Dopo il massacro nella scuola texana, tutti accusano le leggi lasche sulle pistole. Ma in Stati molto restrittivi, come la California, si sono verificati più eccidi che in quelli libertari. E nell’indagare le cause di certe mattanze, è un errore trascurare il fattore etnico.
Dopo il massacro nella scuola texana, tutti accusano le leggi lasche sulle pistole. Ma in Stati molto restrittivi, come la California, si sono verificati più eccidi che in quelli libertari. E nell’indagare le cause di certe mattanze, è un errore trascurare il fattore etnico.Chi per anni ce l’ha menata con il populismo semplificatore e il mito della complessità, sulla strage di Uvalde, in Texas, si unisce al coro chic del disarmismo un tanto al chilo. È lo stesso manicheismo attivato in era Covid: o sei adepto del vaccino, o sei negazionista. Ed è il meccanismo della stampa con l’elmetto: o «Slava Ukraini», o sei putiniano. In questo caso, la diagnosi prêt-à-porter punta alle armi facili. Beninteso, non quelle spedite a Kiev; quelle liberalizzate dall’irresponsabile governatore repubblicano, Greg Abbott. La terapia? Stroncare la resistenza della National rifle association, la potente lobby che si appiglia al secondo emendamento della Costituzione. Così, gli squinternati non avranno più fucili d’assalto.Ma è proprio così semplice l’equazione? È davvero tutta colpa della destra trumpiana e delle associazioni milionarie che la foraggiano? Per fermare i massacri, basterebbe che, a ciascuno dei 50 Stati Usa, fossero imposte leggi più restrittive? Si badi bene: introdurre ovunque i background checks, cioè le verifiche sulla fedina penale e le condizioni psicologiche degli oplofili, sarebbe di sicuro ragionevole e compatibile con i diritti costituzionali degli americani. Ma che ciò scongiurerebbe i bagni di sangue come quello di mercoledì costato la vita a 19 bambini e due maestre, non è scontato. Basta guardare le statistiche. Negli ultimi 40 anni e nonostante essa vanti le norme più stringenti dell’intera nazione, la California ha contato 23 sparatorie di massa: praticamente, quelle di Florida e Texas messi insieme, a dispetto dei loro regolamenti più laschi. Ancora: l’incidente più sanguinoso della storia si è verificato nel 2017 a Las Vegas (58 vittime, 546 feriti). Eppure, secondo la classificazione di World population review, il corpus legislativo sulle armi del Nevada appartiene alla categoria C+, su una scala che va dai severissimi Stati di fascia A, come il New Jersey, agli Stati «pistoleri» della fascia F, come lo stesso Texas. Che non siano le leggi a scoraggiare i macellai, lo dimostra l’attacco a una scuola più cruento di sempre. Che non è quello, pur sconvolgente, avvenuto l’altro giorno a Uvalde, ma quello di dieci anni fa alla Sand Hook elementary school di Newton, nel Connecticut. Uno Stato di classe A- (la stessa della democratica New York). All’epoca, il ventenne Adam Lanza, l’omicida-suicida della mattanza, aggirò i divieti procurandosi sottobanco un fucile (modello M4) e due pistole (una Glock 20Sf e una Sig Sauer P226). D’altronde, nel triennio 2019-2021, alcuni degli Stati con il maggior numero di decessi causati dai «mass shootings» erano tutt’altro che liberali in tema di armi: tipo l’Illinois (A-), settimo nella macabra classifica dei 50 e messo peggio del Wyoming, Stato di fascia F; o il Maryland (A-), sedicesimo, avanti alla Georgia e al Texas (entrambi F). Il che, sia chiaro, non significa che sia salutare vendere gli AR15 come fossero bistecche - accade nel gun shop dove s’è rifornito Salvador Ramos, l’assassino di Uvalde. Il punto è che non è scontato che a un inasprimento delle leggi corrisponda una diminuzione della violenza; le «armi facili» non sono l’unica causa degli stermini. Nel ragionamento andrebbero incluse altre variabili, a cominciare da quella etnica. È un argomento tabù. Le cifre, però, non possono essere accusate di razzismo. Osserviamo il tragico ranking delle città con il più alto tasso di omicidi. È un dato significativo, anche perché alcune metropoli, per contrastare l’ondata di delitti, hanno introdotto ulteriori restrizioni sul possesso di armi rispetto a quelle previste dalle legislazioni statali: è successo a Chicago, nel già rigido Illinois (classe A-), ventottesima nella lista dei 65 centri più violenti. Ebbene, cosa si evince dall’analisi? Fermiamoci alla «top ten»: le