Sono le Gallerie d’Italia di Torino ad ospitare (sino al 7 settembre 2025) un’affascinante retrospettiva di Olivo Barbieri, fra gli autori più innovativi e originali della fotografia internazionale contemporanea. Esposte oltre 150 immagini, sintesi organica della ricerca che Barbieri ha dedicato alla Cina e alle sue trasformazioni architettoniche, urbanistiche e culturali in un arco temporale lungo oltre trent’anni, dai fatti di Piazza Tienanmen al 2019.
Fra i più importanti fotografi (o forse è meglio definirlo « artisti/fotografi») contemporanei , che al pari di « Ghirri, Basilico, Cresci, Guidi, ha segnato un prima e un dopo nella storia della fotografia italiana », Olivo Barbieri ha un’impronta stilistica tutta sua, unica e inconfondibile, che gli deriva - per sua stessa ammissione - anche da quel suo pensare che la fotografia non è « il ritratto preciso di qualsiasi cosa. Perché se non metti la didascalia fai abbastanza fatica a capire se un albero è qui, in Nigeria o al polo Nord».
Fotografo «dal doppio sguardo», la ricerca di Barbieri si concentra tutta sul paesaggio, quello vero e quello immaginato, sempre al limite fra il vero e la rappresentazione del vero, fra realtà e immaginazione. Senza perdere mai di vista il mondo reale, quello universalmente percepito, Barbieri lo reinterpreta con potenti interventi sul colore, con tempi di posa lunghissimi, con un ampio uso del «fuoco selettivo » e della luce artificiale. Il risultato sono immagini « doppie», coincidenti, immagini mentali che si sovrappongono a quelle reali. Per Barbieri la fotografia è innanzitutto uno strumento di conoscenza, una riflessione sull’atto stesso del vedere, un modo di pensare per immagini. Una « filosofia» apparentemente complessa, come molti dei suoi lavori, che colpiscono soprattutto per la loro luce straordinaria e per il loro caleidoscopio di colori: fotografie che paradossalmente sembrano non avere soggetti, perché il soggetto è la fotografia stessa.
Per capire Olivo Barbieri è necessario riflettere sui suoi lavori e la bella mostra in corso (sino al 7 settembre) alle Gallerie d’Italia di Torino può essere l’occasione buona, visto che, come ha sottolineato il curatore, Corrado Benigni, « racchiude tutte le caratteristiche stilistiche di questo grande fotografo», dalle riprese dall’elicottero alla miniaturizzazione, passando - come ho già sottolineato - per il fuoco selettivo e la luce artificiale. Focus della mostra è la Cina, Paese in cui Barbieri è tornato ripetutamente per 30 anni consecutivi: dai tragici fatti di Piazza Tienanmen, nel 1989, sino al 2019, poco prima dell’altrettanto tragica epidemia di Covid. Un trentennio di cambiamenti enormi, profondi e radicali, di cui Barbieri è stato testimone diretto e che ha raccontato attraverso gli stravolgenti e rapidi mutamenti di architetture e paesaggi.
La Mostra
Su pareti di un bianco quasi fosforescente, a spiccare trittici di grandi dimensioni, polittici e due grandi quadrerie, per un totale di oltre 130 opere. Fra tanti bagliori, difficile scegliere quale sia l’opera più bella o quella più significativa: questa esposizione, come ha giustamente osservato il curatore, «va letta come se fosse un mosaico, in cui ogni tessera è importante, anzi, fondamentale, per il tutto ». Tuttavia, è innegabile che a colpire particolarmente sia « Harbin», la rappresentazione «alla manieri di Barbieri » di una città nel Nord della Cina: un’opera che letteralmente strega, non solo per le sue dimensioni e i suoi colori, ma perché è un vero e proprio concentrato delle tecniche e dello stile dell’artista. In Harbin c’è tutto: la verticalità, il fuoco selettivo, la post-produzione, il ribaltamento del positivo in negativo, il colore. Harbin è una realtà «ricostruita» assemblando oltre 50 immagini vere, è l’ immaginario e il reale, quello che vediamo e quello che vorremmo vedere : Harbin è « l’opera omnia » di Barbieri, l’artista dal doppio sguardo…


