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Bmw group compie 100 anni, Bmw Italia 50 e Sergio Solero (accento acuto sulla prima «o», Sólero), che della filiale tricolore è presidente e amministratore delegato dal 2014, ne ha fatti 45 a marzo. È come se la casa automobilistica bavarese avesse trovato il modo d'invecchiare ringiovanendo.

Laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, Solero festeggerà nel 2017 i suoi primi vent'anni di attività in Bmw Italia, dove arrivò il 16 giugno 1997. Facendo l'autostop. La bizzarra circostanza merita una digressione a partire dalle origini. Solero è nato nel capoluogo lombardo, ma ha nelle vene sangue veneto. Il padre Carlo Lazzaro, per molti anni neurochirurgo all'Istituto neurologico Besta di Milano, è originario di Sappada, nel Bellunese. La madre Lucia, già insegnante di arte e poi di sostegno nelle scuole statali, è nativa di San Bonifacio, nel Veronese. Sappada è rimasta la Heimat della famiglia Solero, «la patria cui si sente di appartenere con il cuore, voi italiani non possedete questo concetto, non potete capirlo», mi spiegò un giorno Silvius Magnago, leader della Südtiroler Volkspartei, «il luogo dove ti senti a casa», aggiunge Solero, che infatti lì si ritrova con tutti i suoi cari almeno un paio di volte l'anno.

Il ventiseienne, fresco di laurea, mandò il suo curriculum alla Bmw Italia, che all'epoca aveva sede a Palazzolo di Sona, tra Verona e il lago di Garda. Fu assunto come impiegato di quarto livello. Per essere più vicino al posto di lavoro, si trasferì provvisoriamente a San Bonifacio, nella casa della nonna materna, Nella. «Fu lei a prestarmi la sua auto, una Mini di seconda mano, per raggiungere Palazzolo di Sona. Purtroppo, al primo giorno di lavoro, sulla A4 andai a infilarmi sotto un camion che trasportava mucche. Uscii illeso per miracolo dalla vettura sfasciata. E dal giorno dopo cominciai a farmi San Bonifacio-Verona in treno, dopodiché alla stazione di Porta Nuova ricorrevo all'autostop per raggiungere la sede della Bmw Italia».

Non potendosi permettere l'acquisto di un'auto, neppure usata, l'estenuante tran tran, che avrebbe abbattuto anche un toro, proseguì fino ad agosto del 1998, quando Bmw Italia traslocò a San Donato Milanese, nell'avveniristico palazzo di acciaio, cristallo e granito ceramico progettato dall'architetto giapponese Kenzo Tange, dove oggi Solero si ritrova assiso al settimo piano.

Per ascendere dal quarto livello al settimo cielo, il manager, sposato e padre di tre figli di 13, 11 e 9 anni, ha dovuto percorrere un impegnativo cursus honorum che lo ha visto ricoprire vari ruoli in Bmw Italia e poi traslocare dapprima a Madrid, come direttore aftersales di Bmw España, quindi a Singapore, come managing director di Bmw group Asia, da cui dipendono 14 mercati, dalla Cambogia al Brunei.

Che cosa si prova a celebrare i 50 anni di vita di Bmw Italia proprio nel centenario della fondazione di Bmw group?

«Una bella sensazione, avendo dedicato a questa azienda quasi la metà della mia vita. E anche una notevole responsabilità, visto che l'Italia, con un fatturato di 2,53 miliardi di euro, rappresenta il sesto mercato di Bmw a livello mondiale. Nel 2015 abbiamo venduto 49.732 Bmw e 22.008 Mini, per un totale di 71.740 veicoli, con un incremento del 14,3 per cento sull'anno precedente. Lusinghiero anche il dato di Bmw Motorrad: 10.267 motociclette, il 6,3 per cento di aumento rispetto al 2014. Da 250 dipendenti siamo saliti a 1.071, il 328 per cento in più. Ma non dimentico che tutto ebbe inizio nel 1966 dall'iniziativa di tre sole persone».

