Al giorno d’oggi i tempi di cottura in cucina si calcolano così: avete scelto di farvi per pranzo una carbonara con gli spaghettoni di grano Senatore Cappelli che pretendono 13 minuti di bollitura per essere cotti al dente? Ottima scelta. Prendete il vostro cellulare con assistente vocale, sia esso Siri, Alexa o Google Assistant, e comandategli: «Calcola 13 minuti». Dopo 780 secondi precisi, l’algoritmo che ha elaborato la vostra voce e ben interpretato il comando avverte con un suono modulato che la pasta ha la consistenza come da vostra disposizione: scolate gli spaghettoni e tuffateli nel sugo alla carbonara preparato a parte e gustateli con tutto l’appagamento che meritano e il compiacimento che meritate voi per l’ottimo risultato.
Non possedete un cellulare con l’assistente vocale? Potete sempre acquistare un timer da cucina: su Internet se ne trovano di tutte le forme, di tutti i colori, di tutti i suoni tra i 5 e i 10 euro. E se una/o volesse cuocere un perfetto branzino al sale? Tranquilli, i forni di ultima generazione hanno timer elettronici digitali incorporati che spaccano il secondo. Si preriscaldi il forno a 200 gradi, s’inforni il pesce, s’imposti il cronometro su 25 minuti e, dopo 1.500 secondi, l’elettrodomestico trilla come un soprano all’Arena di Verona avvertendo che la spigola (due nomi, stesso pesce) è pronta. Al posto del branzino preferite l’arrosto di vitello? Stesso procedimento, cambiano solo i minuti di cottura: forno preriscaldato a 180°-200° e timer impostato su 45 minuti per ogni chilo di carne (così raccomanda la rivista di cucina Sale&Pepe). Insomma, grazie alla moderna tecnologia è impossibile sbagliare i tempi di cottura. Chi lo fa, nonostante aggeggi che misurano il tempo grazie a satelliti e Intelligenza artificiale, è un imbranato che farebbe bene a darsi all’ippica, non alla cucina.
Come si cucinava quando non c’erano gli orologi, ma solo clessidre e meridiane e, dal Medioevo in poi, orologi sui campanili ma anch’essi poco o niente pratici? Si pregava. Si misurava la cottura con le preghiere. Fin dall’antichità le orazioni hanno scandito i tempi della giornata, anche quelli della cottura. Già qualche migliaio di anni fa i sacerdoti egizi, greci e romani utilizzavano le preghiere e i rituali religiosi come segnatempo per stabilire gli orari delle attività quotidiane. Secoli dopo, nel Medioevo, San Benedetto, dettando ai suoi monaci la regola dell’«ora et labora» e fissando un ritmo giornaliero basato sul ciclo delle orazioni, li indirizzò verso precisi momenti di preghiera intrecciati con le attività quotidiane: lavori nell’orto, pulizie nel monastero e preparazione dei pasti.
Ruggero Larco, scrittore toscano, storico dell’Accademia italiana della cucina, frugando tra le carte medioevali di una pieve romanica, ha trovato un documento incartapecorito sul quale sono scritti in dettaglio i tempi di cottura occorrenti per alcune pietanze. Per cuocere il fegato nell’olio bollente con la salvia ci volevano due Gloriapatri: 12 secondi, un Gloria da una parte, uno dall’altra. Per ottenere un uovo al tegamino perfetto bisognava recitare un Credo. Il pane lievitava, ben coperto da un panno, per il tempo necessario a recitare un intero rosario (20/25 minuti). Un ricettario moderno suggerisce di cuocere 6-7 minuti le uova per ottenerle sode ma morbide e dice che ce ne vogliono 9 per ottenerle decisamente sode. Come ci si regolava nel Medioevo? Lo dice il documento scoperto nella pieve romanica toscana: si raccomanda la recita di due poste di rosario per avere le uova bazzotte; tre poste, ovvero 30 Avemaria, 3 Paternostri, 3 Gloriapatri per uova ben cotte, quelle che i veneti chiamano ovi duri.
«Potenza della fede», scrive Larco in un articolo del gennaio del 2014 su Civiltà della tavola, il mensile dell’Accademia, «una messa cantata fa cuocere un cappone». L’accostamento è spiegato così: il cappone, un tempo, per moltissime famiglie era il piatto della festa, soprattutto del pranzo di Natale. È logico pensare che tale tempo di cottura sia stato dettato per favorire la donna di casa che la mattina della festa non voleva perdere la messa solenne, quella cantata, appunto. Giovanni Ballarini, già presidente dell’Accademia fondata da Orio Vergani, docente emerito dell’Università di Parma, dubita che le cose siano andate così. Scrive su Georgofili Info, il notiziario d’informazione dell’Accademia dei Georgofili, che la donna di casa, la mattina della festa, iniziava a bollire il cappone nella pentola prima che iniziasse la messa e lo ripescava ben cotto al suo rientro. Ma bastava il tempo della messa, rifletteva Ballarini, o il conteggio comprende anche i tempi delle inevitabili e lunghe chiacchiere a messa finita? Conclude il ricercatore scientifico che, per le dure e compatte carni dei capponi di un tempo, «non è necessaria una grande precisione e in questo caso bisogna proprio dire: tutti i Santi aiutano».
