Peppe Voltarelli, è la terza volta che vince il premio Tenco. Cosa si prova a battere Ornella Vanoni, candidata come lei?
«È una gioia immensa essere apprezzati da una giuria che ti fa battere un'icona. Stando fermi col Covid abbiamo concepito questo album, Planetario, un viaggio sentimentale nella canzone d'autore di tutto il mondo, cantata in italiano, da Jacques Brel a Bob Dylan, da Leo Ferré a Vladimir Vysotski, tradotti da Sergio Secondiano Sacchi e Danile Caldarini. Credo sia piaciuto per la sua unicità».
Nel 2016 ha vinto il Tenco come interprete, nel 2010 per un disco cantato interamente in calabrese, oggi come miglior interprete di canzoni. Lei suona nel mondo. Che Italia racconta?
«Sono un musicista indipendente e parlo di un'Italia di gente coraggiosa. Gioco anche con gli stereotipi, ma mi interessa di più raccontare un'Italia legata ai valori contadini, quella dell'Appennino e della provincia, quel mondo che si vede meno, non ha paura, al di là di quello che va più forte dal punto di vista commerciale. Chi non vuole un riconoscimento commerciale? Figuriamoci, però ci sono altre cose».
Quali?
«La musica non deve per forza essere un prodotto che si consuma velocemente. La mia musica è come un'amicizia che dura un po' di più. È qualcosa come la si creava una volta, come un manufatto artigiano. Chi come me gira per il mondo solo con una chitarra e una fisarmonica non è un prodotto commerciale o un matto ma deve essere qualcosa che resta, oltre a essere una persona coraggiosa».
Di quali stereotipi italiani parlava?
«I soliti, rocciosi, quelli de La grande bellezza, la pasta asciutta e Il padrino o trovare per le vie di Budapest i video de La Piovra venduti per strada. Fanno parte della nostra storia ma esiste anche un'Italia poetica e propositiva, moderna e legata alle radici che non ha paura di andare controcorrente».
Un aneddoto sul tema?
«Ero a Unna, in Germania, dove si organizza un grande festival di musica italiana. Una manifestazione enorme. Un signore anziano, tedesco, viene sotto il palco con il dito alzato e mi dice: “Questa che stai facendo non è musica italiana". Avevo iniziato con le mie canzoni. Allora come un jukebox vivente ho dovuto “sparargli" dal vivo Domenico Modugno, Adriano Celentano e Paolo Conte. Alla fine abbiamo vinto (ride) e l'ho convinto che anche la mia era musica italiana. Ho un rapporto particolare con la Germania, consideri che le recensioni ai miei dischi escono prima lì, come anche in Argentina, che in Italia».
Si può vivere di musica popolare?
«Sono fortunato, vivo di questo lavoro da 25 anni ed è la mia unica attività. Quando mi invitano a raccontarlo nelle scuole la cosa che dico ai ragazzi è: cercate di capire come inseguire un sogno e organizzatevi per renderlo praticabile con il lavoro. Perché anche tu, se sei onesto intellettualmente, puoi inseguire il tuo sogno. È una pratica quotidiana che non si acquisisce comprando follower».
Qualcuno in famiglia si occupava di musica?
«No. Ma c'era mio nonno che suonava il clarinetto nella banda musicale in Calabria e mio zio la fisarmonica. A nove anni mi sono iscritto a una scuola di musica e a 10 anni avevo già una piccola orchestrina. Al Sud abbiamo questa cultura ancestrale: anche nei paesini in cui non c'è niente c'è la banda e gente che suona, ancora oggi. Nei Paesi latinoamericani si vive la musica allo stesso modo. Negli Usa o nei Paesi del Nord Europa invece c'è la grande considerazione della musica come professione e lavoro, non solo come hobby».
Lei è un artista del Sud ma non si è ripiegato su certe dinamiche lamentose. Ha cercato di vivere positivamente quella cultura...
«È la cultura dei nativi. Tutti i nativi quando guardano alle proprie radici, in modo sincero, sono così. Il mio è “un linguaggio del tacco d'Italia" che nel mondo è conosciuto alla pari dell'italiano vero e proprio. La radice non si taglia. È un elemento vivo ma va coltivato».
Dopo la vittoria all'Eurofestival, i Maneskin stanno conquistando le classifiche mondiali. Nota un'attenzione particolare per la lingua italiana?
«È una lingua molto ambita e amata nel mondo. È bellissimo che un gruppo così giovane abbia questo successo, mi auguro sia l'inizio di una grande carriera. Ma bisogna sempre guardare alla profondità del progetto, alle proprie radici per restare in piedi. Le nostre comunità per il mondo sono molto attive su questo fronte. Vado in Argentina, in Canada, sono stato forse l'unico interprete italiano a cantare in Madagascar. Amo la mia terra, la mia lingua, la sua poesia così attuale che fa della diversità una forza radicale».
In questo periodo di pandemia non ci sono stati concerti. Cosa le ha fatto più paura?
«Mi fa paura quando non si riesce a trovare la ragionevolezza per stare insieme perché amministrare vuol dire confrontarsi e aprirsi agli altri, non chiudersi. Si può sbagliare o fare bene ma bisogna sempre ascoltare per capire che strada prendere. Io la penso così, vengo da una famiglia di vecchi socialisti e sono un libertario».


