Si sapeva già che il partito tedesco della Cdu fosse ostile alla scalata di Unicredit su Commerzbank. Vecchi esponenti si erano già espressi. Anche la filiera accademica utilizzata in qualità di consulente era contraria, tirando in ballo persino il doppio binario del Mes. Pure i presidenti dei Länder - due terzi del totale - in una conferenza programmatica, avevano lanciato l’allarme occupazionale andando dietro ai sindacati della banca.
Ieri però è intervenuto direttamente il cancelliere Friedrich Merz. Ha risposto a una lettera del presidente del comitato centrale di Commerz, Sascha Uebel, relativa alle preoccupazioni dei lavoratori e delle lavoratrici. «Desidero assicurarvi che sia il governo federale sia io personalmente prendiamo molto sul serio le preoccupazioni riguardo all’indipendenza della banca e in merito al futuro della piazza finanziaria tedesca», ha esordito Merz nel documento pubblicato su Linkedin. «Commerzbank non è solo una delle grandi banche europee e, in quanto tale, rilevante a livello sistemico», ha proseguito Merz, «è anche una banca leader nel finanziamento del Mittelstand tedesco. Condivido l’opinione del ministro federale delle Finanze, secondo cui un’azione non coordinata e ostile, come quella del gruppo Unicredit, non è accettabile. Questo vale a maggior ragione quando si tratta di una banca rilevante come Commerzbank».
Insomma, nessun giro di parole. Certo, il cancelliere tedesco ha omesso qualche dettaglio. La scalata di Orcel, che oggi sarà presente a Berlino a una conferenza di Goldman Sachs, ha un senso proprio perché Commerz è rimasta praticamente l’unica grande banca tedesca a erogare fidi al tessuto industriale medio piccolo. L’istituto, che arriva da un percorso di salvataggio e intervento pubblico, ha visto la sua stabilità migliorare, ma la cura non è di certo terminata. Con Unicredit si rafforzerebbe, esattamente come chiede da anni la Bce e la Commissione Ue. Due istituzioni che ricordano in tutte le salse l’importanza del mercato unico dei capitali e dell’unione bancaria. Ciò che Berlino vorrebbe attuare nel piano complessivo del riarmo Ue. Ma, evidentemente, non se si tratta di una banca. Anzi, di una propria banca. Non che Berlino sia un caso isolato. L’altro ieri anche Lisbona ha detto la sua sul tema. L’esecutivo portoghese si è opposto al tentativo di acquisizione di Novo Banco, quarta banca del Paese, da parte del gruppo spagnolo Caixa bank che è già a presente a Lisbona dove controlla Bpi. Già tre settimane fa, quando era emerso per la prima volta in modo concreto l’interesse di Caixa, il ministro delle Finanze portoghese, Joaquim Sarmento, aveva evidenziato la contrarietà dell’esecutivo all’operazione dato che «le banche spagnole rappresentano già circa un terzo del mercato bancario portoghese», aggiungendo che «è nell’interesse del Paese che non vi sia una dipendenza eccessiva o una concentrazione del nostro settore bancario nelle mani di un unico Paese come la Spagna».
L’osservazione ha una sua logica e appare condivisibile. D’altronde, il non detto che sta alla base del grande progetto di unificazione bancaria è molto semplice: chi controlla i risparmi di una regione ricca ne può influenzare le dinamiche e la politica. Ciò vale per tutti gli Stati. D’altronde, basti pensare al maxi risiko bancario e all’intervento del governo Meloni con tanto di golden power su Unicredit. Non sappiamo come andrà a finire o se - paradossalmente - l’eventuale stop di Andrea Orcel finisca con il favorire i francesi di Crédit Agricole (che, stando fermo, si potrebbe ritrovare perno di Banco Bpm), ma ciò che è chiara è la volontà politica di sovranità. Si comprende, soprattutto in un momento di caos e di deglobalizzazione, che nessun esecutivo vuole rinunciare ad avere un dialogo diretto con chi gestisce i risparmi dei propri cittadini.
In fondo, è l’unica possibilità che resta agli esecutivi di concordare indirizzi e strategie di investimento e allungare il guinzaglio dei vincoli esterni e interni che vanno sotto il nome di Patto di stabilità e Pnrr. Come al solito, la realtà appare sempre più complessa e distante dal racconto teorico di chi muove le leve a Bruxelles, ma anche da chi è stato chiamato a studiare il futuro della competitività da Consiglio e Commissione. Ci riferiamo a Mario Draghi ed Enrico Letta che hanno redatto entrambi lunghi paper sottolineando l’importanza dell’unione del mercato dei capitali in modo da rendere più agevole la trasversalità finanziaria per i grandi progetti Ue e per incentivare le sinergie rispetto ai colossi Usa. Nulla da dire sul secondo tema. Per quanto riguarda il primo, al di là che si tratti di soldi privati dai quali Bruxelles dovrebbe tenersi alla larga, i singoli governi dovrebbero parlare chiaro: dire che non mollano la presa invece di assecondare il racconto di Bruxelles sperando, alla fine del gioco europeo, di essere vincitori e non sconfitti.