Chi erano?

«L'importatore Luigi Sodi, che acquistava direttamente le Bmw a Monaco di Baviera e le commercializzava nel nostro Paese, subito affiancato da Vincenzo Malagò della Samocar di Roma, poi divenuta la più importante concessionaria Bmw del pianeta, e da Lucio Sassone della Ambros Saro di Milano, la prima ad aver inalberato la nostra insegna biancoceleste nel Nord Italia».

Come festeggiate le nozze d'argento?

«Con il Next 100 festival. L'evento clou è questa domenica nella cattedrale motoristica del Belpaese, l'autodromo di Monza, e nel parco attiguo. In pista si potrà ammirare il presente e il futuro della mobilità interpretata da Bmw. E Ligabue terrà un concerto».

Era preferibile Vasco Rossi, un cantautore che va al massimo.

«C'è un'altra ricorrenza: per Ligabue sarà il venticinquesimo di Urlando contro il cielo, che “è una canzone di cent'anni almeno", recita una strofa, dunque perfettamente consona al secolo di vita di Bmw».

Hanno ancora un ruolo, i concessionari, nell'era del Web, che consente a ciascuno di noi di configurarsi online l'auto?

«Sì, e ce l'avranno anche in futuro, altrimenti dovremmo concludere che le relazioni interpersonali sono inutili, superate, e io mi rifiuterei di vivere in un mondo così. In materia ho maturato una sensibilità particolare. Rientrai in Italia come direttore delle vendite nel 2011, affrontando il triennio forse più terribile nella storia dell'auto. Vendere era diventato un verbo indeclinabile, in quel periodo. Bisognava però sostenere la rete e mantenere il servizio. Eravamo sempre stati i leader nei Suv di lusso. Il governo Monti introdusse il superbollo, che ebbe un impatto devastante su X5 e X6. Dalla sera alla mattina non riuscimmo più a venderne uno. Un giorno entrai in questo stesso ufficio e dissi al mio capo, Franz Jung: “Ho una proposta da farti. Dobbiamo ricomprarci 750 fra X5 e X6 ferme presso i nostri concessionari e già fatturate". Mi guardò sbigottito e replicò: “Noi le vendiamo, le automobili, non le compriamo". Gli spiegai che la domanda s'era bloccata e che mantenere quelle vetture in Italia avrebbe danneggiato il brand e i concessionari. Capì e approvò. Naturalmente avevo già concordato il riacquisto con i dirigenti a Monaco di Baviera, i quali non ebbero difficoltà a piazzare i 750 Suv nella rete di vendita tedesca. Credo che da allora i concessionari siano diventati i nostri migliori amici».

Nel 2015 il Reputation institute ha classificato Bmw al secondo posto nella graduatoria mondiale, dopo Google e prima di Walt Disney company, Microsoft, Daimler, Lego, Apple, Intel, con Rolls-Royce, altro vostro brand, al nono posto davanti a Rolex. Qual è il segreto per mantenere un simile prestigio universale?

«Serve una strategia costruita nel tempo. È come se lavorassimo per i posteri, più che per noi, in modo da tramandare intatto il patrimonio ereditato. Bmw Italia è stata la seconda azienda per reputazione nel 2015 e nel 2016, dietro Ferrero, e la terza tra i super brand dopo Amazon e Apple, e ancora la terza tra i giovani in cerca di lavoro nell'automotive, alle spalle di Ferrari e Lamborghini. Per arrivare a questi risultati bisogna lavorare sui valori».

Mi parli di questi valori.

«Rispetto al 1995 abbiamo abbassato le emissioni di anidride carbonica della nostra flotta del 39,5 per cento a livello mondiale e quasi del 50 per cento a livello europeo. Dal 2006 abbiamo ridotto il consumo di risorse nei nostri stabilimenti in media del 48 per cento. È stata aumentata la quantità di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili, portandola al 58 per cento nel 2015».

