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2023-07-18
Europa e Usa: le spine degli accordi di Tunisi
Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorga Meloni, in occasione della firma del Memorandum di intesa tra Ue e Tunisia (Ansa)
Il memorandum d’intesa dell’altro ieri tra l’Ue e la Tunisia costituisce una svolta significativa. Va subito detto che, per il governo italiano, questo documento rappresenta un passo avanti, soprattutto se si tiene conto del fatto che, fino a pochi mesi fa, le alte sfere di Bruxelles non sembravano granché interessate all’urgente dossier tunisino. Il lavoro di pressing attuato dal nostro esecutivo ha, quindi, fatto sì che la Commissione europea si accorgesse pienamente del problema e iniziasse finalmente a muoversi per cercare di risolverlo. Non a caso, la politica estera del governo Meloni ha comprensibilmente posto la stabilizzazione del Nord Africa tra le sue priorità. Se la strada intrapresa sulla Tunisia è quella giusta, ciò non significa che sia del tutto in discesa.
Innanzitutto, gran parte degli aiuti finanziari europei (900 milioni di euro) continua a essere subordinata all’erogazione del prestito del Fmi da 1,9 miliardi di dollari: un prestito che è stato congelato in attesa che il governo di Tunisi attui delle riforme che il presidente tunisino, Kais Saied, non sembra minimamente intenzionato a varare. Si tratta di uno scoglio significativo, visto che la stabilizzazione del Paese nordafricano è particolarmente urgente. Il rischio è, infatti, che una bomba migratoria possa abbattersi sulle nostre coste nel breve termine. Sotto questo aspetto, sarebbe utile che l’Ue esercitasse delle pressioni diplomatiche sull’amministrazione Biden, per convincerla ad abbandonare le sue rigidità nei confronti di Saied. È vero che l’attuale presidente americano deve affrontare grattacapi di politica interna, visto che alcuni settori del Partito democratico nutrono ostilità verso il capo di Stato tunisino. Tuttavia l’Ue avrebbe degli ottimi argomenti per persuadere Joe Biden a favorire il prestito del Fmi.
L’eccessiva rigidità del Fondo rischia, infatti, di spingere progressivamente la Tunisia tra le braccia di Russia e Cina: a febbraio Tunisi ha incrementato l’import di prodotti petroliferi russi, mentre Pechino si è recentemente detta favorevole a includere la Tunisia nei Brics. È, dunque, chiaro che, qualora l’influenza sino-russa si rafforzasse sul Paese nordafricano, ciò rischierebbe di mettere sotto pressione il fianco meridionale dell’Alleanza atlantica. Biden dovrebbe, quindi, capire che si pone un nodo geopolitico di dimensioni rilevanti: un nodo di cui il presidente americano dovrebbe rendersi conto a maggior ragione dopo il recente vertice Nato di Vilnius.
Non solo. Oltre a stabilizzare economicamente la Tunisia, Bruxelles e Washington dovrebbero anche coordinarsi per esercitare delle pressioni politico-diplomatiche sullo stesso Saied. Che quest’ultimo sia un leader controverso, è fuori discussione. Si nutrono, inoltre, dubbi su di lui soprattutto in materia di contrasto all’immigrazione clandestina. Un tema, questo, rispetto a cui l’Ue, sulla base del memorandum, mobiliterà 105 milioni di euro, mentre la guardia costiera tunisina verrà rafforzata. Tuttavia, secondo fonti comunitarie, Saied si sarebbe impegnato soltanto nel rimpatrio dei migranti tunisini e non di quelli subsahariani. Inoltre, nel recente passato, il presidente della Tunisia ha espresso delle posizioni ambigue sulla questione migratoria: posizioni che hanno indotto a pensare che il diretto interessato voglia usare questo dossier come strumento di pressione sull’Ue (secondo dinamiche già viste in passato con Recep Tayyip Erdogan). È, dunque, per questo che, di pari passo alla stabilizzazione economica del Paese, Bruxelles e Washington dovrebbero portare avanti un’azione politica combinata che impedisca a Saied eventuali comportamenti ricattatori nei confronti dell’Occidente.
