La sentenza con cui il tribunale di Brescia ha condannato Fabio De Pasquale, riconoscendo il procuratore di Milano colpevole, insieme con il collega Sergio Spadaro, di aver occultato le prove nel processo contro i vertici dell’Eni, è pesantissima. In pratica, il collegio giudicante composto da tre magistrati scrive che colui che rappresentava la pubblica accusa, e che chiese otto anni di carcere per l’amministratore delegato e per alcuni dei più importanti dirigenti del cane a sei zampe, non puntava all’accertamento della verità su una faccenda complessa come quella dei giacimenti petroliferi in Nigeria, ma voleva solo appuntarsi una medaglia sul petto che giovasse alla propria carriera e al prestigio del suo ufficio. Il succo di una sentenza composta da oltre un centinaio di pagine è tutto qui: De Pasquale non inseguiva l’accertamento dei fatti, ma la promozione e per questo avrebbe taciuto sulle prove che confermavano l’innocenza degli imputati. Ok, si tratta di una sentenza di primo grado, ma, anche se è suscettibile di modifica in appello, non mi pare poco.
A memoria non ricordo un caso del genere e soprattutto non sono a conoscenza di un verdetto con cui i colleghi di un magistrato dichiarino in maniera netta che costui ha nascosto elementi utili al giudizio per poter arrivare comunque a una condanna. Otto anni di carcere non sono noccioline, soprattutto se sono inflitti senza prove e nascondendo quelle a discarico. Un episodio del genere, dove sia riconosciuta la colpevolezza di chi rappresenta l’accusa, cioè di un funzionario dello Stato chiamato ad amministrare la giustizia, è enorme e ha - anzi, dovrebbe avere - un impatto decisivo sul dibattito in corso sulla separazione delle carriere. Il caso De Pasquale, pur dimostrando l’autonomia dei giudici che lo hanno condannato, prova ancora di più la necessità di dividere i pm da chi è chiamato a emettere una sentenza. Chi esercita l’azione penale e chi deve valutare non possono stare sullo stesso piano, nelle stesse stanze, essere colleghi e intessere rapporti amicali fuori dall’ufficio, perché il rischio è che il giudice poi non sia così indipendente e sereno come sono stati i magistrati che hanno condannato De Pasquale e Spadaro. Anche perché colui che chiede una pena per gli imputati ha interesse che la sua richiesta venga accolta e il rischio che allo scopo faccia qualsiasi cosa, anche nascondere prove che smontano l’accusa, esiste.
È però necessaria anche un’altra riflessione: come può continuare a fare il pm chi è stato riconosciuto colpevole, per quanto in primo grado, di aver occultato le prove? A un politico, in base alla legge Severino, si chiede di lasciare l’incarico e un uomo delle forze dell’ordine è sospeso dalle funzioni e anche dallo stipendio. Un magistrato invece può restare tranquillamente al proprio posto, senza neanche cambiare ufficio? Senza essere allontanato? E magari può istruire un altro procedimento collaterale? E pure chiedere nuove condanne? Non vi sembra incredibile? Soprattutto se si considera che, chiamati a giudicare dei colleghi per abusi o errori, i magistrati del Csm li mandano quasi sempre assolti, lasciandoli al proprio posto e a volte addirittura promuovendoli. Su 815 cause avviate in seguito a errori giudiziari che hanno portato in carcere degli innocenti, in 14 anni solo 12 magistrati sono stati condannati. La percentuale, calcolata da Stefano Zurlo in un suo recente volume (Il nuovo libro nero della magistratura, Baldini e Castoldi), è dell’1,4 per cento. Chissà se De Pasquale e Spadaro rientrano in questo conto.