Siete sempre stati impegnati anche in attività di responsabilità sociale d'impresa, raggruppate sotto il logo SpecialMente. Vi fanno vendere più automobili?

«Non lo so e non m'interessa neppure troppo saperlo. Le sosteniamo perché è giusto farlo. Siamo molto fortunati, sia come persone sia come azienda, e qualcosa dobbiamo restituire alla comunità».

E l'Italia ha fatto qualcosa per voi? Vi aspettavate di più dai 44 governi che si sono succeduti dal 1966 a oggi?

«Non entro nei temi politici. Però sì, ha fatto tanto. L'Italia è molto presente in Bmw. Lei consideri che solo a livello di componentistica oggi siamo arrivati a 1 miliardo di euro in acquisti di tecnologia italiana da utilizzare sulle vetture prodotte in Germania. Persino alcune parti di alta precisione montate sulle Rolls-Royce sono made in Italy».

Qual è la prima BMW che ha guidato?

«Una 318 Tds Touring. La presi a noleggio nel luglio del 1998 per andare in vacanza in Irlanda con Chiara, che poi sarebbe diventata mia moglie. Vennero con noi mia sorella e il suo fidanzato. Dovevamo pernottare nei bed and breakfast. Sbarcammo dal traghetto che erano quasi le 23 e non ne trovammo uno in tutta Dublino, per cui abbattemmo i sedili della 318 e dormimmo in auto. Fu lì che cominciai ad apprezzare la versatilità delle Bmw».

E quella che le ha dato più soddisfazioni?

«Sono tante. Però mi è rimasta nel cuore la M5 E39 colore Estoril blau, utilizzata nel giorno del mio matrimonio. La ebbi in prestito dall'azienda. È una tradizione che Bmw Italia mantiene tutt'oggi: i dipendenti che si sposano possono chiederci qualunque auto per la cerimonia, Serie 7 inclusa».

Quando pensa all'auto del futuro come se la prefigura?

«Elettrica, non più ibrida, connessa con il mondo, capace d'interpretare in tempo reale i dati relativi a percorsi, traffico, semafori, parcheggi. E in grado di guidare da sola».

Ma non smetteremo di divertirci standocene seduti come baccalà nell'abitacolo, senza poter toccare il volante?

«A me piace guidare, quindi sono per il sistema misto: va bene un po' di relax sui rettilinei autostradali, ma sui tornanti di montagna voglio comandare io. Lasciare che l'auto ci conduca alla meta da sola sarà un optional. Al di là di ciò che viene scritto sulle driverless car di Google e Apple, la transizione si presenta molto difficile prima di poter arrivare alla completa sicurezza. Inoltre sono in ballo problemi legislativi e assicurativi non indifferenti».

Quanto manca per avere l'auto elettrica con un'autonomia che consenta di arrivare almeno da Milano a Napoli senza soste per la ricarica?

«Penso che nel giro di cinque anni si potrà raggiungere un'autonomia di 500 chilometri. Servono due salti tecnologici sulle batterie, che sono già in fase di test. Resta il problema delle colonnine di ricarica. Per risolverlo sono indispensabili incentivi governativi. Ma non pare un ostacolo insormontabile: la Danimarca è più piccola e meno ricca della Lombardia, eppure conta 7.000 stazioni di servizio elettriche».

Mi spiega lo slogan del vostro ultimo spot? «I prossimi 100 anni. Prossimamente su tutte le Bmw». Che significa?

