Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo stralci dal libro «Il pensiero di Vassilij Grossman», di Giovanni Maddalena (edizioni Rosenberg e Sellier, 110 pagine, 16 euro). Si tratta della prima indagine filosofica sull’autore di «Vita e destino», monumento della letteratura europea del Novecento. Testimone diretto della Seconda guerra mondiale tra le fila dell’esercito sovietico, Grossman ebbe modo di sviluppare in forma narrativa acute analisi sul fenomeno totalitario: da homo sovieticus partecipò con convinzione alla lotta contro il nazismo, prima di cogliere i tragici tratti comuni tra i due regimi e raccontarli, attirandosi le ire dello stalinismo. Accanto a riflessioni che lo pongono, nella lettura di Maddalena, a fianco di un altro gigante come Hannah Arendt (1906-1975), il russo seppe anche intuire che la dinamica democratica non pone al riparo dalle trappole del totalitarismo. E che il liberalismo individualista, che si vota alla completa autonomia della persona, non garantisce la libertà né dell’uomo né della società.
Si può rinvenire in Vassilij Grossman una visione, ancora una volta implicita, di pensiero politico. A questo proposito, il versante politico del realismo grossmaniano non può prescindere dal confronto con Hannah Arendt, forse l’unica pensatrice ad aver individuato nella stessa epoca e in profondità il parallelismo tra comunismo sovietico e nazismo. Certo, Arendt pare fermarsi allo stalinismo, mentre Grossman include nel totalitarismo il comunismo in quanto tale, anche nella sua versione leninista. Inoltre, è forse rinvenibile in Grossman una più profonda consapevolezza della radicalità dell’opposizione tra uomo singolo libero e uomo massificato e ideologico, con la quale si può in effetti leggere l’intera prima parte del Novecento, in un’ottica che tende a far confluire le due guerre mondiali in unità.
Tuttavia, qui si vuole affrontare la radice filosofico-teoretica dell’inevitabile confronto Arendt-Grossman. Essi sono infatti liberali, intendendo con ciò l’opposizione tra il singolo, fonte autonoma di libertà, e lo Stato della società di massa, inteso come potenziale schiacciamento di tale libertà. Non sono però liberali secondo il significato classico del termine, perché entrambi respingono il totalitarismo, prima che sul piano politico, in nome dell’esperienza della libertà individuale, intesa come coincidenza con la vita stessa. È tale coincidenza a implicare considerazioni filosofiche che esulano dalla teoria politica. E quello che io chiamo «liberalismo esperienziale» o «esistenziale» ed è legato alle posizioni di entrambi sul piano metafisico ed epistemologico. Ma, per arrivare a questi livelli di discorso, partiamo da una discussione filosofico-politica.
La prima questione è politica. Il liberalismo esistenziale emerge di fronte all’orrore del totalitarismo: Grossman e Arendt concordano nell’analizzare politicamente il totalitarismo da molti punti di vista. Descrivono uno Stato totalitario come finzione, propaganda, organizzazione e burocrazia, tradimento sistematico, dipendenza dalla volontà del leader e caratterizzazione del «nemico oggettivo», un nemico che è tale per qualche eredità fisica o sociale che non può scegliere (nobile, ebreo, kulak). Arendt è più precisa nell’analizzare le circostanze da cui nasce lo Stato totalitario, in particolare la società senza classi descritta nell’omonimo capitolo de «Le origini del totalitarismo»? Entrambi descrivono i passaggi nell’inferno che il totalitarismo prepara ai suoi «nemici oggettivi». Arendt li descrive come la progressiva perdita della persona giuridica, della persona morale e dell’identità singolare? Grossman non è meno preciso nella descrizione di questi passaggi sia per gli ebrei nei campi di concentramento sia per gli ex-comunisti alla Lubjanka.
Le descrizioni negative degli Stati totalitari aprono alla comprensione del lato positivo della libertà. Qui troviamo il primo problema importante. Quale libertà è possibile? Grossman e Arendt sono liberali nel concepire l’individuo come fonte di diritto e libertà, ma la libertà individuale non è isolamento o solitudine. Si è veramente liberi quando ci si affida alla propria anima, alla propria coscienza, al proprio pensiero critico, ma non lo si può fare senza relazioni umane. La fonte della libertà non è l’individuo in quanto tale, ma l’individuo radicato in relazioni significative, per quanto diverse siano nei due autori. Come dice Arendt, il totalitarismo ha convinto e dominato persone già sole nella loro vita, e la vera critica non è venuta dall’intellighenzia ma da società relazionali vive. Lo stesso punto di vista si ritrova nella storia dell’alter ego di Grossman. Viktor Strum è libero quando vive relazioni umane vere che lo tanno pensare alla politica, all’anima e a Vio, mentre perde la libertà quando le relazioni sono false.