Il punto alla fine risiede nel fatto che, per quanto assai controverso, il presidente tunisino è un interlocutore ineludibile. Ricordiamo sempre che l’alternativa al suo potere è Ennahda: movimento islamista, gravitante attorno alla galassia dei Fratelli musulmani, che intrattiene rapporti con Hamas. Non parliamo, insomma, di una garanzia di stabilità e di affidabilità né di un partito liberaldemocratico. «Non possiamo abbandonare la Tunisia, altrimenti rischiamo di avere i Fratelli musulmani che rischiano di creare instabilità», aveva non a caso detto a marzo il titolare della Farnesina, Antonio Tajani.
Bruxelles dovrebbe, insomma, muoversi con un approccio geopolitico. Al di là dell’enfasi posta domenica da Ursula von der Leyen sugli accordi tra Ue e Tunisi in materia di ambientalismo ed Erasmus, con Saied bisogna trattare pragmaticamente, mettendo in campo tutti gli strumenti politico-diplomatici necessari per evitare di farsi mettere sotto pressione da lui. Con questi interlocutori, controversi ma ineludibili, bisogna negoziare in modo serrato e finanche spregiudicato: le verniciate green e politicamente corrette servono a poco, se non a indebolire la nostra posizione negoziale.
O l’Ue comincia finalmente a capirlo o continuerà a subire gli eventi anziché cercare di dirigerli. Ma, per essere incisiva, quella stessa Ue ha bisogno di una visione geopolitica chiara e, soprattutto, di una riforma della propria governance. Bisognerà, infatti, vedere se tutti i 27 Paesi membri accetteranno il memorandum di domenica. Il premier olandese, Mark Rutte, si è detto «fiducioso» che ciò avvenga, ma non è scontato. Qualcuno - vedi la Francia - potrebbe mettersi di mezzo solo per fare uno sgambetto politico a Giorgia Meloni.
Ecco che, dunque, il complicato dossier tunisino sta facendo riemergere due problemi rilevanti per l’Occidente: la fiacca leadership internazionale di Biden e un sistema inadeguato di governance europea. Sul Mediterraneo, Washington e Bruxelles dovrebbero seguire la strada indicata oggi da Roma. Speriamo lo facciano. In fretta e fino in fondo. Senza miopie o tentennamenti.
A sindaci e governatori di sinistra non interessa fermare gli sbarchi
Che il sistema dell’accoglienza, in Italia, non stia funzionando a dovere lo certificano i governatori delle Regioni. La macro divisione che vuole quelli di centrosinistra favorevoli ad avere ancora più autonomia nel decidere le collocazioni e quelli di centrodestra che si lamentano del sistema di accoglienza diffusa in essere oggi è vera, ma fino a un certo punto. Perché ci sono distinguo, aperture o semi chiusure, attacchi fratricidi che contribuiscono a rendere ancor più caotica, se possibile, la situazione mentre anche ieri, sulle coste siciliane, sono arrivate 547 persone in 15 sbarchi differenti.
A far deflagrare le polemiche è stata una nota, attribuita ad «ambienti dei governatori», diffusa dalle agenzie proprio mentre Giorgia Meloni si accingeva a firmare gli accordi con la Tunisia: «Sulla collocazione dei migranti nei territori bisogna evitare decisioni calate dall’alto». Il Viminale e il commissario straordinario sul tema, Valerio Valenti, hanno cercato subito di gettare benzina sul fuoco. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, temendo uno smottamento nella catena istituzionale, ha, però, voluto sentire direttamente il presidente della Conferenza delle Regioni, il friulano Massimiliano Fedriga. Che al titolare del Viminale e in diretta tv a La7, a L’aria che tira, ha smentito di essere autore dell’attacco al governo. Salvo poi sganciare la bomba: «L’accoglienza diffusa è un fallimento, impedisce qualsiasi tipo di controllo e sparpaglia sui territori migliaia di persone», ha detto Fedriga. Sembra quasi di sentire parlare Giorgio Gori, il sindaco Pd-chic di Bergamo, che nei giorni scorsi ha twittato: «L’attuale governo è incapace di gestire i flussi migratori, di organizzare un’accoglienza dignitosa, di attivare politiche di formazione e di integrazione. Qui siamo allo sbando: sbarchi fuori controllo e nessuna capacità di governare il fenomeno. Tutto si scarica sui territori, alimentando la “fabbrica di clandestini” che produce sfruttamento, degrado e insicurezza».