«Basta salire sulla nuova Serie 7 per scoprirlo. Già adesso essa può portarmi a casa guidando da sola. Legge la segnaletica orizzontale; rallenta o accelera in base alle condizioni del traffico; interpreta le mappe di navigazione; affronta le curve e le svolte senza che io tocchi il volante. Se devo rispondere al telefono, alzare o abbassare il volume della radio o impartire qualsiasi comando, mi basta un semplice gesto disegnato nel vuoto con la mano, non ho più bisogno di premere un tasto o di usare il voice control. All'arrivo, scendo, schiaccio un pulsante sul telecomando e la Serie 7 si parcheggia da sola sfruttando lo spazio al millimetro, grazie alle quattro ruote sterzanti».

All'auto che vola ci crede?

«Da bambino la disegnavo sempre, era il mio sogno. Quindi ci arriveremo di sicuro».

«Pretenziosa». «Altisonante». «Di sovietica memoria». «Utopica». È tutto vero, quello che è stato detto e quello che è stato scritto. Hanno, avete, abbiamo tutti ragione. Infatti sono d'accordo persino io. Non è stato facile scegliere La Verità come testata per un nuovo quotidiano. Il precedente più celebre e controverso, la Pravda (verità, in russo), sconsigliava vivamente di adottare questo nome. Una Verità (Adevarul, in rumeno) esce a Bucarest. Un'altra Pravda si stampa in Slovacchia. Parentele scomode, assai lontane dallo spirito di questo giornale. Ci siamo anche prefigurati il siparietto all'edicola: «Mi dia La Verità». Ma dài!

Eppure alla fine è parso il modo migliore per rinnovare ogni mattina il contratto ideale che ci lega ai lettori, riaffermando il nostro onesto tentativo quotidiano di raccontare proprio questo, la verità. E abbiamo concluso che le facili ironie sarebbero state il miglior propellente per farci conoscere in giro senza dispendiose campagne pubblicitarie.

Ci voleva un pugno nello stomaco. Il nostro, tanto per cominciare. Poi quello dei lettori. Poi quello dei potenti e dei prepotenti.

Del resto lo cantava Caterina Caselli giusto 50 anni fa: «La verità ti fa male, lo so». Ecco, La Verità farà male ai mascalzoni, ma farà bene ai galantuomini, questo è il compito che ci siamo assegnati.

Abbiamo scelto la testata come un omaggio postumo a Letizia Leviti. Era una giornalista toscana, inviata di Sky Tg24 sui fronti di guerra: Afghanistan, Iraq, Libano. È morta lo scorso 23 luglio, lasciando un marito e tre figli. Aveva 46 anni e da due combatteva contro una malattia che alla fine ha avuto il sopravvento. Poco prima di andarsene, ha registrato un messaggio audio per i colleghi (lo trovate in Internet). Comincia con un filo di voce, un sospiro di smarrimento di fronte alla morte che incombe: «Siamo in onda? Mi ascoltate? Accidenti. Non avrei voluto, pensavo di farcela come tante altre volte. Invece la vita non la decidiamo noi». E termina con un inno sommesso che profuma di comandamento: «Il nostro lavoro è verità. Deve essere verità. Abbiamo un debito verso i telespettatori. Dobbiamo non accontentarli: dobbiamo dire la verità. Ci credono, a quello che noi diciamo».

Una settimana dopo sono accaduti due fatti. Ho incontrato Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, e all'udire quel nome, La Verità, ha esclamato stupefatto: «Che bello». D'altronde qualche anno fa scrisse sul quotidiano milanese che c'era bisogno di una politica capace di parlare «con verità» e fu rimbrottato dal filosofo Emanuele Severino, il quale gli chiese polemicamente che cosa significasse questa parola.

Ne ho parlato poi con Cesare Lanza, direttore di lungo corso (al Corriere d'Informazione assunse molti giovani di talento, da Ferruccio de Bortoli a Gian Antonio Stella), e mi sono sentito dire la stessa cosa: «La Verità è una gran bella testata». Con un'aggiunta: «Da sola vale 10.000 copie». Orpo.

«Il filosofo ritiene che la verità non esista, il politico che non sia necessaria», sostiene un'aforista ceca alla quale sono molto affezionato, Patricie Holecková. Quanto ha ragione! Ho citato Severino. Per il politico fate voi.