Per i nostri autori il liberalismo non è solo «libertà da», libertà negativa o autonomia. Al contrario, la pura «libertà da» coinciderebbe hegelianamente e paradossalmente con un puro Stato totalitario. Un mondo in cui tutti saranno sospettati, traditi, traditori e infine colpevoli. Ognuno è completamente solo, una pura macchina volontaria nelle mani di un potere immateriale, rappresentato solo occasionalmente da leader di passaggio. Il paradosso è che ciascuno vorrà partecipare di questo totalitarismo. La libertà intesa come pura autonomia dovrebbe arrendersi al totalitarismo come all’unica soluzione razionale per la sopravvivenza di uno Stato composto di atomi individuali e separati. Chiunque «ha il diritto di essere colpevole». Sembra un incubo, ma è più profetico di quanto sembri. Infatti, tramontati i totalitarismi della prima metà del secolo scorso, rimane la difficile valorizzazione della libertà del singolo all’interno di una società di massa. Siamo davvero liberi? La terza epoca della democrazia - dopo la democrazia d’élite del XIX secolo e la democrazia di massa con degenerazione totalitaria del XX secolo - è a volte descritta come la democrazia della «mano fantasma», dove non si può entrare nella sala di controllo perché nessuno sa dove e se si trovi tale sala. La nostra libertà che tende a una completa autonomia è di fatto facilmente plasmabile e ci troviamo in una società in cui l’uniformità di pensiero e di gusti è un pericolo reale ed è spesso governata da micro ideologie che vivono in bolle in cui prevalgono, come in ogni ideologia, moralismo e giustizialismo.
[…] Grossman e Arendt conoscono il fascino dell’eredità hegeliana sui totalitarismi anche nella sua lettura positiva e di sinistra (hegeliana). Qui la libertà si compie solo come adesione allo sviluppo dialettico dello Spirito e della storia. L’uomo isolato e solitario è preda del totalitarismo, ma lo è anche l’uomo completamente immerso nel suo ambiente, dove la propaganda e la violenza totalitaria piegano la consapevolezza di sé stessi. La propaganda controlla le menti facendole pensare, desiderare, volere allo stesso modo degli altri, sfruttando in questo caso la socialità dell’essere umano. Non possiamo rimanere fuori dal nostro tempo, dalla nostra società e dalla nostra mentalità, ma la mentalità cambia ogni percezione originale, anche quando siamo soli. Non c’è via d’uscita da questo paradosso: gli esseri umani sono sempre sulla soglia dell’abisso totalitario, inclini per natura a diventare schiavi. Se aderiscono alla loro società, accetteranno la mentalità che essa propone; se vogliono essere autonomi, considerando la società come corruzione della libertà, saranno soli, potenzialmente nemici di chiunque, e facili prede di promesse e appartenenze totalitarie. Se accettiamo la «libertà negativa» siamo perduti, se la rifiutiamo siamo perduti in modo omologo. A quanto pare, il totalitarismo, questo nuovo modo di concepire il potere - come ci ha insegnato Arendt - sembra incarnare la vera natura di ogni potere, una natura che si rivela quando diversi significati di libertà vengono spinti all’estremo.
Tanto è vero che le vie d’uscita concettuali di Grossman e Arendt da questa situazione sono singolari. Grossman nega in qualche modo qualsiasi potere, compreso quello derivante da grandi principi teorici come la verità o la bontà, in nome di azioni irrazionalmente buone. Come si è detto, questa è la teoria che Grossman riesce a concettualizzare, sebbene il suo realismo implichi un ricorso metafisico a trascendentali reali, ben diversi ovviamente da principi universali e astratti. D’altra parte, Arendt - che valuta in particolare l’opposizione tra opere buone e sfera pubblica - mantiene una completa separazione tra il sociale e il politico, assumendo che il primo ricada nel paradosso appena citato, mentre il secondo stabilisca una sfera completamente diversa. Questo spazio politico postulato è l’unico che corrisponde alla nostra libertà esperienziale originaria, ma la sua realizzazione storica è confinata all’antichità.
Si può dire allora che sia per Grossman sia per Arendt esiste un enorme divario tra la sfera pubblica e quella privata, anche se le definiscono in modo diverso. Nel mezzo sorge il totalitarismo, che sembra inevitabile, date le premesse di qualsiasi società e di qualsiasi teoria della bontà o del bene comune. Il paradosso sembra inevitabile: essere un liberale esistenziale significa rendersene conto e sopportarlo.
Nel giorno dei novantanove anni, in una tenda, alle Querce di Mamre.
Sara: Sii ragionevole.
Abramo: Non potrei esserlo di più.
Sara: Quanto tempo è che vaghiamo per queste terre, irrequieti, senza fermarci, come se fossimo due giovani, sempre malvisti perché stranieri?
Abramo: Molti anni, ma tutti passati giustamente.
