Ecco #DimmiLaVerità del 17 dicembre 2025. L'esperto di geopolitica Daniele Ruvinetti ci svela gli ultimissimi retroscena del negoziato di pace per l'Ucraina.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
Donald Trump (Ansa)
Nuova bozza in 20 punti. Il tycoon invoca le urne e irride i leader europei. Costa stizzito: «Noi non faremo come voi con gli afgani».
La dote radunata da Volodymyr Zelensky nella sua tournée tra i volenterosi è l’ennesima bozza per un piano di pace, da presentare agli americani. Venti punti: otto in meno rispetto alla prima versione, concordata tra Usa e Russia, uno in più rispetto all’evanescente controproposta europea. Dal testo sono stati rimossi i termini più sfavorevoli a Kiev, ma resta il nodo dei territori: i funzionari statunitensi vogliono da Zelensky una risposta a giorni, lui non vuol cedere perché verrebbe accusato di tradimento.
Oltreoceano, la riserva di credito di cui gode il capo della resistenza si sta esaurendo. Donald Trump, in un’intervista a Politico, nella quale ha attaccato i «deboli» leader dell’Ue, ha liquidato anche Zelensky, invocando il ritorno alle urne nel Paese invaso: «Sì, penso che sia il momento», ha detto. I dirigenti ucraini, ha aggiunto il tycoon, «stanno usando la guerra come pretesto per non tenere elezioni, ma penso che il popolo dovrebbe avere questa scelta. E forse Zelensky vincerebbe. Non so chi vincerebbe. Ma non hanno elezioni da molto tempo. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia». Il presidente ucraino, a Repubblica, ha assicurato di essere «sempre pronto» al voto. L’uomo della Casa Bianca ha ricordato che i soldati di Kiev «hanno perso territorio molto prima che io arrivassi. Hanno perso un’intera fascia costiera, una grande fascia costiera. Io sono qui da dieci mesi, ma se torniamo indietro di dieci mesi e diamo un’occhiata, hanno perso tutta quella fascia. Ora è una fascia più grande, una fascia più ampia. Ma hanno perso molto territorio e anche territorio buono. Di certo non si può dire che sia una vittoria». Per Trump, il suo omologo deve accettare la situazione.
Può darsi che il tycoon non conosca la geografia (ha dichiarato che la Crimea è circondata dall’oceano). Ma sulla storia ha ragione da vendere. Le cose, com’è già accaduto nel recente passato, potrebbero peggiorare: se si fosse cercata una soluzione negoziale a marzo 2022, le perdite per l’Ucraina sarebbero state minori; idem, se si fosse tentato di tirare una linea dopo il fiasco della controffensiva del 2023; adesso, mentre sta conquistando avamposti strategici nel Donbass, è logico che Mosca indugi e cerchi di massimizzare i propri guadagni in sede politica. Il tempo è una variabile che gioca a sfavore della resistenza. «I colloqui ora coinvolgono gli Stati Uniti e Kiev», hanno tagliato corto dal Cremlino. «Siamo in attesa dell’esito di queste discussioni».
Il presidente americano, nella conversazione pubblicata ieri da Politico, ha ridimensionato pure le ambizioni ucraine di aderire alla Nato. L’idea degli europei era che l’ingresso di Kiev nell’Alleanza non andasse proibito per Costituzione, bensì dovesse essere rinviato a quando ci sarebbe stato il consenso unanime nell’organizzazione. Mai, probabilmente. Trump ha ribadito che esisteva una tacita intesa, per cui l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale, già prima che Vladimir Putin ne facesse una questione esistenziale: «È sempre stato così», ha spiegato The Donald, «ora hanno iniziato a insistere». Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui al contentino si dovesse sovrapporre il disimpegno Usa: ci ritroveremmo sul groppone i nemici dello zar, con una Nato privata del sostegno incondizionato degli statunitensi. Intanto, paghiamo Washington per dare a Kiev e «l’Europa viene distrutta»: Trump ci ha sbattuto in faccia il nostro masochismo e si è concesso uno sberleffo, parlando della Nato che lo chiama «papino».
