Oltremare Parigi conserva territori che tratta ancora come colonie. La Nuova Caledonia ne è un esempio
Dopo anni di disordini, La Francia e l’arcipelago del Pacifico raggiungono un accordo che lascia insoddisfatti gli indigeni Kanak, ancora in lotta per la sovranità. Al centro della crisi, la dipendenza economica dal nichel e le contraddizioni politiche e sociali.
Nel cuore del Pacifico meridionale esiste un piccolo territorio, solo in apparenza irrilevante nel «grande gioco» della politica mondiale. La Nuova Caledonia è un arcipelago composto da una dozzina di isole. Un paradiso terrestre, palme, sabbia bianca e finissima, mare cristallino. Se si digita «Nuova Caledonia» su un qualunque motore di ricerca, le immagini che compaiono sono quelle che si trovano in un dépliant di viaggi. Ma la verità è lo specchio riflesso della realtà.
Dalla primavera dello scorso anno sono insorte rivolte in tutto il Paese e hanno riportato l’arcipelago, a lungo considerato solo una lontana colonia francese, al centro della cronaca internazionale e del dibattito sulla decolonizzazione, dove una crisi profondamente intrecciata a decennali questioni identitarie, economiche e geopolitiche, rivela il vero volto di Parigi.
Le manifestazioni scoppiate nel maggio 2024 sono state segnate da episodi di inaudita violenza: scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, incendi dolosi, barricate e saccheggi, culminati nella morte di almeno sette persone, centinaia di feriti e danni economici superiori a 200 milioni di euro. Il principale teatro dei disordini è stato Nouméa, la capitale, ma le tensioni si sono propagate anche nei centri più piccoli e nelle aree Kanak dell’interno. Il casus belli immediato è stata la riforma del sistema elettorale voluta da Parigi, che prevedeva la concessione del diritto di voto ai residenti non indigeni stabilitisi nell’arcipelago da almeno dieci anni. Per i Kanak e gli indipendentisti questa riforma rappresentava una minaccia letale al peso politico della popolazione indigena, già ridotta al 40% degli abitanti e sottoposta a crescenti discriminazioni e marginalizzazione sociale.
A questo l’Eliseo ha risposto con la proclamazione dello stato di emergenza, il blocco dell’aeroporto, l’invio di nuovi reparti di polizia e gendarmeria, coprifuoco e sospensione dei voli civili. Soltanto la pressione internazionale e il timore di una definitiva rottura hanno portato Emmanuel Macron e il governo ad aprire un tavolo negoziale, conclusosi poche settimane fa con una contestata proposta di accordo.
Il trattato, firmato il 12 luglio, offre alla Nuova Caledonia un diverso tipo di costituzione: resta uno Stato inserito nella Repubblica francese ma dotato di maggiore autonomia, una propria cittadinanza (accanto a quella francese), la possibilità di definire leggi specifiche, simboli e istituzioni locali. L’intesa riconosce quindi una forma di auto organizzazione, con una «legge fondamentale» che sarà sottoposta a referendum nel 2026. Parigi garantisce, inoltre, un patto di revisione economica, con la promessa di sostenere la ristrutturazione del debito, rilanciare l’occupazione e intervenire sul settore energetico, il cui alto costo penalizza da decenni tutta l’industria estrattiva.
Tuttavia, i principali leader del Fronte di liberazione nazionale Kanak e socialista hanno già respinto l’accordo, giudicato incompatibile con le basi della lotta per l’indipendenza. Per una larga parte della popolazione Kanak, questa soluzione non scioglie il nodo fondamentale: l’arcipelago resta privato di una reale autodeterminazione e della possibilità, almeno immediata, di ottenere il seggio alle Nazioni unite come Stato indipendente.
La crisi odierna affonda le sue radici in una lunga storia di colonizzazione e tentativi incompleti di emancipazione. Annessa dalla Francia nel 1853 e usata come colonia penale fino alla fine dell’Ottocento, la Nuova Caledonia ha conosciuto, soprattutto dal dopoguerra in poi, ondate cicliche di contestazione e rivendicazioni di autonomia. Dopo la repressione delle prime ribellioni Kanak, negli anni Ottanta si giunse agli Accordi di Matignon (1988) e poi di Nouméa (1998), che sancivano una graduale devoluzione di poteri e il principio, mai del tutto realizzato, di un eventuale diritto all’indipendenza garantito da referendum. Ma la decolonizzazione, sempre proclamata, non è stata mai pienamente attuata. Anzi, la Francia, andata incontro a enormi pressioni internazionali, ha mantenuto saldo il controllo su tutte le leve fondamentali: politica estera, difesa, giustizia, moneta e, soprattutto, sulle risorse strategiche. Il sistema istituzionale creato in questi decenni ha lasciato la popolazione Kanak sovente esclusa dai veri processi decisionali e sempre più sfavorita anche dal punto di vista sociale ed economico.
Tra tutte le ragioni delle tensioni, la questione delle risorse minerarie, e in particolare del nichel, occupa il posto centrale. La Nuova Caledonia rappresenta il terzo produttore mondiale di nichel e possiede il 10% delle riserve globali: il settore incide per oltre il 20% del Pil, assicura il 90% delle esportazioni e dà lavoro - direttamente o indirettamente - a più di un quarto degli occupati del privato. Pechino, oggi principale acquirente, controlla il 66% delle esportazioni, mentre la filiera locale è al tempo stesso una benedizione e una trappola: prospera quando i prezzi del nichel sono alti, diventa una maledizione appena il mercato globale si deprime. Negli ultimi anni, la concorrenza delle miniere indonesiane, più moderne e a basso costo, ha mandato in crisi l’intera industria caledoniana. Dal 13 maggio 2024, gran parte delle attività è stata sospesa, causando migliaia di licenziamenti e il rischio concreto di impoverimento per molte comunità, in particolare quelle Kanak. Il paradosso della modernità: un arcipelago ricchissimo di minerali, privo di vero controllo sulle proprie risorse e incapace, per vari blocchi strutturali e per la concorrenza internazionale, di tradurli in crescita diffusa.
Le promesse di Parigi sul rilancio del settore sembrano, ad oggi, scontrarsi con una realtà di crisi industriale, rincari energetici e impatti devastanti sull’ecosistema: l’estrazione di nichel comporta la deforestazione di vaste aree tropicali e un pesante tributo ecologico. Le nuove spinte globali sulla «transizione verde» e l’economia delle batterie per auto elettriche non hanno ancora risolto il dilemma di fondo: la Nuova Caledonia è un territorio determinante nella geopolitica dei metalli, ma le popolazioni locali raramente ne raccolgono i benefici. Ecco l’altra faccia del perbenismo ambientalista che riempie le bocche dei salotti buoni e degli ideologi del Primo mondo.