Sara: Occorre tornare indietro e nominare un erede.
Abramo: Già una volta mi hai fatto questo discorso, donna, e quando il figlio che la tua schiava aveva avuto da me è nato, sei uscita di senno per la gelosia fino a farmi essere ingiusto con quella povera creatura e con sua madre.
Sara: Sono passati tanti anni, ormai, e adesso, anche se volessi, non potresti più avere figli.
Abramo: Allora rimaniamo qui e continuiamo a seguire il nostro destino.
Sara: Il destino? Non è qualcosa che si vede.
Abramo: Non si vede neanche un bambino nel ventre di sua madre.
Sara: Non è la stessa cosa: lì si vedono le curve, qui abbiamo oscuri presagi, voci, visioni, e tutte riguardano il passato.
Abramo: Dio mi ha parlato.
Sara: Erano molti anni fa e tu vagavi nel deserto, giovane e pieno di pensieri di grandezza. Il caldo ti avrà fatto avere una visione.
Abramo: Abbiamo giocato la vita su quella visione.
Sara: Sì, e abbiamo sbagliato.
Abramo: No, è stato tutto giusto.
Sara: Non avevi detto che la verità si vede dai frutti che genera? Se era tutto vero, perché non è successo niente? Ciò che era stato promesso non si è compiuto: dov’è la discendenza più numerosa
delle stelle del cielo? Dov’è la terra che è stata promessa? Dov’è la gioia? Ciò che non è in grado di essere visto, non è.
Abramo: L’amore non lo vedi, ma c’è.
Sara: Sono stanca dei tuoi pensieri profondi. Hai sempre ragione tu, ma hai torto, non lo vedi?
Abramo: Lo vedo, ma non lo credo.
Sara: Perché credere è più che vedere?
Abramo: Capire è più che vedere. Credere è capire davvero.
Sara: Io non credo più.
Abramo: Non è vero; è soltanto l’amarezza della fatica. I segni sono uguali per tutti e parlano a tutti. Sara: Io non ho parlato con Dio e inizio a pensare che anche tu abbia sentito solo un caldo insolito.
Abramo: Il caldo l’ho sentito, ma era il cuore che ardeva perché quel giorno, e solo quel giorno, ho scoperto chi sono.
Sara: Già ci conoscevamo. Come fai a dire che hai scoperto solo allora chi eri?
Abramo: Fino ad allora non avevo capito la prospettiva.
Sara: Mi amavi già da molto tempo.
Abramo: Non avevo capito che anche le nostre misere vite potevano avere una prospettiva eterna.
Sara: Eterna? Sì, forse, se c’è un’altra vita, augurandoci che sia dimentica della fatica di questa.
Abramo: È qui, donna, che non mi vuoi seguire, e per questo Dio ti punisce.
Sara: Su che cosa non ti seguirei?
Abramo: Tu pensi a Dio e all’altra vita, a un mondo dove tu e io - povere bestie - non ci saremo più. Il Dio che mi ha parlato ha detto che renderà grande la nostra stirpe. Non è un dio dei pensieri; è il Dio della storia, il Dio dei vivi.
Sara: Io credo che Dio è il Creatore.
Abramo: Lo credono anche questi popoli selvaggi in mezzo ai quali viviamo da troppi anni.
Sara: Credo a quello che testimoniano le cose che vedo.
Abramo: Non capisci proprio. Tutto si compirà.
Sara (sarcastica): Come si è compiuto in questi anni?
Abramo: Non mi fare arrabbiare, donna. Tutto si è compiuto.
Sara: E allora dove sono i frutti che dicevi? Dov’è la grande
discendenza?
Abramo: Non si misurano le cose di Dio. Magari Ismaele, nato dalla schiava, avrà molti figli.
Sara (sarcastica): Non bisogna misurare e poi contiamo i figli altrui. E di una schiava, per di più.
Abramo: Noi non possiamo capire i piani di Dio, ma essi si compiono sempre.
Sara: La nostra discendenza non c’è. Questa è la verità. E che dire della terra? Dove sarebbe la nostra terra, quella che ti è stata promessa?
Abramo: Non abitiamo forse in una terra?
Sara: Ma non è mai «nostra».
Abramo: Abbiamo animali e schiavi e viviamo dei frutti della terra.
Sara: Sai bene che non è quello che volevamo.
Abramo: È ciò che Dio ci ha dato. Smettila con le tue domande. Siamo noi che non capiamo: ci sarà un modo di concepire una discendenza che non è il nostro e una maniera di possedere una terra al di là dei modi consueti.
Sara (sarcastica): Quindi il dio che hai incontrato nel deserto e che ti ha parlato in modo del tutto comprensibile, poi si esprimerebbe in termini così oscuri che noi non capiamo nemmeno se sta rispondendo o no?
