2022-04-17
Draghi, via il gas russo ma rientra dalla finestra
Grottesco viaggio in Congo per sostituire le forniture di Vladimir Putin con quelle della joint venture Eni e russi di Lukoil

LaPresse
La missione partirà la mattina di mercoledì 20 aprile, quando il premier italiano Mario Draghi atterrerà nella Repubblica dell'Angola per incontrare il presidente Joao Manuel Gonçalves Lourenço. Il mattino dopo altra tappa, questa volta a Brazzaville, in Congo, dove è previsto il faccia a faccia con il presidente della Repubblica, Denis Sassou N'Guesso. Il viaggio ha un solo motivo: ottenere più gas dai paesi africani per cercare di sostituire prima possibile le forniture della Russia di Vladimir Putin. Draghi, come gli avrà spiegato il numero uno dell'Eni Claudio Descalzi che conosce a memoria ogni angolo dell'Africa, è praticamente certo di portare a casa un risultato.
Chissà però se è stato avvertito di quella che potrebbe trasformarsi in una vera e propria beffa: per cacciare dalla porta il gas russo l'Italia userà quello africano, facendo però rientrare in qualche modo i russi dalla finestra. E' dal Congo infatti che in tempi relativamente brevi l'Italia potrà ottenere un aumento delle importazioni di gas naturale liquefatto grazie al permesso di estrazione Marine XII ottenuto da Eni al largo nelle acque territoriali congolesi (si stimano estraibili dal giacimento 1,3 miliardi di barili di petrolio e 6 trilioni di piedi cubi di gas naturale).
Giusto due mesi fa il gruppo guidato da Descalzi ha firmato un accordo con il miliardario statunitense Wes Edens (ex Lehman Brothers ed ex BlackRock) e la sua società newyorchese NFE (New Fortress Energy) per portare in Congo un impianto di liquefazione del gas galleggiante in grado di produrre quasi una tonnellata e mezza di gas liquefatto all'anno. Per favorire l'operazione il parlamento congolese ha varato una nuova legge firmata dal presidente N'Guesso il 26 gennaio scorso e pubblicata sul bollettino ufficiale ai primi di marzo, dove si prevede che fino a 10 milioni di tonnellate annue di produzione il Congo riceverà in cambio il 20% dei profitti, che diventeranno il 40% sopra i 40 milioni di tonnellate annue. Il resto dei profitti sarà diviso da Eni con i due soci che lavorano all'estrazione: la SNPC (società statale del petrolio congolese) che ha il 10% del permesso, e la russa Lukoil con il suo 25%.

Quindi il gas che dovrebbe sostituire per l'Italia le importazioni dalla Russia sarà estratto da Eni in Congo a braccetto con il più grande colosso russo dopo Gazprom. Vero che al momento né Lukoil né l'oligarca che presiede il gruppo- Vagit Alekperov- figurano nelle varie liste occidentali sulle sanzioni alla Russia, ma è evidente che se Ue e Italia decidono di chiudere le porte a petrolio e gas di Mosca, è difficile non farlo con il primo gruppo petrolifero e secondo del gas in Russia. Gli intrecci con Lukoil per altro sono notevoli e favoriti anche dal passaggio avvenuto due anni fa al gruppo russo dell'allora numero due dell'Eni, Antonio Vella. Ma strettissimo è pure il rapporto fra Lukoil e le massime autorità del Congo, compreso lo stesso presidente che giovedì prossimo riceverà Draghi. Fu infatti durante una visita di N'Guesso a Mosca a fine maggio del 2019 che fu firmata una lettera di intenti fra SNPC e Lukoil per l'ingresso da protagonista di quest'ultima nel mercato congolese nel settore degli idrocarburi e del gas. E l'intesa è stata rafforzata nel maggio 2021 grazie alla missione a Brazaville del numero due di Lukoil, Ivan Romanosky.
Non ci sono partnership russe in Angola, dove l'Eni è presente da tempo e ha lavorato a un lungo processo di fusione delle attività in loco con quelle di Britich Petroleum costituendo la joint venture Azule Energy, grazie alla consulenza legale-societaria dei portoghesi di Miranda e dello studio britannico Pinsent Masons. Ma se la devono comunque vedere con il primo produttore presente nel paese, il colosso francese TotalEnergies.
Continua a leggereRiduci
Stefano Donnarumma, ad di Fs
L’ad Stefano Donnarumma presenta le nuove strategie: pronti 18 miliardi per il 2025 e progetti per 177 miliardi fino al 2034. La flotta verrà rinnovata e si punterà su digitalizzazione della rete e apertura ai privati. Matteo Salvini rilancia i cantieri e il Ponte di Messina.
