- Dietro la narrazione che esalta gli impieghi on demand c'è una generazione in crisi: gli under 35 trovano un posto con una fatica quattro volte superiore rispetto ai genitori. E il 90% di chi è a casa getta la spugna.
- Intervista con Francesca Perotta, trentenne che lavora in un'edicola dei Parioli, a Roma: «Nel Paese di Leonardo i musei non assumono».
Lo speciale contiene due articoli.
I giovani sono in crisi per il lavoro: perché non lo trovano o perché sono insoddisfatti di quello che hanno. Gli italiani sotto i 35 anni (le donne più degli uomini) si sentono sotto pressione e non vedono un futuro sereno: il lavoro è difficile da trovare, non è quello desiderato, non fornisce uno stile di vita decente, non permette di comprare casa di proprietà, non ha prospettive di carriera, ha una retribuzione ingiusta. Queste sono le conclusioni molto simili a cui sono arrivati di recente Istat, Censis e Linkedin.
Istat e Censis sono italiani, lavorano su dati ufficiali e su campioni statistici. Linkedin, società di ricerca di lavoro posseduta dal 2016 da Microsoft, è la rete più estesa al mondo di job finding. Ha 500 milioni di iscritti (10 in Italia) in 200 Paesi e apre ora il nuovo sito Career advice. Su Linkedin sono presenti oltre 9 milioni di aziende, potenziali datori di lavoro.
L'approccio dei giovani al lavoro in tutto il mondo non è sereno, neanche in un'economia aperta come quella americana, dove il lavoro non ha il peso fiscale di quello italiano. Lo spettro del lavoro temporaneo, on demand, incombe e si allarga tanto da prevedere un futuro - neanche troppo lontano - in cui il lavoro giovanile sarà soprattutto freelance. In poche parole addio al posto fisso. Le novità si chiamano gig economy e sharing economy: gig è l'abbreviazione di engagement (ingaggio), che deriva dal jazz e rimanda a una scrittura dell'ultimo momento per suonare dal vivo in un locale. Quindi gig generation è quella dei giovani chiamati solo quando serve, tipo i corrieri che portano il cibo a casa, di cui si parla in questi giorni per la mancanza di un contratto stabile. Qualche datore di lavoro ha fatto una proposta secca: o continuate a lavorare a cottimo, oppure vi assumiamo ma con paghe molto inferiori perché ci sono i costi delle assicurazioni sociali. Sharing economy o economia condivisa invece è quella di chi condivide azioni che farebbe comunque, abbassando così i costi. Per esempio Bla bla car (si viaggia in automobile dividendo le spese), Airbnb (affittare per pochi giorni la propria casa come un albergo) e Uber (usare la propria automobile come un taxi).
Secondo l'indagine Linkedin su scala mondiale, i giovani di 38 Paesi hanno quattro volte più difficoltà dei loro padri e dei loro nonni a trovare lavoro, per cui tanto vale scegliere un lavoro flessibile che lasci tempo per interessi e passioni personali. Su quasi 7 milioni di giovani in cerca di lavoro Linkedin ne ha piazzati 390.000, che hanno superato selezioni durissime. Pochi riescono a capire in anticipo quali caratteristiche saranno indispensabili nel prossimo futuro. Serviranno hard skills (abilità pesanti), competenze tecniche ad hoc, e soft skills (abilità leggere) cioè lavoro di gruppo, comunicazione, gestione del tempo, capacità informatiche. Di skills necessarie per i lavori nuovi si occupa anche la Banca mondiale, rilevando che - incredibilmente - i giovani hanno più capacità tecniche (social media, statistica, gestione di dati, algoritmi, macchine intelligenti) che umane.
La gig economy, detta anche caporalato digitale, abbassa drasticamente i compensi. Nel Regno Unito la paga è di 2,5 sterline l'ora, negli Stati Uniti i gig worker non arrivano a 500 dollari al mese. In Italia la disoccupazione giovanile viaggia a una media che va dal 40% al 60% nel Mezzogiorno. I giovani italiani tra i 18 e 24 anni erano 12.200.000 dieci anni fa, ora sono 11 milioni. Dilaga tra di loro la zona grigia degli inattivi: non cercano più lavoro, non studiano, non fanno formazione. Addirittura più di 3 milioni (studenti e casalinghe) sono ormai lontani dal mercato del lavoro.