Abramo (mettendole una mano sulla bocca): Smettila, donna. Non sai che cosa dici. Dio non sbaglia e mi ha parlato. Si esprime come vuole perché è Dio e tutto ciò che accade è il suo modo di rispondere alle nostre domande. Va tutto bene così com’è, non abbiamo nulla di cui lamentarci. La realtà che Dio ci ha dato è il Suo perfetto linguaggio e noi dobbiamo essere contenti di ogni gioia e di ogni dolore, della salute e della malattia, di ogni parto e di ogni morte.
Sara: E allora perché ti ha parlato?
Abramo: Perché capissi che tutta la realtà è Sua parola.
Sara (sarcastica): C’era bisogno di parlarti per capire questo? Gli amaleciti e gli hurriti lo capiscono quanto te. Che cosa credi che significhino i loro culti?
Abramo: Ma io per la sua parola sono ramingo da anni.
Sara (come sopra): Per non ottenere altro che la metà di ciò che essi hanno avuto restando a casa. Bel guadagno davvero!
Abramo: Ti ho già detto come mi ardeva il cuore!
Sara (come sopra): Ma non abbastanza da dar fecondità al tuo seme.
Abramo (urlando): Taci! Dio ci ha punito per la tua miscredenza. Abbiamo fallito per colpa tua. Dio tace da allora e le tue viscere sono secche. Se fosse stata colpa mia, non avrei fatto nascere un figlio alla tua serva. Invece sono già tredici anni che Ismaele vive. Tutto è giusto e noi siamo colpevoli. La mia vera colpa è che dovrei fare a meno di te.
Sara (come sopra): Non era un Dio d’amore?
Abramo: Lo è. Un amore grande e perfetto.
Sara: Se tutto è perfetto, perché gemi e lo chiami nel sonno? Perché vuoi risentire la Sua voce, se va bene questo silenzio? Perché non ti basta la realtà che hanno amaleciti e hurriti? Perché piangi come una femmina?
Abramo (afferrandole le braccia e urlandole in faccia): Non permetterti di insultarmi, donna!
Sara (divincolandosi e piangendo, arrabbiata, urlando in crescendo): Visto che non sai rispondere, usi la forza. Che dio è il tuo, che ti parla in dialetto e poi si nasconde dietro presagi vaghi? Se è il dio che ha scelto te, perché la nostra vita è così amara? Perché appassiamo senza frutto, possediamo senza sicurezza e godiamo senza gusto? Dillo, dato che per te è sempre tutto a posto! Ho buttato la mia vita dietro a te, uomo. Non pensi che sia ora, almeno, di dire: «ho sbagliato». Dillo per una volta, per una volta sola! (Un lungo silenzio, poi accarezzandolo) Io ti amo come ho sempre fatto e sono troppo vecchia per fuggire o per disperare. Mi devi solo dire la verità: è stato un colpo di sole del deserto. Oppure dobbiamo ammettere una possibilità più tremenda: Dio era venuto e poi ci ha abbandonato. Se così fosse, mio uomo, è colpa mia di sicuro e ti chiedo perdono. Ma non mi dire che tutto è a posto.
Abramo (sedendosi e prendendosi la testa tra le mani): Dici spesso la verità anche se sei cattiva. Da molti anni Dio non mi parla più e da tredici, quando si palesò ad Agar nel sonno, Egli non compare più sulle nostre tende. La verità è che sono stanco anch’io e non ho risposte alle tue domande. Sono esausto del mentire a me stesso con ragionamenti. Una cosa sola resta: non ho sognato quella volta e tutta la realtà del mondo non basterebbe a colmare quell’abisso di nostalgia per la voce che squarciò per sempre la caverna in cui il mio spirito giaceva. Come vorrei che quella voce ci desse un altro segno, così carnale da non poter più dubitare, da non soggiacere più alle interpretazioni del nostro debole intelletto! Ti ho fatto fare una vita di fatica e di morte, donna. Non volermene. Almeno non abbiamo vissuto ciechi come tutti, procreando per non morire, per rimanere in altri, e possedendo per aver l’illusione di costruire, come se il tempo non divorasse ogni impero e accidente. Vado fuori a vedere le stelle e poi ci coricheremo insieme, come buoni fratelli. Se Dio non ci darà altri segni, non ci rimane che la nuda realtà. Che abbia ragione tu e non ci sia più nulla o abbia ragione io e la realtà sia tutto, che differenza fa? Ci addormenteremo senza sognare più la potenza del mio membro e la Dolcezza della Voce.
(Esce dalla tenda)
«Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore apparve e gli disse: Io sono Dio onnipotente Cammina davanti a me E sii integro. Porrò la mia alleanza fra me e te E ti renderò numeroso. Molto, molto. Questa è la mia alleanza che dovete osservare: vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà segno dell’alleanza tra me e voi».