Investimenti per 18 miliardi nel 2025, 7 di questi solo per il Pnrr. Cifre senza precedenti per il gruppo Fs come spiegato dall’amministratore delegato Stefano Donnarumma ieri in occasione della presentazione del Piano strategico 2025-2029. «Questi risultati rappresentano le fondamenta della traiettoria di lungo periodo delineata nell’aggiornamento del Piano strategico, che prevede ulteriori investimenti per 177 miliardi di euro nel periodo 2026-2034. Il prossimo anno puntiamo a superare il target dei 18 miliardi», mentre per quanto riguarda gli obiettivi al 2029, nonostante una perdita iniziale pari a 200 milioni di euro nel 2024, restano gli stessi: «20 miliardi di euro di ricavi, 3,5 miliardi di euro di Ebitda e un risultato netto pari a 500 milioni di euro, coerenti con la traiettoria di crescita prevista per i prossimi anni», ha commentato presentandosi sul palco vestito da ferroviere per «trasmettere l’orgoglio e l’emozione di essere ferrovieri e italiani».
Occhi puntati sul tema ritardi: «Noi pensavamo di riportare nelle fasce di orario 50.000 treni in cinque anni, ne abbiamo riportati 35.000 in un solo anno», assicura Donnarumma che rivendica anche l’ammodernamento della flotta «con l’introduzione di 241 nuovi mezzi tra treni e autobus».
Avviata anche «una profonda trasformazione industriale: abbiamo riorganizzato la governance del gruppo, reso operative le nuove Business Unit, lanciato la Scuola Fs e definito un piano tecnologico da 20 miliardi di euro al 2034 per digitalizzare la rete, rafforzare la sicurezza dell’infrastruttura e migliorare la gestione dei cantieri». Mentre su Anas spiega: «nessuno ha dubbi sulla necessità di una separazione, non c’è beneficio che l’Anas sia all’interno del gruppo. Ci sono già norme che sono state scritte per andare in questa direzione».
È in conferenza stampa che l’ad ha l’occasione si rispondere a chi gli chiede conto della segnalazione dell’Ance circa la cessione del ramo d’azienda ferroviario della storica azienda di Parma, la Pizzarotti, a Fs. L’Ance, nei giorni scorsi, aveva sollevato dubbi in riferimento a concorrenza, codice degli appalti e commistioni tra pubblico e privato, funzionamento dell’in house ed equilibrio tra stazione appaltante e società che esegue i lavori oltre che profili sugli aiuti di Stato. «Abbiamo ricevuto una segnalazione assolutamente inappropriata. Agiremo in tutte sedi per difendere inostri diritti», ha sottolineato Donnarumma. C’è interesse anche l’ingresso di investitori privati nello sviluppo infrastrutturale sulla base del modello Rab che prevede l’autofinanziamento con l’eventuale apertura al capitale di terzi. Secondo Donnarumma, nonostante l’impegno congiunto con il Mef, resta complicato disegnare il sistema sull’Alta velocità. «Il progetto non è concluso o fallito, è solo molto complesso il contesto di applicazione giuridico normativa. Ci sono elementi di carattere procedurale e tecnico che devono essere adottati. Però non è detto che non ci siano le soluzioni. A gennaio riprenderemo». Poi ha aggiunto: «Negli ultimi anni assistiamo a un sempre più forte interesse di investimenti nel nostro Paese da parte di fondi degli Emirati Arabi e del Qatar. Non abbiamo ancora però preso una decisione su questo. Se, invece, ci sarà il coinvolgimento di fondi esteri su attività internazionali credo che parleremo di fondi di matrice americana ed europea».
Anche il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, il vicepremier Matteo Salvini, è intervenuto dal palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma esordendo con una battuta: «Speriamo portiate fortuna, oggi doveva essere la giornata del mio processo in Cassazione è stata aggiornata alla settimana prossima». Rivendica i cantieri in corso nonostante le critiche sui ritardi: «Se siamo costretti ad avere oggi il massimo storico di cantieri aperti è perché qualcuno in passato o si era distratto oppure si occupava di altro», precisa non tenendosi però una stoccatina nei confronti dell’ad di Fs Donnarumma: «Fatemi arrabbiare il meno possibile nel 2026 e mandare meno messaggi», ribadendo tuttavia di essere «estremamente orgoglioso di quello che state facendo». Poi sul ponte di Messina rilancia: «Rinnovo la mia determinazione ad avviare i lavori entro la fine del mio mandato». Infine, circa lo sciopero della Cgil indetto per oggi: «Irresponsabile bloccare il Paese con l’ennesimo sciopero generale che mette in ginocchio il Paese in un momento delicato».
Continua a leggereRiduci
Iniezione letale (iStock)
Donna affetta da una patologia rara, ma non grave, si deprime per le tempistiche dell’operazione e ottiene l’ok al fine vita.
Una donna affetta da una malattia rara, ma tutt’altro che in fin di vita bensì semplicemente stanca di aspettare l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno, arriva a chiedere - e ottiene - la morte assistita. Sembra assurdo che un caso simile possa esistere e, probabilmente, lo è. Peccato sia una storia vera: quella che vede suo malgrado protagonista Jolene Van Alstine, 37 anni, residente nella provincia canadese del Saskatchewan. La donna soffre da otto anni di iperparatiroidismo primario normocalcemico, una malattia paratiroidea molto rara ma curabile. Il punto è che nel Saskatchewan pare non ci siano chirurghi in grado di eseguire l’operazione di cui ha bisogno. Per questo, la trentasettenne deve essere indirizzata fuori provincia, ma non può ottenere un’indicazione senza prima essere visitata da un endocrinologo e - di quelli della sua zona, alcune decine - nessuno accetta nuovi pazienti.