Le élite di Bruxelles appaiono in trappola: scommettono sulla prosecuzione delle ostilità, perché sono ai margini della ridefinizione postbellica dell’architettura di sicurezza del continente. In più, l’Ue ha investito troppi soldi e troppa retorica nella causa. Pertanto, deve aggrapparsi alla minaccia dell’invasione di Putin, che il commissario alla Difesa, Andrius Kubilius, considera addirittura «inevitabile» se l’Ucraina si arrende. Spauracchio agitato per imporre la trovata suicida del prestito di riparazione, finanziato dagli asset russi ma in realtà coperto dai miliardi degli Stati membri. Da questo punto di vista, l’opposizione al piano Trump è stata un autogol: in quel documento era indicata l’unica modalità per l’utilizzo delle risorse congelate, da investire nella ricostruzione delle regioni distrutte dalle bombe, sulla quale Mosca poteva concordare. L’Ue ha rispedito il pacchetto al mittente e adesso, con in mano un conto mostruoso da saldare, i suoi portavoce si vantano perché decidere il destino di quei fondi «richiede effettivamente discussione con l’Ue». L’Italia dovrebbe impegnare 25 miliardi, la Francia 34, la Germania 51, solo per dimostrare che l’Europa esiste. Il presidente del Consiglio Ue, Antonio Costa, ha annunciato che il vertice del 18 dicembre durerà anche tre giorni, se necessari a sbloccare il dossier. «Non faremo in Ucraina quello che altri hanno fatto in Afghanistan», ha tuonato il portoghese. Il ritiro delle truppe Usa fu opera di Joe Biden. Noi, furbi, il nuovo Afghanistan lo vogliamo rendere eterno...
Dietro la solidarietà europea, comunque, si nasconde l’opportunismo. Kaja Kallas, ieri, ha gettato il velo: «Il costo del sostegno all’Ucraina», ha osservato, «impallidisce rispetto a quello che dovremmo spendere per una guerra su vasca scala nell’Unione europea». Tradotto: è meglio spedire in trincea gli alleati, affinché tengano impegnati i russi. Non è lo stesso cinismo, la stessa logica dello Stato cuscinetto di cui ragiona lo zar?
A smascherare le fumisterie dei leader Ue ci ha pensato sempre Trump: «Parlano ma non producono», ha commentato. «E la guerra continua ad andare avanti e avanti». Per suggellare l’umiliazione, la testata che lo ha intervistato ci ha messo del suo: secondo Politico, per trovare l’uomo più potente d’Europa bisogna entrare nello Studio ovale.
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Friedrich Merz, Emmanuel Macron, Volodymyr Zelensky e Keir Starmer (Ansa)
Berlino, Londra e Parigi sondano un’alternativa. Roma scettica. E Zelensky gela Bruxelles: «La proposta Usa diventi congiunta».
Una delle giornate più importanti e concitate da quando è iniziata la guerra in Ucraina coglie alla sprovvista l’Unione europea. «Non ci è stato comunicato alcun piano in maniera ufficiale», ammette in mattinata il presidente del Consiglio Ue, Antonio Costa, interrogato sull’ultimatum di Donald Trump a Volodymyr Zelensky in merito alle condizioni di pace. Essa dovrà essere «giusta e duratura» e «coinvolgere l’Ucraina e gli europei», proclama l’Alto rappresentante, Kaja Kallas, per poi evocare il sospetto che la trattativa consenta ai russi di schivare le sanzioni americane sul petrolio. Più tardi, il tycoon la smentirà. Ursula von der Leyen, la quale, come Costa e altri leader del Vecchio continente, compresa Giorgia Meloni, è al G20 di Johannesburg, insiste: «Non ci sia nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina».