In Italia l'Istat ha dato cifre di lieve miglioramento dell'occupazione, ma leggendo dentro i numeri si vede che gli occupati in più sono solo a tempo determinato, sono ultracinquantenni, mentre la fascia 15-34 anni continua a perdere lavoro. E ormai tra gli inattivi non si riesce a distinguere tra chi il lavoro proprio non lo trova e abbandona ogni tentativo, e tra chi da anni continua a fare lavoretti precari, magari in nero, finché cede e sfiduciato confluisce nell'enorme folla dei Neet (Not engaged in education, employment or training, ovvero non impegnati in studi, impieghi o formazione). Un numero su tutti? Del totale dei disoccupati italiani i Neet sono il 90%.
«Nel Paese di Leonardo i musei non assumono»
Dopo aver letto numeri e analisi proviamo a incontrare a campione una trentenne. Francesca Perotta vive a Roma e lavora da un anno in un'edicola ai Parioli, ma vuole tornare alla sua passione: la vigilanza e l'assistenza nei musei. Ha una laurea triennale in studi storico artistici alla Sapienza e numerosi diplomi.
Quando e come ha cominciato a cercare lavoro?
«Dopo la laurea mi sono accorta che non c'era molta domanda per la mia specializzazione. Ho inviato la mia candidatura a una società che lavora in ambito museale e dopo due mesi sono stata chiamata, purtroppo con un contratto a ore (e un periodo massimo di due mesi). Terminato quel contratto avrei dovuto attendere un anno per poter tornare a lavorare alle stesse condizioni».
Quali sono le difficoltà per rientrare settore?
«Abbiamo un grandissimo patrimonio culturale, ma purtroppo c'è poca richiesta di lavoro. O meglio, il lavoro c'è ma ogni dipendente lavora per tre e questo diminuisce le possibilità. Poi c'è l'ostacolo dei concorsi pubblici, il più delle volte a numero chiuso (a volte ancor prima che inizino... a buon intenditor poche parole)».
Quante offerte sono stage cammuffati?
«Molte. Sono un guadagno per le società che li fanno, non per i dipendenti».
Cosa pensa del fatto che il dramma dei giovani italiani sia dimenticato dai politici?
«A loro non interessa. Sono anni che il problema esiste, ma nessuno cerca di affrontarlo seriamente. In Italia questa situazione sta creando drammi nelle famiglie. Se noi giovani non abbiamo un lavoro le persone più mature andranno in pensione più tardi e non ci saranno posti liberi. Nel frattempo stiamo creando i presupposti per bruciare intere generazioni. Anche perché nemmeno per la fuga all'estero il periodo sembra molto roseo».
Pianista per i soldati americani nel 1943 a quattro anni, cantante e pianista da night a 14 a Capri e Ischia, in tv a 17 anni a Primo Applauso sulla Rai con Enzo Tortora (si classifica primo), 501 canzoni incise su disco, 23 film tra cui lo spassosissimo Natale col boss, supporter dei Beatles in Italia nel 1965, 15 festival di Sanremo di cui due vinti (Un grande amore e niente più, Non lo faccio più), ambasciatore della canzone italiana (e napoletana) nel mondo, amatissimo nei cinque continenti.
Un uomo di mondo, come si suole dire, anche nel suo singolare incontro con Matteo Salvini…
«A marzo dell'anno scorso, a Fuorigrotta. È stato molto corretto, devo dire. Anni prima a Napoli c'era il grosso problema dei rifiuti, e Salvini non era stato tenero con i napoletani. Poi scopro da una sua conferenza stampa che è un mio grande fan, e allora mi incuriosisco e vado a sentirlo. Prima del comizio lo incontro e gli regalo due miei dischi con dedica, un semplice omaggio a un mio ammiratore che subito la stampa ha travisato come mia simpatia per la Lega. Salvini mi ringrazia e insiste per sdebitarsi. Colgo la palla al balzo e gli dico che potrebbe fare una cosa per me: scusarsi di quelle vecchie critiche qualunquistiche ai napoletani. E quando mi chiede se resto ad ascoltarlo gli rispondo che non mi muovo finché non sento le scuse. E così Salvini fa, nei primi minuti di apertura della manifestazione. Ci salutiamo da lontano con un gesto della mano e un sorriso».
A proposito di partiti, il 4 marzo la maggioranza degli elettori ha scelto la Lega nel Nord Italia e i 5 stelle al Sud. Sarà un beneficio per il Mezzogiorno questa preferenza per partiti nuovi, dopo la seconda Repubblica e il vecchio voto di scambio?
«Non lo so di preciso, ma d'istinto direi che temo all'Italia non bastino nuove figure politiche e partitiche. Nel bene e nel male, anche per necessità di sopravvivenza, l'italiano si è assuefatto all'andazzo generale. Per cui anche uno scossone forte potrebbe non bastare a creare un vero senso civico, un rispetto per lo Stato, con diritti ma anche doveri. Vedremo».
