[...] Oggi la parola cristianesimo è più facilmente identificata con una serie di valori morali o con una predicazione dei valori morali, con una preoccupazione di valori morali. Non sto dicendo, dunque, che il cristianesimo non si interessa di valori morali, dico semplicemente che il cristianesimo non coincide affatto con la predicazione di valori morali. Se abbiamo assistito alla Messa di domenica scorsa, la bellissima parabola del fariseo e del pubblicano ci ha ancora una volta sorpreso: ci sorprende sempre, alla fine, quando dice che il pubblicano se ne è uscito dal tempio perdonato, «giustificato», a posto, in pace, mentre il fariseo, che aveva millantato tutte le cose buone che aveva fatto - e non diceva menzogne, Cristo non ha detto: «Il fariseo ha detto delle menzogne», per nulla affatto -, è uscito condannato. Il perché ultimo di questa opposizione non è immediatamente necessario delucidarlo; può darsi che venga come conclusione di altri pensieri.
Ma voglio dire che l’importante, per uno che deve parlare di cristianesimo, pensare al cristianesimo o vivere il cristianesimo, la cosa principale è proprio questa: che non può ricondurre ciò di cui si vuole interessare o che vuol vivere a dei valori morali che, con la propria forza di volontà, riesca a tradurre in atto. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento, un fatto oggettivo: anche se tutto il mondo non credesse, non potrebbe più toglierlo. Non c’è ragionamento che possa tenere: «Contra factum non valet illatio», di fronte a un fatto è inutile, a un fatto non si può opporre un ragionamento, la forza di un ragionamento.
la mossa del mistero
Il cristianesimo è un avvenimento, nel senso che innanzitutto non è una predicazione morale. Essendo un avvenimento che implica Dio, una mossa del Mistero nella vita dell’uomo, nella storia dell’uomo, credo che la premessa più importante sia il tipo di attenzione o la tensione di tenerezza che l’uomo ha verso sé stesso. Se un uomo non ha attenzione e tenerezza verso sé stesso, una tenerezza come la madre l’ha col suo bambino, è in una posizione - dico - necessariamente ostile all’avvenimento cristiano. C’è una frase di Rainer Maria Rilke da cui parto spesso per una meditazione su di me stesso: «E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile».
Io non ho mai trovato una sintesi di quello che l’uomo esistenzialmente sente di sé stesso, se si pensa con attenzione, per un minimo di attenzione che porta a sé stesso, paragonabile a questa frase di Rilke. L’uomo, se guarda sé stesso, ha vergogna, ha noia, ha vergogna fino alla noia, eppure non può negare un impeto, un impeto irriducibile, che costituisce il suo cuore, un impeto irriducibile a una pienezza, diciamo a una perfezione o soddisfazione, che nel loro valore etimologico sono identiche: «perfezione» ha più un significato ontologico e «soddisfazione» è più eudemonologico, come dire di sentimento. Io credo che Dio si sia mosso proprio per essere risposta a questa percezione che, a mio avviso, torno a ripetere, è l’unica realistica percezione che l’uomo possa avere di sé stesso, se si pensa con attenzione e con tenerezza materna. Se Dio si è mosso, si è mosso per rispondere all’uomo, all’uomo che ha vergogna, vergogna e noia di sé stesso, che trova limiti in sé, limiti con cui è connivente, da una parte, e, dall’altra parte, non riesce, non può riuscire a turare la bocca di questo grido che è nel suo cuore, di questa attesa che ha nel suo animo.