La prima reazione all’intervento unilaterale degli Usa è quella di cui dà notizia il Wall Street Journal: l’Ue lavorerebbe a un piano alternativo. È una speranza che coltiva anche Zelensky: «Contiamo sugli amici europei», spiega alla nazione, confessando però anche il drammatico «bivio» dinanzi al quale si trova il Paese: perdere la faccia (quella del presidente, che prometteva la vittoria), oppure il più importante alleato. E ritrovarsi a proseguire la guerra con le armi spuntate dei volenterosi, che nel pomeriggio lo contattano per rinnovargli il loro sostegno. In serata si apprende che Londra, Berlino e Parigi meditano una controproposta. Ma poi, nella telefonata con Costa e Von der Leyen, il presidente in mimetica spiega qual è l’unico scenario realistico: trasformare il piano americano in un «piano congiunto e pienamente allineato». Laddove la linea la detterà inevitabilmente il più forte. Gli eurogregari potranno strappare delle migliorie: Oltreoceano sono aperti a modifiche ispirate da Kiev. E in serata il cancelliere tedesco ottiene un «colloquio proficuo» con la Casa Bianca.
Le nazioni europee si muovono indipendentemente dall’Ue. Perché del piano di Bruxelles non si scorge traccia, mentre Friedrich Merz, Emmanuel Macron e Keir Starmer immaginano un diverso accordo, che emendi quello elaborato da Trump. Ossia, limiti le perdite per Kiev e soprattutto i danni per l’Europa, che con questa guerra ha ipotecato reputazione e futuro industriale.
Il comunicato tedesco insiste sulla necessità che a Mosca sia impedito di oltrepassare l’attuale linea del fronte (accadrebbe, nella versione statunitense, con la cessione dell’intero Donbass) e che «le forze armate ucraine rimangano in grado di difendersi», anziché ritrovarsi sguarnite. La cancelleria, comunque, precisa che i tre volenterosi «hanno accolto con favore gli sforzi degli Stati Uniti per porre fine alla guerra» e «in particolare l’impegno per la sovranità dell’Ucraina e la volontà di fornire all’Ucraina solide garanzie di sicurezza». La base di partenza sono i 28 punti della Casa Bianca, purché «tutte le decisioni che riguardano gli Stati europei, l’Ue e la Nato» siano prese con il consenso dei diretti interessati. È una clausola a cui pare tenere molto anche la Polonia, orgogliosa della sua postura aggressiva finché non ha scoperto che dovrebbe ospitare i caccia schierati in difesa degli ucraini: «Le decisioni riguardanti la Polonia siano prese dai polacchi», reagisce allora il premier, Donald Tusk, in un improvviso accesso di sovranismo.
Starmer, intanto, reitera la richiesta di coinvolgere Kiev, affinché determini «il suo futuro e la sua sovranità». Eppure conferma: «Noi ora dobbiamo lavorare» a partire dal testo del tycoon. La speranza degli alleati è quella espressa da Berlino: che siano salvaguardati «gli interessi vitali europei e ucraini a lungo termine». Significa che l’obiettivo è mascherare nel miglior modo possibile un clamoroso smacco strategico. È un esito che soltanto Washington è in grado di blindare. E in un’intervista a Fox radio, Trump apre uno spiraglio, quando giura che i russi «saranno fermati» se, un domani, insidiassero i baltici o altri Stati europei.
Nella disputa si infila pure l’Onu: il segretario generale, Antonio Guterres, invoca il rispetto dell’integrità territoriale ucraina.
E l’Italia? I ministri degli Esteri e della Difesa, Antonio Tajani e Guido Crosetto, sono sulla stessa lunghezza d’onda dei partner europei, dalla Repubblica ceca alla Finlandia: l’ultima parola deve spettare a Kiev. Un giorno capiremo se questa non fosse, piuttosto, una tattica per scaricare sulla classe dirigente ucraina la responsabilità di una tragedia, chiudendo qualunque spazio per recriminazioni.
La Meloni non partecipa al confronto con Zelensky, ma sente al telefono Merz e sottolinea «l’importanza di sostenere gli sforzi negoziali in corso». Ovvero, l’iniziativa americana. Il premier rivendica: le garanzie di sicurezza offerte dagli Usa ricalcherebbero l’originario suggerimento di Roma, che indicava nell’articolo 5 Nato il modello da seguire.