Nel suo medagliere ci sono centinaia di premi, onorificenze, attestati. Il più curioso è la cittadinanza onoraria di Saint-Tropez: lei è un frequentatore-ammiratore della Costa Azzurra?
«Non c'ero mai stato prima che mi dessero simbolicamente le chiavi di quella bella cittadina francese. Semplicemente cantavo St. Tropez Twist, un motivo popolarissimo in Italia e anche all'estero. Mi dissero che con quella canzone il turismo a St. Tropez era addirittura triplicato. Tanto che nelle vetrine della città erano esposte le copertine del disco, con la mia foto e la scritta: Grazie Peppino!»
Cosa fa di Peppino di Capri il cantante amato da tutte le generazioni e tutti gli ambienti sociali?
«Alla mia età e con i concerti che ho tenuto in mezzo mondo posso confermare di essere molto amato, ne ho le prove davanti a qualunque pubblico. Perché? Credo che traspaia questo mio modo di fare molto vero. Ho scoperto che la timbrica vocale è la fortuna - ringrazio qui padre e madre - che mi è capitata in famiglia, dove tutti erano musicisti. Poi se lavori sul timbro della voce viene fuori anche la musicalità, che diventa fascino appunto quando chi ti ascolta sente che sei autentico, che non fingi. Ho visto grandi cantanti commentati con entusiasmo dal pubblico che usciva dalla sala a fine concerto, però parlavano di tecnica, non c'era emozione, non trasmettevano la suggestione che ha la musica quando la canti con il cuore. Termine a volte abusato, ma qui assolutamente calzante».
Lei ha cominciato nei night della sua isola, Capri, per poi salire sul palco dei teatri di mezzo mondo, finendo anche a suonare per le teste coronate. Un aneddoto divertente?
«In effetti ho suonato per il Ballo dei Re a Napoli a Palazzo Serra di Cassano. Era il 3 settembre 1960, si festeggiava l'inizio delle regate olimpiche. Poi dallo Scià di Persia, e a Venezia a Ca' Pisani Moretta per un ballo con Margaret d'Inghilterra. L'aneddoto divertente è di quando suonavo e cantavo nel night di mio zio Ciro. Un signore stava appoggiato da due ore al mio pianoforte e mi dava fastidio averlo così vicino. Chiesi a zio di farlo spostare, ma Ciro mi fece notare che quel cliente aveva già ordinato sei bottiglie di champagne, mi ordinò di stare zitto e suonare. Quel signore era Onassis, e con lui c'erano la Callas, Grace Kelly, il principe Ranieri».
Le sue canzoni hanno fatto da sfondo agli eventi sentimentali di mezza Italia
«Dappertutto trovo persone che mi indicano con la mano e mi dicono “Per colpa tua…". Intendono che le loro storie sono cominciate o finite sulle note delle mie canzoni più famose. Peppino di Capri è la colonna sonora delle relazioni amorose degli italiani. Direi che l'inno degli innamorati è Champagne, poi i più romantici vanno a pescare a piene mani nel mio immenso repertorio».
Come ci si sente a 22 anni a salire sulla scena della Carnegie Hall a New York?
«È proprio il caso di citare la classica incoscienza della gioventù. Si apre il sipario, entri in scena e canti. Non ci pensi. Lo fai».
Uno dei momenti più emozionanti che ricorda dei suoi concerti nel mondo?
«In Brasile, un Paese dove sono andato spesso. L'anno scorso ho cantato in primavera a Rio e in autunno in Usa e Canada. Torniamo a una delle prime volte in Brasile: suono e canto al teatro Canecão, il tempio della musica brasiliana. Il pubblico gremisce la sala, molti applausi e grande soddisfazione. Ma non è finita: quando vado in camerino alla fine del concerto trovo due mostri sacri della musica brasiliana, Vinicius de Moraes e Antonio Jobim. Sono emozionato e lusingato, oso chiedere loro timidamente cosa li attiri nelle mie canzoni, soprattutto quelle napoletane. Mi rispondono che la nostra musica per loro è come la loro musica per noi. Un gemellaggio artistico-musicale che mi ha onorato».
Le sue caratteristiche musicali, anche tecniche?