Di qui l’interminabile attesa, così interminabile da averla portata a chiedere la morte assistita. Che, a differenza del sospirato intervento, le è stata subito fissata. C’è già la data: il 7 gennaio 2026. Jolene Van Alstine ha scelto questa strada per porre fine a quello che, per lei, è un calvario: «I miei amici hanno smesso di venirmi a trovare. Sono isolata. Sono otto anni che me ne sto sdraiata sul divano, malata e rannicchiata in posizione fetale, aspettando che la giornata finisca». «Vado a letto alle sei di sera perché non riesco più a stare sveglia», ha aggiunto e suo marito, Miles Sundeen, ha detto che stanno cercando aiuto da molto tempo.
«È un caso complesso perché ha già subito diversi interventi chirurgici, ma non hanno avuto successo al 100%», ha spiegato l’uomo, «abbiamo davvero bisogno di aiuto per trovare un endocrinologo e un chirurgo che la prendano in cura e che abbiano molta familiarità con casi più complessi».
Le istituzioni sono al corrente di tutto, tanto che - stimolato dal ministro ombra dell’opposizione, Jared Clarke - il ministro della Salute del Saskatchewan, Jeremy Cockrill, ha incontrato la donna giorni fa per cercare di capire se poteva aiutarla, ma sembra che neppure il suo interessamento, per ora, sia riuscito a sbloccare la situazione. Con il risultato che, salvo sorprese, a inizio 2026 la Van Alstine potrebbe davvero ottenere la morte assistita a causa, di fatto, dei ritardi del sistema sanitario. Un caso che potrebbe diventare, se davvero così sarà, il primo d’una lunga serie dato che non in Canada non è già raro, anzi, morire in attesa delle cure.
Secondo i dati diffusi a fine novembre dal think tank canadese Secondstreet.org, infatti, tra aprile 2024 e marzo 2025 sono deceduti quasi 24.000 pazienti - 23.746, il numero esatto - che erano nelle liste d’attesa per le cure. Va però detto che il caso di Jolene Van Alstine sta scuotendo molto l’opinione pubblica ed è partita una vera e propria gara di solidarietà per salvarle la vita. In prima linea c’è il commentatore conservatore americano Gleen Beck, attivatosi dichiarando di volersi far carico delle spese di viaggio e mediche per Jolene esortando il Canada a porre fine a questa «follia». Gli aggiornamenti delle ultime ore da parte di Beck sono di cauto ottimismo. «Siamo in contatto con Jolene e suo marito! Continuate a pregare per la sua salute», ha infatti scritto su X. Staremo a vedere che sviluppi avrà la vicenda.
Quel che è certo è che l’odissea di Jolene Van Alstine non è casuale. E questo non solo per la gran facilità con cui è possibile accedere in Canada alla morte assistita - 90.000 casi dal 2016 ad oggi sono un numero oggettivamente enorme -, ma pure per il clima di abbandono terapeutico che la cultura eutanasica ha generato in un Paese dove, contestualmente all’introduzione del decesso on demand, si è subito iniziato a ragionare apertamente sui risparmi che ciò avrebbe comportato per le casse pubbliche.
Uno studio di Aaron J. Trachtenberg e Braden Manns, pubblicato ancora nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal, basandosi su stime realizzate nei Paesi Bassi, aveva quantificato in una forbice oscillante tra i 35 e i quasi 139 milioni di dollari l’anno i risparmi che la «dolce morte» può assicurare alle finanze pubbliche. Da parte loro, Trachtenberg e Manns avevano tenuto a sottolineare di non voler alcun modo incoraggiare la gente a morire, e ci mancherebbe, ma è ovvio che laddove la vita di alcuni cittadini, rei solo di non essere abbastanza sani o abbastanza giovani, inizia ad essere rubricata alla voce «costi evitabili», essi siano indotti a togliere il disturbo. Era già accaduto, restando sempre in Canada, qualche anno fa con l’atleta paralimpica Christine Gauthier - che aveva osato protestare per i ritardi nell’installazione in casa sua di un montascale, sentendosi offrire la morte assistita - e di fatto succede ancora oggi con il caso di Jolene Van Alstine che, a proposito della sbandierata libertà di scelta, ora ha davanti a sé due strade: la morte assistita o quella in attesa di cure. Bel modo di essere «liberi fino alla fine», non c’è che dire.
Continua a leggereRiduci
Marco Scatarzi e Lorenzo Cafarchio raccontano boicottaggi, accuse grottesche e tentativi di censura tra fiere del libro e festival. Perché il pluralismo diventa un problema solo quando non è di sinistra?