Dopodiché, proprio mentre il presidente ucraino dà conto di una telefonata con Mark Rutte, capo della Nato, «per garantire il successo del piano Trump», Reuters parla del contro-piano concordato da Ucraina, Germania, Francia e Regno Unito. L’Italia non ci scommette. Preferisce aggiustare il documento di Trump piuttosto che partorire un’ennesima scartoffia dei volenterosi, fino a oggi campioni di aria fritta. Sui loro fumosi progetti, a partire dalla mania di Macron per le truppe sul terreno, Meloni è rimasta sempre scettica. Fatto sta che la piccola alleanza scavalca ancora la Kallas e la Von der Leyen. La presidente della Commissione, insieme a Costa, sente il numero uno della resistenza, per ripetergli il solito ritornello: mai nulla senza di voi. Ma da Zelensky apprende che la strada si è drammaticamente ristretta: «I team di Ucraina, Stati Uniti ed Europa lavoreranno insieme», scrive su X il presidente, indicando tuttavia nel «piano congiunto» la sola soluzione praticabile. Anche stavolta, così come in Medio Oriente, l’Unione è ai margini. L’Europa opera attraverso le nazioni più influenti. Una non fa parte dell’Ue. Nessuna può fare a meno dell’America.
È l’ultima spiaggia per Zelensky, convinto di dover scegliere tra il disonore e la guerra. Gli europei, invece, sono convinti di dover scongiurare la pace di Trump per arrivare a una pace giusta. Ma forse sognano una pace impossibile.
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13 ottobre 2025: il summit per la pace di Sharm El-Sheikh (Getty Images)
La quiete in Medio Oriente non placa gli animi dei commentatori nostrani, che ora screditano gli accordi ispirati da Trump per l’assenza di donne ai tavoli negoziali: «Hanno più sensibilità dei maschi». Eppure la von der Leyen dimostra il contrario.
Finalmente abbiamo compreso quale sia il grande problema delle trattative di pace in Medio Oriente. Non il difficoltoso disarmo di Hamas, non le esecuzioni pubbliche compiute dai jihadisti, non la foga espansionista dei coloni israeliani o il grilletto facile dell’Idf. Il problema è che a discutere di tregua a Sharm el-Sheikh non ci sono abbastanza donne. Lo abbiamo compreso perché - con mirabile womansplaining (cioè col piglio saputo delle donne che spiegano cose ai maschi inetti) - ce lo ha chiarito ieri su Avvenire Antonella Mariani.
«Di un mondo “maschiocentrico” abbiamo assaggiato un antipasto lunedì sera, con la assai discussa photo-opportunity che ritrae i leader radunati dal presidente Trump in Egitto per la cerimonia della firma dell’accordo: 32 uomini, paludati nelle grisaglie nere o nelle tuniche immacolate», scrive l’editorialista del quotidiano dei vescovi. «E poi lei, l’unica donna, la premier italiana Giorgia Meloni, peraltro un po' isolata al margine esterno, come a rimarcare anche fisicamente una separazione di genere. Assenti le altre leader europee che avrebbero almeno un po’ riequilibrato il gap, Ursula von der Leyen e Kaja Kallas non erano state invitate, il fermo immagine riflette la scarsità di donne che arrivano ai vertici della politica, ne rimangono escluse per i meccanismi ben noti di conservazione del potere o per vere e proprie discriminazioni (a Sharm erano presenti molti Paesi del mondo arabo)».
La Mariani si domanda con preoccupazione se quegli uomini in grisaglia o in divisa saranno capaci di fare davvero gli interessi dei loro popoli, cosa che sarebbe assicurata se al tavolo ci fossero più donne. «Premi Nobel e mediatrici internazionali ci hanno raccontato la loro esperienza e confermato che le donne, quando siedono ai tavoli, portano anche altre questioni oltre al rilascio degli ostaggi, i confini, la demilitarizzazione e il disarmo…», spiega la firma di Avvenire. «Se applichiamo questa evidenza alle trattative in corso per il Medio Oriente, possiamo prevedere che la mancanza di mediatrici donne comporterà una ferita al futuro dei popoli di questa parte del mondo. Tutti quegli uomini ai tavoli - generali, spie, funzionari, politici - metteranno a tema la ricostruzione del sistema scolastico, l’accesso all’acqua, la sicurezza dei civili, i processi di riconciliazione, le politiche per una parità di genere?».