Vuoi non mettere, alla fine, un attacco a Elly Schlein? No, infatti: «Ma perché il Pd non dice che gli sbarchi sono più che raddoppiati? Questo deve dire con forza il Pd». Ma non lo fa: il diritto a non essere invasi deve essere uno di quelli non ricompreso nel pantheon arcobaleno del s egretario dem. Che il fronte più caldo sulla questione sia quello dei governatori leghisti è plasticamente rappresentato dalle parole usate da Luca Zaia: «L’accordo con la Tunisia non basta ma aiuta, almeno questi accordi danno un minimo di visione». E poi lancia il modello Veneto dell’accoglienza: «Abbiamo proposto un protocollo che prevede una cabina di regia nella quale convergano Regione e Anci. È stato approvato dal ministero degli Interni. Se lasciamo fare alle prefetture in autonomia qualche tendopoli da qualche parte la faranno. Poi, se qualcuno mi spiega come possa tutta l’Africa starci in Italia, e questa parte di Africa starci in Veneto, allora gli diamo il premio Nobel».
Posizione simile, anche se con toni più concilianti, è stata presa dal governatore del Piemonte, Alberto Cirio (Fi). Resta, nonostante tutto, un accanito fan dell’immigrazione, con una spruzzata cerchiobottista alla Gori che fa molto law&order, il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Intervenendo a una Festa dell’Unità, lo sfidante sconfitto da Schlein ha detto: «Oggi arriva in Italia un numero di migranti cinque volte superiore rispetto a cinque anni fa. Noi facciamo pochi figli, non ci siamo occupati di natalità è anche questo è un tema. Sistema pensionistico, sanità e scuola pubblica si reggono sui contributi dei lavoratori attivi che, però, stanno diminuendo. L’immigrazione deve essere continua ma regolata, controllata, di modo da dare opportunità a tutti. Chi delinque deve essere punito, su questo non ci piove».
Un sì convinto all’immigrazione arriva anche dal governatore della Toscana, Eugenio Giani: «Il sistema toscano avrà capacità di accoglienza e integrazione ma vogliamo criteri giusti. L’attribuzione del numero di migranti sulla base della superficie anziché della popolazione è assolutamente sbagliata».
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Per essere efficaci, Washington deve sbloccare il prestito Fmi da 1,9 miliardi di dollari per allontanare Kais Saied da Cina e Russia. E poi serve che tutti i 27 Paesi membri dell’Unione approvino il memorandum: qualcuno (Francia?) può fare uno sgambetto.Segnale all’esecutivo dalle Regioni del Nord: «L’accoglienza diffusa non funziona».Lo speciale contiene due articoli.Il memorandum d’intesa dell’altro ieri tra l’Ue e la Tunisia costituisce una svolta significativa. Va subito detto che, per il governo italiano, questo documento rappresenta un passo avanti, soprattutto se si tiene conto del fatto che, fino a pochi mesi fa, le alte sfere di Bruxelles non sembravano granché interessate all’urgente dossier tunisino. Il lavoro di pressing attuato dal nostro esecutivo ha, quindi, fatto sì che la Commissione europea si accorgesse pienamente del problema e iniziasse finalmente a muoversi per cercare di risolverlo. Non a caso, la politica estera del governo Meloni ha comprensibilmente posto la stabilizzazione del Nord Africa tra le sue priorità. Se la strada intrapresa sulla Tunisia è quella giusta, ciò non significa che sia del tutto in discesa.Innanzitutto, gran parte degli aiuti finanziari europei (900 milioni di euro) continua a essere subordinata all’erogazione del prestito del Fmi da 1,9 miliardi di dollari: un prestito che è stato congelato in attesa che il governo di Tunisi attui delle riforme che il presidente tunisino, Kais Saied, non sembra minimamente intenzionato a varare. Si tratta di uno scoglio significativo, visto che la stabilizzazione del Paese nordafricano è particolarmente urgente. Il rischio è, infatti, che una bomba migratoria possa abbattersi sulle nostre coste nel breve