In risposta a una realtà sempre più veloce e iperconnessa, anche gli strumenti di comunicazione si sono evoluti, provocando un necessario cambiamento dei paradigmi comunicativi e degli scenari all'interno dei quali è possibile esprimersi: oggi infatti non siamo più fruitori passivi delle idee o dei processi messi in atto dalle grandi corporazioni o dai governi, ma ci ritroviamo a diventare protagonisti di questi scenari, interpretando gli spazi sociali su Internet come dei luoghi da popolare con le nostre idee.
Il Web ha dato spazio a una miriade di punti di vista differenti, spesso disgregati tra loro: ma in un contesto dove la quantità di informazioni è talmente grande da non poter essere gestita, come è possibile farsi ascoltare? Mentre una volta nella selezione delle notizie e dei dati a fare la differenza era la qualità del contenuto, per poi diventare la ricerca formale dell'espressione, oggi l'ago della bilancia si è spostato verso un altro parametro: il volume.
I social network infatti sono il nido in cui si insedia il pericoloso meccanismo per cui il volume di contenuti pubblicati sovrasta per importanza sia il messaggio veicolato, che la forma: al fine di raggiungere il target più ampio possibile, infatti, si rende necessario far sentire la propria voce, eclissando qualsiasi confronto, non necessariamente con argomentazioni qualitative, ma semplicemente «alzando la voce», urlando. E quando stai urlando qualcosa, quanto conta che questa sia effettivamente vera? Non è forse più importante che il maggior numero di persone possano sentirla prima che ci sia spazio per controbattere? Per assurdo: se un albero cade nella foresta e non c'è nessuno ad ascoltarlo… l'albero è davvero caduto?
Questo processo solleva la questione dell'importanza che la verità ha nei contesti comunicativi e pare evidente che sia ormai passata in secondo piano: è infatti tristemente noto il caso in cui una notizia ha la possibilità di diventare «vera» senza passare sotto un'analisi attenta e critica della ragione, basta che abbia un numero sufficiente di condivisioni. Un esempio concreto? Parliamo della famosa intercettazione fantasma sul caso Siri: dal momento che tutti i principali quotidiani affermano che l'intercettazione esiste, riportandola tutti allo stesso modo, qualsiasi lettore finisce per convincersi della sua esistenza, anche se effettivamente questa non è presente nel fascicolo. Un caso che ancora una volta pone l'accento su quanto sia potente la diffusione di una notizia, rispetto alla sua reale esistenza, e di come sia ormai semplice influenzare l'opinione pubblica, con tutti i risvolti politici del caso, che non stiamo qui ad approfondire.
Chi si occupa di marketing e comunicazione, questi meccanismi, rubricabili alla voce «passaparola», li conosce bene, e li sfrutta quanto più possibile: non è un caso che anche il dibattito politico abbia risentito molto di questa nuova impostazione. Si pensi ad esempio a un candidato che utilizza i canali social per diffondere il proprio programma all'opinione pubblica: vi dice niente «vinci Salvini»? Una straordinaria mossa di marketing a basso costo, senza dubbio, che testimonia la capacità di leggere il proprio tempo e i mezzi che questo mette a disposizione: mettendo in piedi un concorso che premia l'attività meccanica del «fan» di mettere like e condividere i post, si premia indirettamente la capacità degli utenti di poter dare risonanza ai contributi condivisi e raggiungere un pubblico sempre più ampio.
All'aumentare del numero di like, aumenta necessariamente anche la probabilità che il «signor Rossi» venga intercettato, nei momenti liberi spesi sui social, dall'interazione tra un amico digitale e quanto espresso dal candidato. A questo punto entra in gioco un fenomeno psicologico, chiamato social proof, per cui il singolo, in assenza di informazioni più dettagliate, tende a uniformare le proprie opinioni a quelle dei conoscenti ritenuti più competenti in materia. E gli amici, si sa, hanno maggior peso rispetto agli sconosciuti. Il passaparola si configura, quindi, come una tra le più potenti armi per diffondere e veicolare il messaggio, senza che esso venga vagliato dalla ragione, che ne analizza la fonte, la credibilità e i contenuti stessi. Diventa credibile quindi, sebbene manchi una sua ragion d'essere.
È chiaro che non stiamo dicendo nulla di nuovo: da che mondo è mondo il «passaparola» ha sempre influito sulle opinioni della massa; il fatto è che mai come adesso ci troviamo a doverci fare i conti a questa velocità e costanza, quotidianamente bombardati da notizie di cui non si ha tempo (o voglia?) di verificare. Appare evidente che l'unico modo per poter salvare il nostro senso critico, sia nel mondo digitale che fuori, sia di tentare di abbassare il volume: non spegnere tutte le voci, ma quantomeno selezionarle accuratamente.
