troppo dall’ideale della gioventù. Scoprire il mondo senza paura. Orgogliosa di essere donna senza estremismi femministi. Comunicare senza ricerca del protagonismo. Come tutte le storie anche quella di Francesca/Catherine ha una fine. Non è un lieto fine, poiché l’addio lascia sempre l’amore in bocca, lo scorrere delle lacrime, la tristezza del tramonto dopo una giornata luminosa. E allora salutiamo questa nostra amica e sorella d’Oltralpe con le parole, allegre e ritmate, di una sua canzone: «Noi siamo i giovani, i giovani, più giovani / noi siamo i giovani, l’esercito del surf».
Così lo descrive la Treccani: «Ragionier Ugo Fantozzi, personaggio comico cinematografico creato e impersonato dall’attore Paolo Villaggio. Uomo incapace, goffo e servile, che subisce continui fallimenti e umiliazioni, portato a fare gaffe e a sottomettersi ai potenti». Dell’aggettivo «fantozziano» aggiunge che definisce persona impacciata o servile nei confronti dei superiori. E, riferendosi ad un accadimento, appunto «fantozziano», ricorda che è caratterizzato da aspetti penosi e ridicoli.
Nello splendido saggio di Guido Andrea Pautasso e Irene Stucchi Fantozzi, ragionier Ugo. La (ir)resistibile ascesa di un perdente nato, pubblicato da Bietti (304 pagine, 20 euro) il giudizio della Treccani è confermato. Fantozzi è uno sfigato. Un povero disgraziato. Una natura sottomessa. Una maschera imbarazzante. Un perdente nato. Un buffone di corte. Un Ercole deforme. Si potrebbe continuare a lungo, pescando qua e là fra le pagine. È l’autobiografia di una nazione, volendola buttare sulla sociologia spicciola. Oppure, sempre rimanendo in tema, un prodotto tipico aziendale della civiltà moderna. Lo stesso Villaggio ne diede, nel corso del tempo, varie definizioni, tra cui: la risposta italiana alla catastrofe hollywoodiana. Capita spesso di ascoltare qualcuno (appartenente a generazioni differenti) narrare un pezzo, spesso esilarante, di un film di Fantozzi. Fantozzi nell’immaginario comune degli italiani è un personaggio cinematografico. In realtà, sottolinea Pautasso, Fantozzi ha una gestazione di cellulosa, in fasce sotto forma di rivista (L’Europeo) e poi sgambettante come romanzo edito da Rizzoli nel 1971. Diventa un’icona, da adulto, grazie alla celluloide, con Fantozzi (1975), al quale segue rapidamente Il secondo tragico Fantozzi (1976), entrambi diretti da Luciano Salce. Dopo il clamoroso successo editoriale del primo Fantozzi, Villaggio pubblica nel 1974 Il secondo tragico libro di Fantozzi.
Nel prolungamento delle tragicomiche vicende dell’Ercole deforme, però, viene narrato un potente, quanto inaspettato, gesto di ribellione. Uno sberleffo che riassume in maniera ineguagliabile l’arte sublime del Villaggio-Fantozzi. Reso mitologico dallo schermo in Il secondo tragico Fantozzi. Ricordiamo la scena. Il povero ragioniere spera di godersi a casa una partita destinata a diventare storica. Il 14 novembre 1973, allo stadio londinese si Wembley, si gioca Inghilterra-Italia. Gli spalti del tempio del calcio sono gremiti all’inverosimile. 100.000 spettatori, di cui 30.000 italiani rumorosissimi. Gli inglesi attaccano a testa bassa. Fa freddo e piove. Il campo è allo loro portata. Sono di una spanna più alti dei loro avversari. L’unico che gli tiene testa è il centravanti Giorgio Chinaglia. Alcuni giornali locali hanno ironizzato sul fatto che l’attacco italiano è guidato da un cameriere gallese. Chinaglia, emigrato in Galles da Massa Carrara con la famiglia, aveva giocato con i gallesi dello Swansea. Partita dura. La difesa azzurra ha eretto un muro impenetrabile. A quattro muniti dalla fine, proprio Chinaglia si impossessa di un pallone innocuo e lo scaraventa diritto in porta. Il portiere commette l’errore di volerlo fermare, ma lo apparecchia per Fabio Capello, che a porta vuota deposita la palla in rete. Per la prima volta l’Italia sbanca Wembley.