termine. Sotto questo aspetto, sarebbe utile che l’Ue esercitasse delle pressioni diplomatiche sull’amministrazione Biden, per convincerla ad abbandonare le sue rigidità nei confronti di Saied. È vero che l’attuale presidente americano deve affrontare grattacapi di politica interna, visto che alcuni settori del Partito democratico nutrono ostilità verso il capo di Stato tunisino. Tuttavia l’Ue avrebbe degli ottimi argomenti per persuadere Joe Biden a favorire il prestito del Fmi.L’eccessiva rigidità del Fondo rischia, infatti, di spingere progressivamente la Tunisia tra le braccia di Russia e Cina: a febbraio Tunisi ha incrementato l’import di prodotti petroliferi russi, mentre Pechino si è recentemente detta favorevole a includere la Tunisia nei Brics. È, dunque, chiaro che, qualora l’influenza sino-russa si rafforzasse sul Paese nordafricano, ciò rischierebbe di mettere sotto pressione il fianco meridionale dell’Alleanza atlantica. Biden dovrebbe, quindi, capire che si pone un nodo geopolitico di dimensioni rilevanti: un nodo di cui il presidente americano dovrebbe rendersi conto a maggior ragione dopo il recente vertice Nato di Vilnius.Non solo. Oltre a stabilizzare economicamente la Tunisia, Bruxelles e Washington dovrebbero anche coordinarsi per esercitare delle pressioni politico-diplomatiche sullo stesso Saied. Che quest’ultimo sia un leader controverso, è fuori discussione. Si nutrono, inoltre, dubbi su di lui soprattutto in materia di contrasto all’immigrazione clandestina. Un tema, questo, rispetto a cui l’Ue, sulla base del memorandum, mobiliterà 105 milioni di euro, mentre la guardia costiera tunisina verrà rafforzata. Tuttavia, secondo fonti comunitarie, Saied si sarebbe impegnato soltanto nel rimpatrio dei migranti tunisini e non di quelli subsahariani. Inoltre, nel recente passato, il presidente della Tunisia ha espresso delle posizioni ambigue sulla questione migratoria: posizioni che hanno indotto a pensare che il diretto interessato voglia usare questo dossier come strumento di pressione sull’Ue (secondo dinamiche già viste in passato con Recep Tayyip Erdogan). È, dunque, per questo che, di pari passo alla stabilizzazione economica del Paese, Bruxelles e Washington dovrebbero portare avanti un’azione politica combinata che impedisca a Saied eventuali comportamenti ricattatori nei confronti dell’Occidente. Il punto alla fine risiede nel fatto che, per quanto assai controverso, il presidente tunisino è un interlocutore ineludibile. Ricordiamo sempre che l’alternativa al suo potere è Ennahda: movimento islamista, gravitante attorno alla galassia dei Fratelli musulmani, che intrattiene rapporti con Hamas. Non parliamo, insomma, di una garanzia di stabilità e di affidabilità né di un partito liberaldemocratico. «Non possiamo abbandonare la Tunisia, altrimenti rischiamo di avere i Fratelli musulmani che rischiano di creare instabilità», aveva non a caso detto a marzo il titolare della Farnesina, Antonio Tajani.Bruxelles dovrebbe, insomma, muoversi con un approccio geopolitico. Al di là dell’enfasi posta domenica da Ursula von der Leyen sugli accordi tra Ue e Tunisi in materia di ambientalismo ed Erasmus, con Saied bisogna trattare pragmaticamente, mettendo in campo tutti gli strumenti politico-diplomatici necessari per evitare di farsi mettere sotto pressione da lui. Con questi interlocutori, controversi ma ineludibili, bisogna negoziare in modo serrato e finanche spregiudicato: le verniciate green e politicamente corrette servono a poco, se non a indebolire la nostra posizione negoziale.O l’Ue comincia finalmente a capirlo o continuerà a subire gli eventi anziché cercare di dirigerli. Ma, per essere incisiva, quella stessa Ue ha bisogno di una visione geopolitica chiara e, soprattutto, di una riforma della propria governance. Bisognerà, infatti, vedere se tutti i 27 Paesi membri accetteranno il memorandum di