Nel 2019, oltre il 75% della raccolta pubblicitaria online è in mano a Google e Facebook, mentre il settore del digital advertising italiano sfiora i 3 miliardi di euro di investimento, ossia un + 11% rispetto al 2017.
L'impennata decennale sembra davvero inarrestabile, ma se vogliamo giocare d'anticipo, è opportuno porsi qualche domanda: le cose continueranno così? Chi dominerà l'adv online mondiale in futuro?
L'anno è appena iniziato e possiamo ancora affermare che se i contenuti sono the king, gli over the top come Google e Facebook sono gli imperatori, ossia gli unici responsabili della crescita del settore pubblicitario online. Detengono infatti circa il 75% del mercato internazionale, seppure con percentuali differenti.
Gestiscono ogni contenuto fruibile dall'utente sotto forma pubblicitaria e non, in maniera libera e apparentemente non concorrenziale tra loro, ma necessitano di editori esterni qualificati per crearlo.
Nessuna delle società nominate infatti, produce post o banner utilizzabili dagli inserzionisti per promuovere un determinato servizio o prodotto, lasciando un gap potenzialmente significativo.
Che sia questa una possibile frattura in grado di cambiare le carte in tavola negli anni a venire?
Per ora, la loro capacità di monetizzare il piccolo schermo - e per piccolo intendiamo anche quello del nostro smartphone -, è sorprendente. Una miriade di aziende lotta per ottenere una fetta di mercato virtuale, ma con scarsi risultati.
Le informazioni relative ai propri utenti giocano un ruolo chiave, e gli inserzionisti che cercano di profilare al meglio il target lo sanno bene. È molto più utile e conveniente personalizzare un messaggio per un determinato pubblico, potenzialmente interessato a riceverlo, piuttosto che sparare nel mucchio.
Se però ci mettiamo nell'ottica della vendita, che rappresenta in fondo il motivo reale per cui un'azienda decide di posizionarsi tra i primi risultati di ricerca Google o promuovere un piano editoriale nei social, la prospettiva cambia.
La rimonta di Amazon sembra inevitabile, e non è un caso infatti che, solo nel 2018, il colosso di Seattle abbia incrementato del 242% gli investimenti nel settore mobile.
Se su Facebook si fa brand awareness (che è la capacità dei consumatori di riconoscere un marchio) in maniera ludica e «spensierata», su Google si ricercano informazioni più dettagliate: Amazon invece rappresenta il gradino finale del percorso che porta realmente all'acquisto dei prodotti (in termini specialistici, ultimo step del funnel). Già questo ragionamento può essere sufficiente per delineare una possibile prospettiva futura.
Quando gli assistenti vocali saranno all'ordine del giorno, e sapranno capire al meglio le nostre esigenze in base alle informazioni in loro possesso, il passaggio ludico e informativo verrà surclassato da un filo diretto con la rete vendita Amazon. Magari attraverso smartphone, smartwatch o altro, con una frase del tipo: «Ehi, trovami un paio di scarpe nuove! ». Il nostro human bot, che sarà ormai parte integrante della nostra realtà quotidiana, ci consiglierà, all'interno di una scelta limitata, i tre, quattro o 10 modelli di scarpe più adatte a noi, utili magari per la vacanza alle Hawaii o per la riunione del giovedì mattina.
A quel punto, tutti dovranno stare alle regole del gioco, e capire come un prodotto potrà posizionarsi tra le prime risposte che l'assistente digitale darà all'utente. Amazon, continuerà a non trarre profitto dalle singole vendite, probabilmente, ma dalla rete di iscritti al canale premium e dalle possibili future inserzioni (vocali?).
Questa prospettiva non è fantascientifica, al contrario è un processo già in atto. Alexa vi dice niente?
Altre conferme arrivano anche da eMarket (società dedicata alle ricerche di mercato) che ha riscontrato una crescita sempre crescente da parte di Amazon nel settore digitale statunitense.
Si prospetta che, nel giro di qualche anno, la società di Seattle prenderà il terzo posto nel adv online dietro Google e Facebook, per poi magari, superarle definitivamente.
Quindi, non ci rimane che aspettare e cogliere i primi segnali significativi per adottare un immediato e proficuo aggiustamento di rotta che ci permetterà di continuare a promuovere i nostri brand.
Un attimo: ma la filosofia del «content is the king»? Sarà ancora valida ovviamente: essere presenti nei social con una strategia comunicativa significa aumentare la brand awareness e accrescere il valore percepito di un determinato servizio e prodotto. Una volta raggiunto un simile risultato, però, possiamo pensare che verrà passata la palla ad Amazon che farà tesoro di tali informazioni e gestirà il tutto secondo criteri propri, ancora sconosciuti.
