Sempre più Europa dei precetti, anziché Europa dei popoli (finanziatori). La riforma della politica di coesione dell’Unione europea, un giocattolone da 392 miliardi di euro negli ultimi sei anni, marcia verso uno schema sempre più dirigista: la Commissione «concede» i fondi europei ai singoli Stati membri, che però devono adottare tutta una serie di politiche e di riforme dettate dai burocrati di Bruxelles, eletti da nessuno. Non è altro che il modello paternalista che si è visto in azione con il Mes o con il Pnrr e che si sta tentando di promuovere anche con il nuovo Patto di stabilità. Se passasse questa riforma dei fondi coesione e il nuovo Patto, gli Stati finanziariamente più deboli sarebbero in completa balia della Commissione Ue.
Un campanello d’allarme era suonato lo scorso 14 marzo, quando Elisa Ferreira, ex numero due della Banca centrale portoghese e commissario europeo per la Coesione, buttò lì che la revisione della politica di coesione si sarebbe basata «sulle lezioni apprese da altri strumenti europei, come il Fondo per la ripresa e la resilienza». Un modello ben chiaro, basato sul concetto di «ottenere soldi in cambio di cose da fare». E il meccanismo che sta alla base del Fondo salvatati, meglio noto come Mes, è ancora più esplicito perché i fondi per tamponare una crisi di fiducia improvvisa sono concessi in cambio di un totale appiattimento sulle politiche richieste dalla troika di turno, sempre dimenticando che i miliardi europei arrivano dai versamenti pro quota dei Paesi membri. Insomma, sono soldi che vanno e vengono, ma rischiano di tornare indietro da Bruxelles con una bella lista di compiti a casa.
Ora, nella settima di Pasqua, si cominciano e delineare i contorni di una manovra complessiva per un aumento sempre maggiore dei poteri della Commissione Ue. Il sito Politico.eu ha raccontato di un documento firmato mercoledì scorso dai 27 commissari (tra cui Paolo Gentiloni) sui fondi di coesione in cui si fa esplicitamente riferimento a un criterio di concessione dei sostegni in cambio di ben precise riforme, e non più in funzione di semplici criteri generali stabiliti unanimemente per tutti gli Stati. «C’è un ampio supporto nei confronti di un meccanismo di finanziamento basato su performance», si legge nel documento della Commissione, che presto uscirà allo scoperto con una proposta formale. Proposta che ovviamente andrà sottoposta ai governi dei 27 Paesi membri.
Finora, I fondi per le politiche di coesione europea, che valgono 392 miliardi nel periodo 2021-2027, sono stati utilizzati per aiutare la crescita nelle regioni più povere d’Europa in base a parametri generali. In sostanza, si è trattato di rimborsare i costi di alcuni investimenti, in gran parte legati a politiche ambientali o nuove infrastrutture (come le autostrade) in Paesi come Portogallo, Ungheria o Bulgaria. Ma adesso a Bruxelles ci si prepara già a una possibile espansione dell’Unione a Est, con l’ingresso di nazioni come l’Ucraina, o di altri stati dei Balcani occidentali, come Kosovo e Montenegro. Un’integrazione che richiederebbe di intervenire pesantemente su queste economie, non solo costruendo un ponte o una ferrovia, ma portandole il più possibile verso i livelli medi di ricchezza del resto d’Europa. E allora, ecco l’occasione perfetta per ampliare i poteri della Commissione e introdurre il principio per cui i fondi europei sono concessi solo in cambio di politiche nazionali dettate minuziosamente dalla Commissione.
Ma il contesto in cui nasce questa nuova fuga in avanti non può prescindere dal braccio di ferro andato in scena in questi anni con Polonia e Ungheria, ritenute politicamente non allineate. L’Ue ha tentato di mettere in riga i due governi presentando l’operazione come un richiamo ai principi democratici continentali e bloccando alcuni fondi comunitari. Ma a disposizione ha avuto poche armi, alla fine. E allora ecco che la riforma della politica di coesione potrebbe rendere molto più facile far rigare dritto un singolo governo.
Anche la riforma del Patto di stabilità va in questa direzione. Nell’ultima bozza presentata dalla presidenza di turno belga si spiegava che un Paese potrà chiedere di estendere da quattro a sette anni il periodo di aggiustamento di bilancio «se realizza determinate riforme e investimenti che migliorano la resilienza e il potenziale di crescita, sostengono la sostenibilità di bilancio e se affronta le priorità comuni dell’Unione». E le «priorità» comprendono naturalmente le transizioni verde e digitale, la crescita economica e l’aumento della spesa per la Difesa.
Un Patto di stabilità del genere, insieme con una riforma della politica di coesione che «scambia» soldi europei con provvedimenti precisi delle autorità nazionali, metterebbero gli Stati membri definitivamente in balia della Commissione. Non solo, ma con questo sistema si aggirerebbe anche il baluardo dell’unanimità in Europa, perché di fatto le singole politiche verrebbero dettate al singolo Stato al momento di aprire i cordoni della borsa. Una borsa che però è stata riempita dai singoli Paesi, che si vogliono trasformare in semplici «autorità delegate».