Fantozzi non può però vedere la partita. È stato convocato, con gli altri dipendenti, a vedere un film. Sconsolato, accompagnato dalla moglie, si avvia alla proiezione. Prima dello spegnimento delle luci il responsabile della programmazione annuncia che la copia prevista non è arrivata. In sostituzione vedranno La corazzata Kotiomkin. La disperazione assale i presenti. Per l’ennesima volta! In sala le voci sull’andamento dell’incontro si rincorrono. Addirittura, pare che l’Italia stia vincendo 20 a 0. Avrebbe segnato anche il portiere Dino Zoff, su calcio d’angolo. Finisce il film. Il professore Guidobaldo Maria Riccardelli, col occhialini e papillon, monta sul palco e domanda se qualcuno vuole intervenire. Silenzio di tomba. Fantozzi alza la mano e chiede di parlare. «Bene. La nostra merdaccia Fantocci» - così lo accoglie il professore - «finalmente ha trovato le parole, chissà quale giudizio estetico avrà maturato in questi anni?». Fantozzi esita. Poi spara: «Per me La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!». Seguono 92 minuti di applausi. Scoppia la ribellione. I dipendenti capitanati da Fantozzi sfasciano tutto, malmenano Guidobaldo e solo l’intervento della polizia ristabilisce l’ordine.
Come è noto si sta assistendo alla proiezione de La corazzata Potëmkin del regista russo Sergej M. Ejzenstejn. Un capolavoro muto e in bianco e nero del 1925, dedicato alla sommossa popolare, repressa nel sangue dai militari zaristi, nel 1905 a Odessa. Pautasso e Stucchi ricostruiscono esaustivamente le reazioni indignate di vari intellettuali sullo sfregio portato da Villaggio al grande regista, celebratore della rivoluzione bolscevica. Ma Villaggio non intendeva ridicolizzare il film, né il suo autore. Anticipava il grido di rivolta che avrebbe pronunciato, di lì a poco, un anonimo protagonista, nel film di Nanni Moretti Io sono un autarchico (1976). Un ragazzo, alla fine dello sciagurato spettacolo messo in scena in un localino alternativo, è accasciato sulla sedia, sfinito. Forse addirittura sta dormendo. Un attore, essendo l’ultima replica, informa il pubblico che intende fare una verifica, attraverso il dibattito. Il ragazzo si rinviene. Scappa gridando «il dibattito no!».
Villaggio, come Moretti, intendeva ribellarsi a quel rito ormai insopportabile, del dibattito seguito al film, tipico del cineforum impegnato. Spesso ci si doveva sorbire, oltre a prolisse e pallose pellicole celebrative, sovietiche, rivoluzionarie, terzomondiste, di stampo cattolico, anche il dibattito. Lasciare la sala era offensivo. Intervenire per dire qualcosa di politicamente corretto (dell’epoca) necessario. Rendere pubblico il proprio giudizio negativo impossibile. Il cineforum social-comunista - non molto diverso da quello clericale - non prevedeva deviazioni. Serviva a celebrare l’ortodossia. Ma il mondo, alla metà degli anni Sessanta del secolo passato, stava cambiando. Paolo Villaggio era il sismografo del cambiamento. Oggi tendiamo a guardare con simpatia la militanza cinematografica seguita dal dibattito. Un po’ come osservare una vecchia foto. Ha avuto effetti benefici (il cinema era l’asse portante della cultura classica), accompagnati spesso da risultati non proprio edificanti. La corazzata non era una cagata pazzesca. La vera rottura di coglioni erano le proiezioni imposte dall’ideologia - comunista, cattolica, sessantottina - e il dibattito che ne seguiva. Il ragionier Ugo Fantozzi, nostro fratello, lanciava il segnale della ribellione. Per questo lo abbiamo amato e, oggi più che mai, in tempi di conformismo, lo amiamo come ieri.