Ceo di Xplace
Le tecnologie di intelligenza artificiale e gli algoritmi oggigiorno governano la rete, e questa è cosa nota. Se da una parte la gran mole di dati prodotti dai nostri movimenti online, viene raccolta ed elaborata per fornirci le informazioni più attinenti alle nostre parole di ricerca piuttosto che ai nostri interessi, c'è un altro lato della medaglia che a mio avviso merita di essere analizzato.
Un risvolto pratico legato all'elaborazione automatica dei dati è rappresentato da quelle che Eli Pariser, attivista di internet, ha definito filter bubbles: se il comportamento dell'utente viene costantemente monitorato e registrato, e diventa il criterio per stabilire che cosa mostrargli, l'utente stesso finisce per essere inserito all'interno di una bolla immaginaria, una sorta di universo online parallelo, che filtra la sua visione della realtà. Vi siete mai chiesti perché dopo aver ricercato online un determinato contenuto o profilo, la vostra bacheca è intasata di post che vi fanno esplicito riferimento? Ogni click lascia una traccia e il sistema la segue per impostare il percorso di navigazione: l'utente si illude di decidere consapevolmente cosa vedere e, nella maggior parte dei casi, crede di avere accesso grazie ad internet all'intero scibile, non rendendosi conto di quante informazioni gli vengono nascoste.
Questo processo infatti fa sì che l'utente online si imbatta esclusivamente in contenuti che confermano e rafforzano le proprie opinioni: recependo solo notizie in linea col proprio modo di essere e di pensare, egli si ritrova automaticamente negata la possibilità di confrontarsi con altri punti di vista, e finisce quindi per chiudere e alimentare la propria mente solo con argomentazioni che sposano a pieno la sua visione, ricadendo all'infinito nel meccanismo della fantomatica profezia che si auto-avvera.
Manca ancora un passaggio: non credete che questo meccanismo possa essere sfruttato da chiunque conosca e sia in grado di controllare gli algoritmi? Mi spiego meglio: se quanto scritto finora è vero, e lo dimostrano diversi studi nonché la nostra esperienza quotidiana in rete, la creazione della bolla di filtri e la conseguente perdita di informazioni eterogenee potrebbe essere usata a proprio vantaggio per manipolare e indirizzare il pensiero dell'individuo. Come? Attraverso la creazione di fake news. Se infatti le persone tendono ad apprezzare maggiormente le pubblicazioni più vicine al proprio modo di pensare e tutti i click vengono registrati, con la bolla di filtri abbiamo detto che esse saranno portate a vedere e ricevere esclusivamente quel tipo di informazioni: basterà allora cavalcare l'onda e diffondere notizie dello stesso genere, nello specifico inventate, per farle facilmente arrivare al bersaglio della comunicazione, fomentare le sue credenze e governare in questo modo il suo processo cognitivo, facendogli cioè credere che l'unico mondo plausibile sia quello da lui fruito. Il risultato? Una bolla di filtri fatta di notizie false!
Come poter sovvertire il sistema? Sicuramente far luce sul meccanismo e renderlo «trasparente» aiuterebbe a evitare l'utilizzo scorretto dello stesso. Su questo versante stanno già lavorando i vari social network, basti pensare a Facebook che ha ingaggiato un vero e proprio team per accertare la validità dei fatti citati, e scovare così ogni falsità, limitarne la diffusione e ripulire le bacheche di miliardi di utenti. Interessante è anche l'intervento di aggiornamento della piattaforma per combattere l'engagement baiting e quindi ridurre la visibilità di tutti quei post che ricoprono l'utente, in maniera piuttosto invasiva, di call to action, come l'aprire un link per atterrare su un'altra pagina: dal momento che le notizie fake presentano spesso tale carattere, l'augurio del social è quello di boicottarle e premiare i contenuti più ricercati ed autentici, rendendo così la navigazione dell'utente il più piacevole possibile e meno esposta alla manipolazione da parte di terzi.
Concludo dicendo che una parte del lavoro spetta sicuramente anche all'utente: se l'algoritmo è furbo, egli può esserlo di più. Il mio vissuto ha portato a convincermi che la chiave per la crescita personale è la contaminazione: come potremmo confrontarci con il nuovo e/o il diverso se ci interfacciamo esclusivamente con chi o cosa la pensa esattamente come noi? E allora confondiamo gli algoritmi, cercando, anche quando la fruizione non sarà immediata, nuovi spunti, fonti diverse: solo così riusciremo ad accertarci del vero e uscire dalla bolla.