Caldi di brodo e di preghiere: ecco come Maestro Martino, il re dei cuochi del Quattrocento, serviva i «raffioli», i ravioli, di carne al suo signore, il cardinale camerlengo e patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampi Mezzarota, soprannominato «cardinal Lucullo» per l’opulenza dei suoi banchetti. Maestro Martino da Como (era ticinese di nascita, ma lui preferiva essere considerato comasco) era ritenuto il numero uno nell’Europa del quindicesimo secolo, il Dabiz Muñoz del suo tempo, inserì la ricetta nel Libro de arte coquinaria: si usi una libbra, quella del patriarcato di Aquileia corrispondeva a 320 grammi odierni, di «ventrescha di porcho grassa» o una «tettha di vitella», si faccia lessare a lungo, si batta ben bene per preparare l’impasto e si amalgami poi con erbe fini, pepe, chiodi di garofano e zenzero. Una volta tirata la pasta sottilissima, si preparino i ravioli non più grandi di mezza castagna e si mettano a cuocere in brodo di cappone al quale, quando bolle, si aggiunga lo zafferano. Quando il brodo assume un bel colore giallo, si tuffino i ravioli nella pignatta. Quanto bisogna aspettare per tirarli su? Come calcolare il tempo di cottura? Maestro Martino raccomanda nel suo libro: «Lassali bollire per spatio di doi paternostri». Dopo due Padre nostro, poco più di un minuto, si poteva star sicuri che i piccoli ravioli benedetti dalla preghiera erano cotti a puntino. Si minestravano nella scodella fonda e si mangiavano con grande gusto. La ricetta tutto sommato è facile e, anche se non siete Massimo Bottura o Giancarlo Perbellini, si potrebbe benissimo replicare al giorno d’oggi. Maestro Martino, il cuoco che ha traghettato la cucina italiana dall’antichità all’evo moderno, ne sarebbe contento.
Anche i brigidini di Lamporecchio, così chiamati perché nati nel convento di Santa Brigida nel paesone in provincia di Pistoia, pretendono una preghiera: l’Ave Maria, 15 secondi. L’orazione alla Madonna scandiva il tempo di cottura delle dolci cialde profumate all’anice: la pasta schiacciata tra le ferratelle, piastre di ferro tonde esposte al fuoco, cuoceva nello spazio di un’Ave Maria.
Per secoli, fin dopo la Prima guerra mondiale, ma anche dopo nonostante gli orologi a polso o a taschino fossero ormai abbastanza diffusi, Paternoster, Ave Maria e Gloria continuarono a essere i timer usati in campagna dalle massaie, dalle massare contadine venete e siciliane, dalle azdore romagnole, donne che avevano imparato dalle mamme che a loro volta avevano imparato dalle loro genitrici a cuocere i cibi usando le preghiere per calcolare i tempi di cottura.
Qualche sacca di resistenza ai timer è rimasta in campagna e in qualche remota vallata montana: ancora adesso si trovano anziane che recitano preghiere per abitudine o per tradizione fin che fanno da mangiare. Chi scrive ha avuto un’esperienza ravvicinata con la cottura fatta con le preghiere. È un ricordo legato alla nonna che abitava in una casa vecchia dove l’angolo di cottura consisteva nel solo camino. Tra braci, cenere calda, pignatte e un paiolo che pendeva da una catena nera che scompariva su per la cappa, nonna Amalia cucinava di tutto: carni lesse e arrosto, le brassadèle, dolce povero cotto sotto la cenere calda, minestre, zuppe e, soprattutto, il cibo più importante della tavola contadina, la polenta. La vedo ancora menare e rimenare la polenta col mestolo mentre recitava sottovoce le preghiere. Alla polenta dedicava un rosario completo: cinque poste, litanie alla Madonna, Pater, Ave, Gloria per il Papa e qualche requiem per i cari defunti. In poco meno di un’ora la polenta veniva come la voleva lei, compatta, bramata, senza grumi duri. Cotta al punto giusto, nonna scodellava la polenta, lava dorata e fumante, sulla tafferìa in tavola. Mai più mangiata una polenta così buona. Una polenta con l’aureola. Santa. Santa polenta, quanta pazienza ci voleva, e ci vuole tutt’ora, in cucina.