domenica. Il premier olandese, Mark Rutte, si è detto «fiducioso» che ciò avvenga, ma non è scontato. Qualcuno - vedi la Francia - potrebbe mettersi di mezzo solo per fare uno sgambetto politico a Giorgia Meloni.Ecco che, dunque, il complicato dossier tunisino sta facendo riemergere due problemi rilevanti per l’Occidente: la fiacca leadership internazionale di Biden e un sistema inadeguato di governance europea. Sul Mediterraneo, Washington e Bruxelles dovrebbero seguire la strada indicata oggi da Roma. Speriamo lo facciano. In fretta e fino in fondo. Senza miopie o tentennamenti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/europa-usa-spine-accordi-tunisi-2662292238.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-sindaci-e-governatori-di-sinistra-non-interessa-fermare-gli-sbarchi" data-post-id="2662292238" data-published-at="1689651297" data-use-pagination="False"> A sindaci e governatori di sinistra non interessa fermare gli sbarchi Che il sistema dell’accoglienza, in Italia, non stia funzionando a dovere lo certificano i governatori delle Regioni. La macro divisione che vuole quelli di centrosinistra favorevoli ad avere ancora più autonomia nel decidere le collocazioni e quelli di centrodestra che si lamentano del sistema di accoglienza diffusa in essere oggi è vera, ma fino a un certo punto. Perché ci sono distinguo, aperture o semi chiusure, attacchi fratricidi che contribuiscono a rendere ancor più caotica, se possibile, la situazione mentre anche ieri, sulle coste siciliane, sono arrivate 547 persone in 15 sbarchi differenti. A far deflagrare le polemiche è stata una nota, attribuita ad «ambienti dei governatori», diffusa dalle agenzie proprio mentre Giorgia Meloni si accingeva a firmare gli accordi con la Tunisia: «Sulla collocazione dei migranti nei territori bisogna evitare decisioni calate dall’alto». Il Viminale e il commissario straordinario sul tema, Valerio Valenti, hanno cercato subito di gettare benzina sul fuoco. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, temendo uno smottamento nella catena istituzionale, ha, però, voluto sentire direttamente il presidente della Conferenza delle Regioni, il friulano Massimiliano Fedriga. Che al titolare del Viminale e in diretta tv a La7, a L’aria che tira, ha smentito di essere autore dell’attacco al governo. Salvo poi sganciare la bomba: «L’accoglienza diffusa è un fallimento, impedisce qualsiasi tipo di controllo e sparpaglia sui territori migliaia di persone», ha detto Fedriga. Sembra quasi di sentire parlare Giorgio Gori, il sindaco Pd-chic di Bergamo, che nei giorni scorsi ha twittato: «L’attuale governo è incapace di gestire i flussi migratori, di organizzare un’accoglienza dignitosa, di attivare politiche di formazione e di integrazione. Qui siamo allo sbando: sbarchi fuori controllo e nessuna capacità di governare il fenomeno. Tutto si scarica sui territori, alimentando la “fabbrica di clandestini” che produce sfruttamento, degrado e insicurezza». Vuoi non mettere, alla fine, un attacco a Elly Schlein? No, infatti: «Ma perché il Pd non dice che gli sbarchi sono più che raddoppiati? Questo deve dire con forza il Pd». Ma non lo fa: il diritto a non essere invasi deve essere uno di quelli non ricompreso nel pantheon arcobaleno del s egretario dem. Che il fronte più caldo sulla questione sia quello dei governatori leghisti è plasticamente rappresentato dalle parole usate da Luca Zaia: «L’accordo con la Tunisia non basta ma aiuta, almeno questi accordi danno un minimo di visione». E poi lancia il modello Veneto dell’accoglienza: «Abbiamo proposto un protocollo che prevede una cabina di regia nella quale convergano Regione e Anci. È stato approvato dal ministero degli Interni. Se lasciamo fare alle prefetture in autonomia qualche tendopoli da qualche parte la faranno. Poi, se qualcuno mi spiega come possa tutta l’Africa starci in Italia, e questa parte