«Oltre al timbro, di cui ho già detto, ho la fortuna di avere l'orecchio assoluto (riconoscere una nota senza usare uno strumento musicale, ndr). Ho cominciato a suonare il pianoforte istintivamente a 4 anni, e fino ai 20 mi sono esibito davanti al pubblico senza interruzioni; poi sono arrivati gli studi di registrazione con il primo contratto discografico, con la Carisch di Milano. In famiglia la musica era protagonista. Il nonno suonava nella banda di Capri, mio padre suonava sax e violoncello. In fondo per me, timidissimo, era relativamente facile esibirmi tra il Number two di Capri e Il rancho fellone di Ischia. Con il rischio di rimanere provinciale, di suonare in casa, per usare una metafora calcistica. Ma poi i dischi, i concerti all'estero, la televisione e il cinema mi hanno dato sempre più sicurezza. Sono soprattutto cantante e pianista, ma so anche comporre. Mi metto al piano, provo delle frasi, magari la mattina dopo cambio qualcosa. Ho la musica sotto pelle, è la mia prima natura, indubbiamente».
Finisce qui l'intervista - breve - perché Peppino di Capri deve prendere il treno per Napoli. Siamo a Roma da Vanni, dove da sempre passano tutti gli artisti diretti in Rai, lì accanto a viale Mazzini. L'impressione, non avendolo mai incontrato, è di una persona molto educata e rispettosa. Non ha niente del personaggio famoso a livello mondiale che, volente o nolente, si abitua a una certa posizione di privilegio, se non altro perché lo conoscono tutti e lo favoriscono tutti. Parla a voce bassa, da timido come egli stesso si definisce, non pronuncia sentenze, non fa affermazioni altisonanti. Alzandoci in piedi per i saluti un'ultima domanda.
Al Sud esiste un primato della canzone melodica? Quasi una sacralità che tutti rispettano, anche i personaggi ai limiti della legalità?
«Bisognerebbe andare per categorie musicali e relativi pubblici. Io stesso dopo un periodo di cosiddetti ballabili - dal rock al twist per intenderci - ho riportato la canzone tradizionale napoletana tra i giovani. Il genere neomelodico, che parla di cose non vere ma assolutamente verosimili, per esempio, piace anche alla gente di strada perché sentono i testi molto vicini alla loro vita».
L'avvocato Giorgio Spaziani Testa dal 2015 è presidente di Confedilizia, di cui è stato a lungo segretario generale e prima ancora responsabile dell'Ufficio studi. La Confedilizia nasce nel 1883 a Genova come «associazione fra i proprietari». Con il tempo sorgono altre associazioni in altri Comuni, fino alla creazione a Milano nel 1915 di una «Federazione fra le associazioni di proprietari di case». Oggi Confedilizia è articolata in oltre 200 sedi in tutta Italia, vi aderiscono proprietari (anche della sola casa di abitazione), condominii, condòmini singoli e investitori istituzionali quali compagnie di assicurazione, banche, istituti previdenziali e società immobiliari di rilevanza nazionale.
Presidente, siete sotto assedio?
«Direi di sì: quando non si sa come spremere i contribuenti ulteriormente, si torna all'attacco con le patrimoniali».
Possiamo dire che in fondo Imu, Tasi e Tari sono tre patrimoniali?
«Ha colto nel segno. Già c'è stato un aumento mai avvenuto prima dell'imposizione patrimoniale sugli immobili, passata da 9 a 21 miliardi. Per non parlare della Tari, che grava sul contribuente due volte e mezzo la Tasi sulla prima casa. Tanto varrebbe fare una tassa unica: più chiara e amministrativamente meno costosa da gestire sia dai Comuni sia dal contribuente».
Si parla tanto di tassare la prima casa, ma in realtà il gettito maggiore viene da altri cespiti?
«Esatto. Con il governo Berlusconi eravamo a 9 miliardi annui di Ici, con Monti siamo saliti a 25 (Imu+Tasi), con Renzi siamo scesi a 21 miliardi. Ma, e qui il “ma" è grande come una casa, nessuno dice che il gettito dalla prima casa è solo una parte minore dell'imposizione sul mattone. La Tasi sulla prima casa al fisco rendeva 3,5/4 miliardi l'anno, la sola Tari 10. Se la prima casa è tassata poco o niente, a seconda dei governi, è sul resto che si incassa a dismisura. Con tutte le altre imposte sugli immobili si arriva a un gettito annuo di 50 miliardi».
Gli enti internazionali sollecitano una patrimoniale sulla casa.
«Un paio di settimane fa Fmi, Ocse e Ue si sono premurati di darci un suggerimento per la cosiddetta crescita attraverso la loro ricetta di politica fiscale. Essenzialmente ripetono una predica già sentita, spostare la tassazione dai “fattori produttivi" a proprietà e consumi. E già che ci sono vorrebbero rivedere gli estimi catastali, cioè aumentare la tassazione, in poche parole. Litania che viene dal Fmi, dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e dall'Ue. Siamo alle solite. Organizzazioni delle quali l'Italia fa parte, e che finanzia, insistono nel riproporre la tesi secondo la quale vi sarebbero alcune tasse favorevoli alla crescita ed esortano il nostro Paese ad aumentarle. Tesi infondata, come evidenziano studi realizzati attraverso tecniche econometriche serie».
