«Nervi saldi e niente prove muscolari come strategie di ritorsioni con altri dazi contro gli Stati Uniti. L’Europa ne uscirebbe con le ossa rotte. Piuttosto bisogna aprire un tavolo negoziale affidato a una personalità con autorevolezza riconosciuta a livello internazionale e guardare anche alle opportunità che questa situazione offre alle imprese italiane e europee».
Opportunità in quella che tutti definiscono una tragedia? Andrea Dell’Orto, executive vice president del gruppo Dell’Orto, azienda leader nella produzione di carburatori e di componenti per iniezione elettronica per auto e per moto e per i sistemi di mobilità elettrica (140 milioni di fatturato con attività in tre Paesi), ha una visione ottimista. «I media europei prospettano uno scenario apocalittico: esplosione dell’inflazione, recessione, perdita di posti di lavoro. Ma io ritengo che da questa situazione l’Europa può uscire più forte e coesa e cogliere anche delle opportunità».
Andiamo con ordine. Quindi lei sostiene che tutti si stanno facendo prendere dal panico ingiustificato?
«Voglio dire che basta riavvolgere il nastro ai mesi precedenti alla vittoria elettorale e all’insediamento alla Casa Bianca. Il presidente Trump ha sempre detto che avrebbe imposto i dazi per riequilibrare il disavanzo della bilancia commerciale. E tutti noi sappiamo che a differenza di quanto spesso accade in Europa, negli Stati Uniti quello che si promette in campagna elettorale e sul quale gli americani esprimono la loro preferenza, diventa programma di governo. Quindi tanto stupore per qualcosa di ampiamente annunciato è del tutto ingiustificato. Piuttosto, diciamo le cose come stanno: in Europa manca una politica industriale e così pure tanti gruppi imprenditoriali, che pure dovrebbero sapere come in mercati globalizzati le perturbazioni vanno messe in conto, si sono fatti trovare impreparati».
Quale dovrebbe essere la risposta a Trump?
«Non può essere una reazione impulsiva come quella di varare nuovi dazi e men che meno ipotizzare ritorsioni di alcun tipo. Peraltro questa Europa, così divisa, non mi sembra abbia la forza per farlo. E comunque innescherebbe una guerra commerciale nella quale l’Europa ha solo da perderci. La soluzione è trattare e definire una strategia lucida di lungo periodo».
Che tipo di strategia? Ed è così sicuro che Trump accetterebbe? Non dà segni di voler tornare sui propri passi.
«Innanzitutto bisogna analizzare con rigore l’impatto concreto di queste misure su industria e indotto. Poi definire un asse con Washington per la revisione del Green deal che ha creato barriere burocratiche nei traffici commerciali con gli Stati Uniti. Va aperto un dialogo sulle tecnologie e sui settori portanti dell’industria europea. Dalla componentistica avanzata all’ingegneria meccanica ed elettronica, al design. Asset distintivi difficilmente ritrovabili altrove».
Ma chi può sedersi al tavolo con Trump?
«Non mi pare che questa Europa abbia uomini e strumenti per poterlo fare. La recente (non) revisione degli obbiettivi sul 2035 per l’automotive, ne è una dimostrazione. Non penso quindi che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sia il personaggio giusto. Ha avuto sin dall’inizio della crisi dei dazi, un atteggiamento umorale, lanciando minacce di ritorsioni. Non è stata in grado di prendere le distanze dal Green deal come chiedevano gli elettori. Inoltre finirebbe per fare gli interessi della Germania, sappiamo quanto è legata a Berlino. Serve una figura super partes».
Ha un nome?
«Penso a Mario Draghi. È un profondo conoscitore degli Stati Uniti con un’ottima reputazione a livello internazionale. Nella trattativa andrebbero coinvolte anche le organizzazioni imprenditoriali. Affidare interamente la negoziazione alla politica, come già visto nel caso del Green deal, ha prodotto decisioni scollegate dalla realtà industriale. Per difendere l’interesse strategico del sistema produttivo, serve una politica commerciale pragmatica, competente e coraggiosa. Le imprese hanno già dimostrato ampiamente la loro capacità di adattamento. Gli approcci ideologici, oltretutto poco strutturati e al limite dell’improvvisazione, invece, hanno mostrato tutti i loro dannosi limiti».
Lei ha parlato di opportunità che offre questo scenario.
«Mi riferisco alla possibilità di valutare forme intelligenti di localizzazione produttiva nei mercati target, inclusi gli stessi Usa».
Ma le delocalizzazioni non sono un impoverimento del tessuto industriale territoriale?
«Le localizzazioni sono un’occasione di incrementare il business. Andare a produrre localmente evitando i dazi sarebbe ben visto e incentivato dall’amministrazione americana. E anche una base per il negoziato. La nostra esperienza in India ha dato buoni risultati giacché in quel Paesi si vendono 20 milioni di moto e in Europa 1,8 milioni. Nel 2006 abbiamo definito una joint venture con un produttore locale che abbiamo chiuso nel 2009 per creare un’azienda solo nostra con l’aiuto di Simest, che è rimasta socio di minoranza per 8 anni e poi è uscita. Il 91% di quello che produciamo in India lo vendiamo lì. Questo ragionamento andrebbe fatto a livello europeo».


