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Alfie, il piccolo che non vuole morire ha dato una lezione a giudici e medici

Alfie, il piccolo che non vuole morire ha dato una lezione a giudici e medici
ANSA

Questa è la storia del bambino che non voleva morire. Un bambino inglese di nome Alfie, che un giudice di sua maestà ha condannato, decidendo che la sua vita non poteva essere considerata tale, perché il suo respiro affannoso era appeso a una macchina. Così, contro il parere dei genitori, il magistrato ha ordinato di staccargli la spina, come si fa con gli elettrodomestici che non funzionano bene. Basta, questo frullatore va buttato. E anche Alfie Evans, due anni ancora da compiere, va buttato, perché il suo cervello è affetto da una patologia sconosciuta, che non si può riparare.

Ma una vita non si spegne come una macchina, schiacciando un interruttore. Un bambino non muore perché lo ha ordinato il tribunale. La vita è misteriosa e meravigliosa, perché non rispetta le decisioni dei contabili e neppure quelle dei magistrati. Così il piccolo Alfie, anche senza la macchina, rimane appeso alla vita. Nonostante l'abbia deciso la Corte, quel bambino di due anni che secondo la medicina è affetto da una patologia cerebrale che gli impedirebbe di vivere, si rifiuta di morire. Di obbedire al clic. La madre e il padre, due ragazzi di vent'anni che vogliono sperare fino all'ultimo, come fino all'ultimo spererebbe qualsiasi genitore di un figlio condannato, si oppongono e non cedono, rimanendo attaccati al letto del loro bambino anche quando i medici hanno tolto tutto. Via il respiratore, via le cannule per idratare Alfie. Ma anche senza l'ossigeno e l'acqua Alfie vive. Dicono che per tutta la notte papà e mamma si siano alternati facendogli la respirazione bocca a bocca. Nove ore. Forse undici. Fino a che i dottori non hanno deciso di restituire ad Alfie l'ossigeno e l'acqua. Il bambino che non voleva morire ha disobbedito alla Corte, ritenendo ingiusta la decisione. La vita si è ribellata alla sentenza di morte emessa dal tribunale inglese.

Il piccolo Evans forse non diventerà mai grande, perché è condannato da una malattia oscura che i medici non sanno neppure diagnosticare. Tuttavia, il bambino che non voleva morire ha già vinto, perché ha sconfitto le regole di chi pretende di stabilire per legge quando si debba vivere e quando si debba morire. E con lui, con Alfie, hanno vinto i suoi genitori, due ragazzi di vent'anni, che non hanno una particolare cultura e nemmeno hanno tanti soldi, ma hanno una grande forza e soprattutto un grande amore per il proprio figlio.

La storia di Alfie ci insegna alcune cose. Prima di tutto che quando nella sanità si pretende di stabilire che cosa sia giusto curare e che cosa sia giusto non curare, si rischia sempre di finire per stabilire chi sia giusto curare e chi no. In Gran Bretagna, tempo fa, qualcuno si interrogò sulle cure da somministrare agli anziani, facendo previsioni sulla convenienza dell'intervento medico. Probabilmente c'è chi ritiene che la vita debba essere valutata con un algoritmo, lasciando al computer la scelta se continuare con le medicine oppure sospendere.

La seconda cosa che ci insegna la vicenda del piccolo Evans è che è giusto affidarsi alle mani dei medici, lasciando che i dottori decidano la cura per salvare una vita. Ma la scelta di ricoverarsi in un ospedale non può essere senza appello. Qualsiasi malato - che sia un adulto o un bimbo di pochi mesi - deve avere la possibilità di decidere dove farsi curare e, se non è contento dell'équipe o solo vuole provarne un'altra inseguendo la speranza, deve essere libero di farlo. Un paziente non è un detenuto e men che meno un condannato. Per Alfie era pronto un volo che lo portasse in Italia e anche un posto letto al Bambino Gesù. Che male può fare un trasferimento? Perché tenere in ostaggio un bambino contro il parere dei genitori? Perché impuntarsi nello stabilire che per un bimbo malato vale la legge inglese?