Anche ad altri Paesi la Triade (Fmi, Ue, Ocse) suggerisce l'aumento delle tasse sugli immobili?
«L'indicazione generale è di tassare preferibilmente la proprietà. Non può escludersi un interesse di alcuni “centri di potere" a promuovere investimenti finanziari a danno di quelli immobiliari. Se i risparmi si spostano dal mattone ai fondi, chi ci guadagna? In Italia la proprietà è molto diffusa: oltre 25 milioni di persone sono proprietarie di immobili o di quote di essi».
La Tari è da rivedere?
«Sicuramente i criteri di calcolo non sono equi, si basano più sullo spazio che sulla produzione di rifiuti. Ribadisco la proposta di fare una “service tax" vera, legata ai consumi, come in altri Paesi. Oltre Confedilizia la chiede anche la Confcommercio, per le iniquità pendenti su migliaia di esercizi commerciali. Un esempio eclatante è la cedolare secca sugli affitti: perché dai contratti abitativi non trasferirla anche a negozi, uffici o capannoni? L'Imu, altro esempio, andrebbe abolita sui negozi sfitti, il cui numero aumenta ogni giorno».
Cosa prevede il «Manifesto per il rilancio del settore immobiliare» di Confedilizia?
«È un nuovo modello di sviluppo del real estate, un contributo che vorremmo dare alle forze politiche che stanno per guidare il Paese, condiviso tra maggioranza, opposizione e cittadini, per i quali la casa è un bene assolutamente primario. L'Istat ha rilevato che in Italia l'edilizia è l'unico settore senza segnali di ripresa, i prezzi delle abitazioni sono in continuo calo, il valore degli investimenti immobiliari di famiglie e imprese in discesa. Sono da rimuovere i troppi ostacoli normativi e fiscali che frenano lo sviluppo economico dell'immobiliare».
Nel dettaglio come sono le proposte di questo Manifesto?
«Dieci punti. Uno: riduzione della pressione fiscale sul comparto immobiliare (attualmente di 50 miliardi l'anno). Due: sviluppo degli affitti: rivedere la legislazione in materia, eliminando le differenze tra abitativo, commerciale, industriale. Tre: una cedolare secca per tutte le locazioni. La cedolare ha ridotto il nero negli affitti del 40%. Quattro: sfratti. Un dramma nei tempi di esecuzione. Indispensabile ripristinare legalità e tempi certi del rientro in possesso dell'immobile. Cinque: aggiornare la normativa vecchia di 40 anni (l'equo canone) degli affitti diversi dall'abitativo, quindi di negozi, uffici e capannoni; anche la durata tra 12 e 18 anni è troppo rigida, dovrebbe essere modulabile. Sei: riordinare e stabilizzare la giungla di norme sulle detrazioni fiscali per gli interventi di manutenzione, riqualificazione, efficienza energetica e antisismica. Sette: misure di stimolo e sostegno alla rigenerazione urbana, con interventi non solo sui singoli edifici ma anche su grandi aree, come le periferie e i centri storici. Otto: incentivi fiscali per le permute immobiliari. Esistono ormai troppi immobili invenduti. Nove: sviluppo del turismo attraverso la proprietà immobiliare privata. Dieci: creare una cabina di regia per lo sviluppo immobiliare, la casa e l'edilizia, all'interno del governo. Riunendo proprietari (privati e società), costruttori, agenti immobiliari, produttori e fornitori di componenti e servizi, gestori, amministratori. Oggi le competenze sono disperse in tre differenti entità ministeriali: Infrastrutture e trasporti, Sviluppo economico, Economia e finanze».
Qualche partito ha dato segnali di interesse per le vostre proposte presentate prima delle elezioni dello scorso 4 marzo?
«Abbiamo avuto riscontri positivi da parte di diverse forze politiche. Di cedolare secca per i locali commerciali, ad esempio, parlano i programmi sia di Forza Italia che della Lega (quest'ultima propone anche l'esenzione dall'Imu per i negozi sfitti). Ma segnali di interesse sono arrivati anche dal Movimento 5 stelle. Aspettiamo fiduciosi il nuovo governo che verrà. Ma ribadisco che la necessità primaria inderogabile è liberare il settore immobiliare dai vincoli normativi e fiscali che lo frenano».






