Quando, nel giugno del 2018, Giuseppe Conte si affacciò sulla scena politica, nella testa di una parte d'Italia l'eco delle analisi politiche fu scalzato dal risuonare di una frase, peraltro vagamente profetica: «Questo conte è un personaggio che cambia, che è cattivo ma poi diventa buono, 'sto conte si trasforma, 'sto conte è 'na sinfonia... e invece 'sto conte 'sto cazzo». Era uno degli sfoghi paranoidi di Mariano Giusti, il personaggio psicopatico interpretato da Corrado Guzzanti in Boris, gemma rara nel diadema altrimenti da bigiotteria della produzione televisiva italiana.
Sbarcato sugli schermi di Fox Italia nel lontano 2007, con le sue tre stagioni televisive e il suo film per il cinema del 2011, Boris ha conquistato varie ondate di telespettatori, attestandosi negli anni come fenomeno di culto assoluto, inesauribile miniera di tormentoni, gag, modi di dire, memi, battute. Arrivato da poco su Netflix, Boris è riuscito a piazzarsi tra i prodotti più visti in un servizio di streaming on demand che ha nel suo carnet il meglio delle produzioni milionarie hollywoodiane del momento. Come è stato possibile? Molto semplicemente, il successo di Boris deriva da uno stile comico riconoscibilissimo e originale, che non ha eguali in altre produzioni precedenti o successive. Una comicità che vuole essere ed è intelligente, ma lo è proprio nella misura in cui non si pensa come intellettuale (e, alla fin fine, la battuta che fa più ridere della serie è il tormentone sboccato «bucio de culo!» di Nando Martellone / Massimiliano Bruno, satira dell'ironia terra terra di certi comici da cabaret, certo, ma satira ammiccante e che ne riproduce i medesimi meccanismi).
La serie (vera) si basa sulle vicissitudini di un'altra serie (finta), Occhi del cuore, che va in onda su una non meglio precisata rete di un'emittente che assomiglia molto alla Rai. Il set di Occhi del cuore è quello che un recensore pigro definirebbe «lo specchio del Paese»: la professionalità latita, la lottizzazione è endemica, le ingerenze politiche sono all'ordine del giorno, lo sfruttamento dei lavoratori è la regola. Al talentuoso ma disilluso regista René Ferretti (Francesco Pannofino) il compito quotidiano di «portare a casa la giornata», in un modo o nell'altro. Ogni velleità di redenzione si rivela illusoria: l'esperimento di Medical dimension, serie sperimentale sul modello di E.R., è in realtà un bluff; il film di denuncia basato sul bestseller La casta si tramuta in un cinepanettone sguaiato, Natale con la casta. Dalla cialtronaggine non si esce.
«Boris è una serie militante», dichiararono in un'intervista i suoi tre autori, Luca Vendruscolo, Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, quest'ultimo prematuramente scomparso lo scorso anno dopo lunga malattia. Non militante in chiave strettamente politica, ma nel senso di apertamente critica verso un certo tipo di televisione e verso certi aspetti del Paese che in tale televisione si riflettono. Il che sì, è anche un punto di vista politico, in verità. Eppure Boris ha saputo catturare consensi trasversali, evitando con la leggerezza i più plumbei toni dell'art engagé e concedendosi licenze politicamente scorrette che solo pochi anni dopo appaiono già non più replicabili. Pensiamo alla permalosa comparsa africana che vede il razzismo dappertutto e a cui i membri della troupe fanno battute sull'11 settembre. O al fan spione in carrozzina perculato dal cast perché ha il padre senatore, sì, ma dei Verdi («A catalitico!»). O al personaggio di Guzzanti che, intervistato da una trasmissione della tv del pomeriggio, irride la sua ex compagna «appena uscita dall'ospedale», lasciando intendere un passato di violenze da cui, però, l'attore psicopatico è uscito «assolto con formula piena», come egli stesso scandisce gongolando. Sul set si aggirano giovani precari non pagati, non tutelati, non rispettati e persino malmenati («Ma quali contratti? Passione, ci vuole», spiega loro il direttore di produzione). Eppure il tono non è quello lamentoso delle pellicole «di denuncia».
Certo, il «nemico» è una certa tv conservatrice, fatta di preti buoni, forze dell'ordine e messaggi per le famiglie, quindi presuntamente «di destra». Eppure non ci sono spartiacque antropologici, non ci sono oasi di purezza. E se in Occhi del cuore non si può criticare la Chiesa, nello stesso tempo, però, non si possono rappresentare neanche terroristi islamici: se c'è un attentato, i responsabili saranno separatisti laici di un paesino asiatico immaginario, per non scontentare nessuno. Del resto uno dei più raccomandati della troupe si fa forte della protezione della «lobby gay». Allo stesso modo, il funereo «stagista schiavo» a cui piace fare la «fotografia politica» finirà per godere dei benefici derivanti da un suo zio eletto in Parlamento, ma nel centrodestra. E persino Arianna, l'arcigna assistente alla regia, interpretata da Caterina Guzzanti, ammette di aver votato Berlusconi. In fin dei conti, il vero vilain di Boris è una certa forma vischiosa e inafferrabile di potere, politicamente piuttosto ubiquo, conservatore nel senso che vuole innanzitutto conservare sé stesso, una sorta di versione pecoreccia del deep state, moralmente corruttore a 360 gradi e a tutti i livelli. Una microfisica del potere che coinvolge tutti, in alto come in basso. Una realtà immobile e spacciata, sì, «ma con una strana, colorata, luccicante frociaggine». Parole loro.


