La buona creanza imporrebbe di non parlare degli assenti, ma il 7 dicembre fa eccezione e da qui bisogna iniziare: vale la legge di Nanni Moretti. Non parliamo della cronaca locale, dato che il sindaco Beppe Sala ha bigiato la conferenza stampa di ieri, ma della sedia vuota di Sergio Mattarella, annunciata dal Quirinale, che per forza di cose si nota più di tutte quelle che verranno piano piano occupate sul Palco reale. Un gesto alla Charles de Gaulle che si ripete addirittura per la terza volta. Difficile immaginare che il Colle spedisca a Milano il consigliere Garofani, dopo lo scompiglio che ha creato, anche perché quel giorno la Roma capolista è attesa dalla trasferta di Cagliari. Sdrammatizzazioni a parte, a tenere il capo dello Stato a distanza di sicurezza dal teatro meneghino (e dalle probabilissime polemiche) potrebbe essere stato il nervo scoperto - in questi tristi tempi di guerra - della Russia. Tanto più che il regista moscovita, Vasily Barkhatov, ha annunciato che l’azione non si svolgerà in uno sperduto villaggio del 1860 (in linea d’aria Mcensk è a metà strada tra Kiev e Mosca), ma in una Capitale russa anni Cinquanta (a Stalin vivo o morto poi lo capiremo): «Voglio eliminare la polvere ed evitare i cliché».
Il Piermarini, dal canto suo, tiene la barra dritta con la sana e netta distinzione tra la cultura di un Paese e l’attualità geopolitica e militare, condannando l’invasione dell’Ucraina senza per questo rinunciare a Modest Musorgskij, Sergei Prokofiev e Dmitri Shostakovic. Lo dimostra la coerenza del percorso portato avanti dal direttore musicale, Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione: La fiera di Sorocincy di Musorgskij (1991), L’angelo di fuoco di Prokofiev (1994), Boris Godunov (2022) dello stesso Musorgskij (l’ultima Prima applaudita da Mattarella, ma era russa pure quella...) e fra poco la tragedia satirica di Shostakovic in quattro atti e nove quadri (ispirata dall’omonima novella di Nikolaj Leskov), verso la quale il direttore d’orchestra ha confessato di aver dovuto vincere una certa soggezione. «Scegliere di aprire con questo titolo non è una questione di coraggio», ha spiegato il Maestro Chailly, «ma un atto dovuto a un gigante del Novecento e a un’opera che ha sofferto per troppi anni». La censura di Iosif Stalin, che nel 1936 assistette a una replica al Bolshoi, fu infatti tremenda e dalle conseguenze catastrofiche sulla produzione successiva del giovane artista.
Ancora più esplicito Ortombina: «I rapporti tra la Russia e la Scala sono sempre stati importanti, trascendendo qualunque crisi». Ed è stato lo stesso sovrintendente a eliminare eventuali dubbi residui, concedendosi generosamente ai cronisti al termine della presentazione: «La musica è superiore a ogni contrasto ideologico», ha dichiarato circondato da microfoni e videocamere. «Anche Vladimir Putin, come tutti i dittatori - da Mussolini a Hitler -, sa che il teatro musicale ha un ascendente sul popolo superiore al suo. Non si può cancellare la musica russa perché abbiamo un problema con Mosca: la forza della cultura è sovrana. Ricordo che a Venezia invitammo un’orchestra di Kiev dopo che era scoppiata la guerra. Non volevano eseguire pagine di Chaikovskij. Poi però hanno iniziato il concerto con l’ouverture della Forza del destino, l’unica opera che Giuseppe Verdi ha scritto per la Russia. Vedete? La musica è più grande di tutti noi».
A proposito del coraggio evocato da Chailly, la grande scommessa è tutta per il piccolo schermo, alle prese con un titolo per nulla rassicurante. Se la diretta fosse toccata a Prime Video con tutti i disclaimer del caso ci sarebbe stato da sbellicarsi: «Avvelenamento da funghi, strangolamenti, contenuti sessuali, scene con fumatori, linguaggio volgare, annegamenti». Vedremo come reagirà il pubblico di Rai 1. Chi non sembra aver paura di nulla è il cast internazionale del 7 dicembre. Nei tre ruoli principali il teatro alla Scala schiera il soprano statunitense (di origine polacca) Sara Jakubiak (Katerina L’vovna Izmajlova), il basso bielorusso Alexander Roslavets (Boris Timofeevič Izmailov) e il tenore uzbeko Najmiddin Mavlyanov (Sergej). Ed è proprio la cantante venuta dal Michigan e «spremuta come un’arancia» dal direttore musicale, a lanciare la carica: «Il mio ruolo è come una McLaren che in un attimo può andare da 0 a 100 chilometri orari. L’unica cosa che posso dirvi è: allacciate le cinture!». Con la speranza che gli applausi del pubblico in smoking e abito lungo siano più convinti di quelli dello sponsor Bmw.