di Africa starci in Veneto, allora gli diamo il premio Nobel». Posizione simile, anche se con toni più concilianti, è stata presa dal governatore del Piemonte, Alberto Cirio (Fi). Resta, nonostante tutto, un accanito fan dell’immigrazione, con una spruzzata cerchiobottista alla Gori che fa molto law&order, il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Intervenendo a una Festa dell’Unità, lo sfidante sconfitto da Schlein ha detto: «Oggi arriva in Italia un numero di migranti cinque volte superiore rispetto a cinque anni fa. Noi facciamo pochi figli, non ci siamo occupati di natalità è anche questo è un tema. Sistema pensionistico, sanità e scuola pubblica si reggono sui contributi dei lavoratori attivi che, però, stanno diminuendo. L’immigrazione deve essere continua ma regolata, controllata, di modo da dare opportunità a tutti. Chi delinque deve essere punito, su questo non ci piove». Un sì convinto all’immigrazione arriva anche dal governatore della Toscana, Eugenio Giani: «Il sistema toscano avrà capacità di accoglienza e integrazione ma vogliamo criteri giusti. L’attribuzione del numero di migranti sulla base della superficie anziché della popolazione è assolutamente sbagliata».
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Un’associazione che non ha mai fatto del male a nessuno e che porta avanti un’agenda pro life attraverso tre direttrici fondamentali: fare pressione politica affinché anche questa visione del mondo venga accolta dalle istituzioni internazionali; educare i giovani al rispetto della vita dal concepimento alla morte naturale; e, infine, promuovere attività culturali, come ad esempio scambi internazionali ed Erasmus, affinché i giovani si sviluppino integralmente attraverso il bello.
In passato, la World youth alliance ha ottenuto, come è giusto che sia, diversi finanziamenti da parte dell’Unione europea (circa 1,2 milioni) senza che nessuno dicesse alcunché. Ora però qualcosa è cambiato. La World youth alliance, infatti, ha partecipato ad alcuni bandi europei ottenendo oltre 400.000 euro di fondi per organizzare le proprie attività. La normalità, insomma. Poi però sono arrivate tre interrogazioni da parte dei partiti di sinistra, che hanno evidenziato come gli ideali portati avanti da questa associazione siano contrari (secondo loro) all’articolo 14 dell’Accordo di sovvenzione, secondo cui «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società in cui prevalgono il pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la parità tra donne e uomini».
Il punto, però, è che la World youth alliance non ha mai contraddetto questi valori, ma ha semplicemente portato avanti una visione pro life, come è lecito che sia, e sostenuto che si può non abortire. Che c’è sempre speranza. Che la vita, di chiunque essa sia, va sempre difesa. Che esistono solamente due sessi. Posizioni che, secondo la sinistra, sarebbero contrarie ai valori dell’Ue.
Come nota giustamente l’eurodeputato Paolo Inselvini (Fdi) da cui è partita la denuncia dopo che la World youth alliance si è rivolta a lui affidandogli i documenti, le interrogazioni presentate fanno riferimento a documenti politici che non esistevano nel momento in cui è stata fatta la richiesta di fondi e che ora vengono utilizzati in modo retroattivo. Come, per esempio, la Strategia europea Lgbtiq 2026-2030, che è stata adottata lo scorso ottobre, e la Roadmap sui diritti delle donne, che è stata comunicata in Commissione nel marzo del 2025. Documenti che ora vengono utilizzati come clave per togliere i fondi.
Secondo Inselvini, che a breve invierà una lettera in cui chiederà chiarimenti alla Commissione europea, «si stanno costruendo “nuovi valori europei” non sulla base dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali o della tradizione giuridica europea, ma sulla base di orientamenti politici tutt’altro che condivisi dai cittadini europei».