Ora, certo non sappiamo dire se i maschi presenti a Sharm riusciranno davvero a portare la pace nella martoriata Palestina. Sappiamo tuttavia un paio di altre cose. La prima è che a Giorgia Meloni è presente, e non defilata come suggerisce Avvenire, non in quanto femmina ma in quanto guida di una nazione ritenuta affidabile e rilevante nel processo di pacificazione, motivo per cui è un filo ridicolo cercare di sminuirne il ruolo. La seconda verità che ci sentiamo di esporre è che una maggioranza di donne non potrebbe fare granché di diverso in Egitto come altrove. Anzi, forse addirittura peggiorerebbe la situazione. E non perché le donne non siano in grado di trattare, ma perché conosciamo fin troppo bene le esponenti politiche europee per fingere che possano applicare dolcezza materna a qualsivoglia conflitto.
La Mariani si strugge per l’assenza di Kallas e von der Leyen. Dimentica forse di stare parlando di due delle più determinate guerrafondaie degli ultimi decenni. Ancora pochi giorni fa, la Kallas ha ribadito il fulcro del suo pensiero: «Il modo migliore per prevenire la guerra è essere indiscutibilmente pronti a vincerla». Sono anni che lei e Ursula spingono per uno spaventoso aumento della spesa militare nell’Ue e si oppongono a qualsiasi ammorbidimento dell’ostilità nei confronti della Russia. Se queste due donne non siedo ai tavoli mediorientali, dunque, non è per via di una presunta discriminazione di genere, ma per la loro incompetenza.
Sono state totalmente incapaci di avviare anche solo mezzo tentativo di dialogo con la Russia al fine di risolvere la crisi ucraina, anzi a dirla tutta continuano da fin troppo tempo a versare benzina sul fuoco. Quanto alla partita palestinese, di nuovo non risultano pervenute. Dunque in virtù di quale merito si dovrebbe coinvolgerle in processi che non hanno contribuito a sostenere o peggio che hanno ostacolato?
Più in generale, non si capisce perché le donne in quanto tali dovrebbero garantire relazioni più pacifiche. Per smentire tale affermazione basterebbe citare due parole: Hillary Clinton. Ma possiamo anche chiamare in causa personaggi meno rilevanti per le sorti del mondo. Un interessante esempio di discussione al femminile sul problema palestinese ci è stato offerto negli ultimi giorni da Francesca Albanese, che anche ieri accusava la stampa italiana di essere «filo sionista». E non parliamo delle baruffe che la hanno opposta a Liliana Segre e hanno poi opposto quest’ultima a Eugenia Roccella (altro esempio di concordia femminile). Parliamo banalmente dell’insistenza con cui continua a dire che non si può chiamare pace l’accordo in corso perché «è sia un insulto che una distrazione. [...] Israele dovrà affrontare giustizia, sanzioni, disinvestimenti e boicottaggi fino a quando l’occupazione, l’apartheid e il genocidio non saranno finiti e ogni crimine non sarà stato reso conto». Come a dire: il conflitto non può certo fermarsi qui.
L’amara realtà è che la politica estera si gioca sui rapporti di forze, e non sulla morale. Non esistono solo giuste o sbagliate, ma solo soluzioni possibili o impossibili. Finora tutte le radiose donne ai vertici della politica mondiale, assieme a tanti uomini dell’élite, non hanno fatto nulla di concreto per salvare vite in Ucraina, in Palestina e altrove. Ci sta provando ora un maschio brutto e cattivo, Donald Trump. E certo lo fa per i suoi interessi, non per bontà d’animo. Ma almeno uno spiraglio si è aperto. Solo che una bella fetta di intellettuali, commentatori e politici - maschi e femmine - ce la stanno mettendo tutta per otturarlo, quello spiraglio. Preferiscono guerra e morte alla caduta dei loro pregiudizi. Non ammettono che la pace è buona in quanto pace, e non per altro. Non vogliono la pace di Trump: vogliono la «pace giusta». Ovvero quella che non arriva mai.
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