A questo punto valeva la pena di spingersi oltre. Così nella testata abbiamo inserito un cartiglio con due svolazzi: «Quid est veritas?». Una scelta ottocentesca, fuori dal tempo. Ricorda il Capitan Ferruccio, corriere toscano del mattino: «Ogni popolo ha il governo che si merita. Machiavelli». E il Don Marzio, giornale veneziano: «Segna la virtù all'ammirazione del popolo, ed al suo dispregio la disonestà». E la Gazzetta di Catania, quotidiano politico: «Fa' il tuo dovere, avvenga che può». Tutti fogli defunti. La scaramanzia suggeriva di soprassedere.

L'ultimo motto che si ricordi sulla prima pagina di un giornale, «Frangar non flectar» (mi spezzerò ma non mi piegherò), inventato per la Gazzetta Piemontese dall'autore delle Miserie 'd Monsù Travet e poi fatto proprio dalla Stampa, fu eliminato nel 1959 dal direttore Giulio De Benedetti.

Ma «Quid est veritas?» viene da più lontano. È la domanda che il governatore Ponzio Pilato pone a Gesù durante l'interrogatorio che precede la condanna a morte: «Che cos'è la verità?». È anche l'unica, in tutto il Vangelo, alla quale il Nazareno non risponde. Perché? Sant'Agostino riteneva che la replica fosse implicita nella domanda. Basta anagrammarla: «Est vir qui adest», è l'uomo che hai davanti. Sì, la verità parla da sola.

L'Italia ha bisogno di verità, e di dirsi la verità, più dell'aria che respira. Winston Churchill, uno statista talmente lungimirante da credere che non vi fosse investimento migliore del «mettere latte dentro i bambini», riteneva che agli uomini capitasse spesso d'inciampare nella verità, ma che, nella maggior parte dei casi, si rialzassero e continuassero per la loro strada. Ci volle la fantasia da romanziere del suo coetaneo e conterraneo Gilbert Keith Chesterton per arrivare a preconizzare un tempo, quello del relativismo, in cui spade avrebbero dovuto essere sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d'estate e che 2 più 2 fa 4. Mi pare che ci siamo dentro.

Non dovete credere a chi predica che esistono solo verità variabili: semplicemente non è vero. Le verità incontrovertibili, anche se vengono ogni giorno messe in discussione, resistono e sempre resisteranno all'usura delle mode e delle stagioni, perché sono iscritte fra le leggi perenni del consorzio umano e formano la grammatica di un popolo che voglia parlare un'unica lingua e perciò intendersi. È una verità che tutti vogliono essere amati. È una verità che tutti provano paura. È una verità che tutti temono la morte. È una verità che tutti detestano le bugie e la doppiezza. È una verità che un genitore sacrifica la propria vita per salvare quella di suo figlio. È una verità che in natura i bambini nascono da un uomo e da una donna, non da seme congelato e uteri a locazione. È una verità che il coraggio, l'onestà, la lealtà, la coerenza, il rispetto della parola data sono valori per chiunque e a tutte le latitudini. È una verità che nessuno vuole essere tradito. È una verità che a nessuno piace essere derubato (men che meno dalle banche).

Ancora. È una verità che la storia dell'Occidente è stata per sempre spaccata in due da un evento, per cui la distinguiamo fra avanti Cristo e dopo Cristo. È una verità che non c'è mai stata né mai potrà esservi una storia avanti Maometto e dopo Maometto, o dopo Carlo Magno, o dopo Napoleone, o dopo Hitler, o dopo Mussolini, o dopo Stalin, o dopo Mao, o dopo Obama, o dopo Merkel.

Infine c'è un'ultima verità: tutti vogliono la verità. Se fosse così anche in edicola, ne sarebbe valsa la pena. Di cercarla e di scriverla, intendo.