prime dieci città Usa per assassinii. Curiosamente, in otto di esse, i neri sono la maggioranza della popolazione. Nell’ordine: Saint Louis, nel Missouri, la più pericolosa di tutte; Baltimora, nel Maryland, Stato con una legislazione sulle armi da A-; Birmingham, in Alabama; Detroit, nel Michigan; Baton Rouge, in Louisiana; Memphis, nel Tennessee; Cleveland, in Ohio; New Orleans, di nuovo in Louisiana. In un’altra metropoli, Dayton, in Ohio, gli afroamericani sono una minoranza, ma molto consistente: il 43% della popolazione, contro il 52% dei bianchi. In una sola, Kansas City, nel Missouri, i Wasp sono in netta maggioranza, essendo quasi il 60% degli abitanti. Significa che i neri sono la razza di killer? Lungi da noi sostenerlo. Nondimeno, per motivi legati alla povertà e all’emarginazione, hanno una più alta propensione a delinquere e a commettere crimini violenti. Pur essendo il 13,4% della popolazione statunitense totale, certifica l’Fbi, nel 2019 sono stati responsabili del 56% degli omicidi. In definitiva, affrontare la piaga statunitense delle uccisioni richiede un approccio un po’ più articolato della crociata ideologica da salottino borghese. Per la serie: che orrore, la destra sudata e pistolera. Se no si scivolerà in un paradosso: disarmare i «buoni», mentre i cattivi continuano a sparare. Allora, a quale lobby si potrà dare la colpa?
Volodymyr Zelensky (Ansa)
S’incrina il favore di cancellerie e media. Che fingevano che il presidente fosse un santo.
Per troppo tempo ci siamo illusi che la retorica bastasse: Putin era il cattivo della storia e quindi il dibattito si chiudeva già sul nascere, prima che a qualcuno saltasse in testa di ricordare che le intenzioni del cattivo di rifare la Grande Russia erano note e noi, quel cattivo, lo avevamo trasformato nel player energetico pressoché unico. Insomma la politica internazionale è un pochino meno lineare delle linee dritte che tiriamo con il righello della morale.
L’Unesco si appresta a conferire alla cucina italiana il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità. La cosa particolare è che non vengono premiati i piatti – data l’enorme biodiversità della nostra gastronomia – ma il valore culturale della nostra cucina fatta di tradizioni e rapporto con il rurale e il naturale.
Antonio Tajani (Ansa)
Il ministro degli Esteri annuncia il dodicesimo pacchetto: «Comitato parlamentare informato». Poco dopo l’organo smentisce: «Nessuna comunicazione». Salvini insiste: «Sconcerto per la destinazione delle nostre risorse, la priorità è fermare il conflitto».
Non c’è intesa all’interno della maggioranza sulla fornitura di armi a Kiev. Un tema sul quale i tre partiti di centrodestra non si sono ancora mai spaccati nelle circostanze che contano (quindi al momento del voto), trovando sempre una sintesi. Ma se fin qui la convergenza è sempre finita su un sì agli aiuti militari, da qualche settimana la questione sembrerebbe aver preso un’altra piega. Il vicepremier Matteo Salvini riflette a fondo sull’opportunità di inviare nuove forniture: «Mandare aiuti umanitari, militari ed economici per difendere i civili e per aiutare i bambini e sapere che una parte di questi aiuti finisce in ville all’estero, in conti in Svizzera e in gabinetti d’oro, è preoccupante e sconcertate».
La caserma Tenente Francesco Lillo della Guardia di Finanza di Pavia (Ansa)
La confessione di un ex imprenditore getta altre ombre sul «Sistema Pavia»: «Il business serviva agli operatori per coprire attività illecite come il traffico di droga e armi. Mi hanno fatto fuori usando la magistratura. Il mio avversario? Forse un parente di Sempio».
Nel cuore della Lomellina, dove sono maturate le indagini sull’omicidio di Garlasco e dove sono ora concentrate quelle sul «Sistema Pavia», si sarebbe consumata anche una guerra del riso. Uno scontro tra titani europei della produzione, che da sempre viaggia sotto traccia ma che, ora che i riflettori sull’omicidio di Chiara Poggi si sono riaccesi, viene riportata alla luce. A stanare uno dei protagonisti della contesa è stato Andrea Tosatto, scrittore con due lauree (una in Psicologia e una in Filosofia) e una lunghissima serie di ironiche produzioni musicali (e non solo) sul caso Garlasco. Venerdì ha incontrato Fabio Aschei, che definisce «uno con tante cose da raccontare su ciò che succedeva nella Garlasco di Chiara Poggi».






