A Roma lo chiamano «er Palazzaccio». È la prestigiosa sede della Corte di Cassazione. Da qui, negli ultimi giorni, è partito l'uno-due che rischia di ridefinire una delle scelte simbolo del governo gialloblù. Ovvero: la stretta sulle concessioni d'asilo. Sentite l'ultima: i giudici ieri hanno accolto il ricorso di un pakistano, Alì S. All'uomo era stata negata la protezione internazionale. E quindi la possibilità di rimanere in Italia. Le fonti internazionali concordavano: in Pakistan non ci sono conflitti. Alì però non s'è perso d'animo. Ha fatto ricorso nel 2017 contro la commissione prefettizia di Lecce e il tribunale della città salentina. E la Corte suprema gli ha dato ragione: non bastano informazioni generiche. Telegiornali, report, dispacci. Nossignore:bisogna provare che il suddetto Alì, tornando nel suo Paese, non è in pericolo di vita. Vastissimo programma. Insomma: l'onere della prova è ribaltato. Ai magistrati toccherà fare indagini con i fiocchi. Per evitare «formule stereotipate», spiega la Cassazione. Specificando «sulla scorta di quali fonti» abbiano acquisito «informazioni aggiornate sul Paese d'origine». Moltiplicate dunque quest'attività istruttoria per ogni reclamo e avrete il risultato: l'apocalisse. Che rischia di minare le fondamenta del nuovo corso, anti sbarchi e anti trucchetti, voluto dal ministro dell'Interno Matteo Salvini.
Le doglianze di Alì riaprono dunque i giochi migratori. Il suo avvocato, Nicola Lonoce, nel ricorso presentato alla Corte suprema spiegava che l'avversa decisione contro il suo cliente era stata presa «in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili». Come dire: avete dato una sbirciatina alla Lonely Planet. Invece dovevate mandare investigatori, agenti segreti, diplomatici. In sintesi: «Il giudice non ha usato il suo potere d'indagine».
La Cassazione gli ha dato ragione. Di più, ha proprio affondato la lama. Il magistrato «è tenuto a un dovere di cooperazione, che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza ». E fin qui, nulla quaestio. Poi però indica la perigliosa strada: «L'esercizio di poteri-doveri officiosi d'indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata su informazioni aggiornate». Basta faciloneria. Vade retro superficialità. Al bando «formule generiche»: come il richiamo a non meglio specificate «fonti internazionali». E comunque: il caso sarà riesaminato a Lecce.
Ma l'affondo della Suprema corte non è isolato. Quattro giorni fa, dal Palazzaccio era già arrivata un'altra decisione. Simile ratio. Identico tenore. Gli ermellini stavolta hanno accolto il ricorso di un cittadino gay della Costa d'Avorio, minacciato dai parenti. Anche a lui la Commissione territoriale di Crotone aveva negato lo status da rifugiato. Bakayoko Aboubakar S. aveva raccontato di essere musulmano, sposato e padre di due figli. Ma poi, riferisce, scoprono che ha una relazione omosessuale. Il partner viene ucciso «in circostanze non note». «È stato mio padre, l'imam del villaggio» rincara Bakayoko. Che decide di fuggire in Italia.
Il suo straziante racconto non aveva però convinto il giudice. Niente asilo: «In Costa d'Avorio, al contrario di altri Stati africani, l'omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa». Altre sommarie informazioni, stracciate dagli ermellini. Servono adeguate indagini. Non basta che, nei Paesi d'origine, non ci siano leggi discriminatorie e omofobe. Bisogna verificare che le autorità locali diano «adeguata tutela» agli omosessuali. Soprattutto a quelli colpiti da «persecuzioni» familiari.
E così la decisione presa dalla commissione prefettizia, confermata dal tribunale di Catanzaro nel 2014, ribadita dalla corte d'appello del capoluogo calabrese nel 2016, va cassata. «Non è conforme al diritto», spiegano i giudici supremi. Anche qui, viene introdotta una massiccia inversione dell'onere della prova. Non è il migrante a dover dimostrare la bontà della sua versione. Devono essere le autorità a capire cosa diavolo è successo in quel remoto villaggio della Costa d'Avorio. Anche qui: moltiplicate queste complesse attività investigative per tutte le richieste d'asilo. E capirete agevolmente che si rischia la paralisi. Anche perché, come avviene per tutto il genere umano, non è che le storie dei richiedenti asilo trabocchino sempre di sincerità.
Il caso del profugo ivoriano è dunque riaperto. Sarà riesaminato da altri giudici nell'appello bis, ordinato dagli ermellini. Un ping pong giudiziario in cui adesso potrebbero finire centinaia di ricorsi. Un timore che s'incrocia con un dato appena emerso: fino a oggi, nel nostro Paese, non è che siano state accolte poche richieste d'asilo… Tutt'altro.
Gli ultimi dati confermano che l'Italia, l'anno scorso, ha concesso il maggior numero di protezioni internazionali in Europa: a 47.885 migranti. Prima di noi, c'è solo la Germania. Nel dettaglio, lo «status di rifugiato» è stato riconosciuto a 7.315 migranti, la «protezione sussidiaria» a 8.570 persone, la tutela per «ragioni umanitarie» a 31.995 persone.
Tra prima istanza e appello, il 40% delle domande ha avuto esito positivo: percentuale non certo irrisoria. E se gli sbarchi sono diminuiti, lo stesso non si può dire per le richieste d'asilo. Che continuano, in proporzione, ad aumentare. Tendenza che sembra destinata a non fiaccarsi. E su cui potrebbero influire, e non poco, le decisioni prese negli ultimi giorni dagli ermellini. Guerre, carestie, persecuzioni. D'ora in poi va tutto investigato. Servono informazioni di primissima mano. Da reperire anche negli angoli più remoti del Continente nero. Commissioni e giudici rimangano in allerta. Il Palazzaccio non perdona.