la noia di noi stessi
Comunque, Dio ha fatto questa mossa per rispondere alla situazione dell’uomo. È per questo che ha fatto questa mossa, diventando salvatore dell’uomo: è il salvatore dell’uomo, è il redentore dell’uomo. Ma non voglio insistere solo su tali particolari, anche se questa premessa mi sembra necessaria: che Dio si è mosso per me. Lo dice testualmente San Paolo: «… il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me». E ognuno di noi, che siamo qui - scusate se lo dico - deve ripetere, può ripetere e deve ripetere questa frase di San Paolo: «Per me», cioè per liberarmi; per liberarmi, sì, per liberarmi dalla noia di me stesso e dal peso di questo limite, che trovo, che mi trovo dentro tutto quel che faccio. Da questo punto di vista, il cristianesimo ha una partenza pessimistica circa l’uomo. Non per nulla parla di peccato originale, come il primo mistero, senza del quale non si spiega più nulla; è mistero, ma senza questo mistero non si spiega più nulla della contraddizione in cui l’uomo inesorabilmente vive. Se è pessimista, se è inizialmente pessimista circa l’uomo, finisce però in un ottimismo, in un ottimismo profondo, profondo e impegnativo. L’ottimismo per cui uno può affermare: «Se Dio è per me, chi potrà essere contro di me?», come dice ancora San Paolo. La mossa di Dio è consistita nel fatto che il mistero di Dio si è configurato come un uomo reale, ha preso la realtà d’un uomo vero, un uomo cioè che viene concepito nell’utero di una donna e da questo piccolo e quasi invisibile grumo si sviluppa come infante, come bambino, come fanciullo, come adolescente, come giovane, fino ad essere, a diventare centro di attenzione nella vita sociale del popolo ebraico, fino a trascinare dietro a sé le folle, e fino ad avere le folle, per l’atteggiamento di chi ha il potere in mano, contro di sé, fino ad essere crocifisso, ucciso, e fino a risorgere, risorgere dalla morte.
[...] Ma… e ora? Non dico ora, ma dieci anni dopo che Cristo è morto, un anno dopo che Cristo è morto, cento anni dopo, cinquecento anni dopo, mille anni dopo, duemila anni dopo, adesso, perché la domanda che mi pongo è: adesso dov’è? Se la posero anche i primi cristiani, che vissero ancora al tempo degli apostoli, quando Gesù se ne fu andato. Una persona, contattata il giorno dopo la Sua ascensione al Cielo, si poneva la stessa domanda che mi pongo io adesso. Eppure Lui disse: «Io sarò con voi “tutti” i giorni» - notiamo questi incisi del Vangelo, che rappresentano sempre una cosa grande -, «sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». E io sono cristiano perché Egli, Dio, è presente tra noi e sarà presente tutti i giorni fino alla fine del mondo; io sono cristiano per quello, potrei aver commesso mille errori ieri e diecimila delitti, se dico così sono cristiano, avrò bisogno più degli altri della misericordia di Cristo, ma sono cristiano, e uno che non ha commesso delitti, che ha pagato le decime, che ha festeggiato tutte le feste della liturgia ebraica, il fariseo, no!
seguire una presenza
Comunque, Cristo è rimasto presente nel mondo, nella storia, e lo sarà fino alla fine dei secoli attraverso l’unità di coloro che Egli afferra e porta dentro la Sua personalità; e ha creato proprio un gesto, con cui prende l’uomo e lo porta dentro la sua personalità, che si chiama Battesimo, è il sacramento del Battesimo. La Sua presenza è visibile, è tangibile, udibile, come unità dei credenti in Lui, che ha anche storicamente un nome, «Chiesa», che non vuol dire nient’altro che riunione. Ma l’oggettività della Sua presenza è salvata, è assicurata proprio da questa unità, come se essa fosse una tenda, come la tenda sotto cui c’era il mistero di Dio, la tenda eretta in mezzo allo schieramento ebraico: è come una tenda questa unità tra la gente che crede in Lui, che Lo riconosce, che Lui si è afferrato e portato nella sua personalità; è come una tenda questa unità in cui Lui realmente è. E l’Eucarestia non è nient’altro che l’estrema espressione concreta della Sua concreta presenza.
[...] L’unità dei credenti è il volto contingente, perfino banale, di questa presenza divina. E come allora si fece cristiano e si cambiò chi Lo seguì, ora è cristiano e si cambia, si cambia come uomo, chi segue questa unità, a cui Cristo ha dato un segno d’oggettività assoluto, che è il vescovo di Roma, il capo della comunità di Roma, perché tutto, tutto converge a questo - anche un concilio ecumenico, se non ha la firma del vescovo di Roma, non vale, non varrebbe -.
È proprio il contrario di quanto noi ci immaginiamo o amiamo immaginarci: non è un nostro parere quello che ci porta a Dio, non è un nostro modo di pensare, non è un paragone dialettizzato con altri, non è l’esito di uno studio teologico: è il seguire una presenza.