E qui siamo all'ultimo insegnamento. Allo Stato non tocca decidere della vita o della morte di un bambino. Semmai spetta tutelare la vita. Che a stabilire sia un suo rappresentante, con indosso una toga, mette paura. Alfie, infatti, potrebbe essere chiunque di noi, e una volta accettato il principio di una vita appesa a una sentenza, un funzionario potrebbe pretendere di premere l'interruttore.

È un motivo per tenere separate le ragioni della vita dalle ragioni dello Stato. Perché la contabilità non può mai essere la giustificazione con cui si spegne la luce di un'esistenza.

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Rivolta contro i giudici che ci tappano la bocca
(Getty Images)

Per le nostre toghe inneggiare ai terroristi è un’opinione, dare del pirata a chi decide di non rispettare le leggi è diffamazione da risarcire con 80.000 euro. È così che si limita la libertà di stampa. Ma noi non ci fermeremo.

Se sei un imam che inneggia alla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, come l’egiziano Mohamed Shahin, il giudice ti archivia, perché le tue frasi sono «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato, e dunque pienamente lecite». Se invece sei un direttore di giornale che si è permesso di criticare le Ong, accostando il loro operato a quello dei pirati che deliberatamente decidono di non rispettare una legge dello Stato italiano, il giudice ti condanna e sei chiamato a corrispondere 80.000 euro a soggetti che non sono stati neppure menzionati nell’articolo o nella copertina incriminata. Siete stupiti? Io no: sono indignato.

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Dalla maggioranza arriva un’ondata di solidarietà dopo la sentenza bavaglio
Matteo Salvini e Galeazzo Bignami (Ansa)
Centrodestra indignato per la decisione del Tribunale di Milano. Salvini: «Faremo tutto il possibile per aiutare “Panorama”». Bignami: «Una condanna incredibile».

L’incredibile decisione del Tribunale di Milano, che ha condannato il nostro direttore Maurizio Belpietro e Panorama a versare 80.000 euro come risarcimento a una serie di Ong per una semplice copertina del settimanale con il titolo «I nuovi pirati», fa insorgere la politica e in particolare il centrodestra. Moltissimi protagonisti politici e istituzionali si sono schierati dalla parte di Panorama e Belpietro, ma soprattutto della libertà di stampa, che ha ricevuto un colpo micidiale da questa paradossale vicenda.

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Cgil, Bindi e Parisi uniti nel Comitato contro la riforma della giustizia
Maurizio Landini e Rosy Bindi (Ansa)
Oggi la presentazione del gruppo per il No al referendum. Coinvolti pure Arci e Libera.

Alla presenza del segretario confederale della Cgil Christian Ferrari, oggi pomeriggio si terrà la conferenza stampa di presentazione del Comitato promosso dalla società civile a sostegno del No per il referendum costituzionale sui temi della giustizia. I Comitati per il No sono già nella fase operativa della loro campagna contro la modifica scritta dal Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere dei magistrati, mentre i partiti sembrano muoversi ancora sottotraccia considerato anche la mancanza della data del referendum, come evidenziato ieri da un emendamento del governo alla legge di Bilancio sulle date delle elezioni del 2026 con alcuni ministri che vorrebbero fissare all’1 marzo le urne e un’altra parte che non vorrebbe ignorare i consigli del presidente Sergio Mattarella, che invita a evitare forzature nel tentativo di accorciare la campagna referendaria.

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I nostri lettori non ci stanno: «Questo è un verdetto politico»
(IStock)

Pubblichiamo le lettere di solidarietà dei lettori al direttore Maurizio Belpietro dopo la condanna del Tribunale di Milano al risarcimento di 80.000 euro per l'inchiesta di Panorama sulle Ong.

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