Ma non solo. In questo modo, prosegue l’eurodeputato, «i fondi vanno sempre agli stessi. Questa vicenda, infatti, si inserisce in un quadro più ampio: fondi e spazi istituzionali sembrano essere accessibili solo a chi promuove l’agenda progressista. Basta guardare alle priorità politiche ed economiche: 3,6 miliardi trovati senza esitazione per la nuova strategia Lgbtq+, mentre le realtà che non si allineano vengono marginalizzate, ignorate o addirittura sanzionate. L’Europa non può diventare un sistema di fidelizzazione ideologica in cui si accede a risorse pubbliche solo a condizione di adottare un certo vocabolario e una certa visione del mondo».
Perché è proprio questo che è diventata oggi l’Ue: un ente che punisce chiunque osi pensarla diversamente. Un’organizzazione che è diventata il megafono delle minoranze, soprattutto quelle Lgbt, e che non ammette alcuna contraddizione. Chi osa esprimere dubbi, o semplicemente il proprio pensiero, viene punito. Via i fondi alla Fafce e alla World youth alliance, quindi.
Il tutto in nome del rispetto per le opinioni degli altri. «Se oggi si arriva a censire, controllare e punire un’organizzazione non per quello che fa, ma per quello che crede, allora significa che qualcosa si è rotto», conclude Inselvini.
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(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Il sindaco di New York Zohran Mamdani (Ansa)
L’uomo che ha portato il comunismo nel cuore di New York, sfruttando anche il phisique du rôle terzomondista e una certa retorica populista, ha già annunciato che lascerà il suo modesto appartamento con affitto controllato per la lussuosa residenza ufficiale del sindaco a Manhattan. La decisione è stata annunciata ieri con un post su Instagram, insieme a una foto di una replica in miniatura della villa. «La settimana scorsa abbiamo visto la nostra nuova casa!», ha detto.
Il democratico, che entrerà in carica il primo gennaio, si trasferirà nello stesso mese alla Gracie Mansion, una casa di 1.000 metri quadrati costruita nel 1799 nell’elegante Upper East Side, sulle rive dell’East River, immersa in un parco verdeggiante, che divenne la residenza ufficiale del sindaco nel 1942. Un atto dovuto? Non proprio. Non vi è infatti alcun obbligo per i sindaci di risiedere lì, sebbene la maggior parte di loro abbia risieduto nella villa, con la notevole eccezione di Michael Bloomberg (2002-2013). In una dichiarazione, Mamdani ha affermato che lui e sua moglie, l’illustratrice Rama Duwaji, hanno preso questa decisione principalmente per motivi di «sicurezza» e che stanno «lasciando a malincuore il bilocale» che la coppia condivide ad Astoria, un quartiere popolare del Queens con una numerosa popolazione di immigrati.
«Ci mancheranno molte cose del nostro appartamento di Astoria. Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate risuonare attraverso le pareti dell’appartamento», ha scritto, con una retorica strappa like.
Mamdani ha fatto del costo della vita un tema centrale della sua campagna, promettendo in particolare alloggi più accessibili. Il fatto che lui stesso vivesse in uno di questi appartamenti, al costo di 2.300 dollari al mese, ha attirato le critiche dei suoi oppositori, che ritengono che il suo stipendio da 142.000 dollari da membro dell’Assemblea dello Stato di New York e il reddito della moglie permettessero alla coppia di stabilirsi in un appartamento al di fuori di tale quadro normativo. «Anche quando non vivrò più ad Astoria, Astoria continuerà a vivere in me e nel lavoro che svolgo», ha promesso. Non ha infine rinunciato a un altro sermone sociale da campagna elettorale: «La mia priorità, da sempre, è servire le persone che chiamano questa città casa. Sarò il sindaco dei cuochi di Steinway, dei bambini che si dondolano al Dutch Kills Playground, dei passeggeri dell’autobus che aspettano il Q101». Solo che da adesso li vedrà col binocolo dal suo ampio terrazzo.
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