Un po' prima dell'esplosione della pandemia un amico che dirige per Aboca Edizioni la bella collana di libri ispirati agli alberi, Il bosco degli scrittori, mi aveva chiesto se c'era un tipo particolare di albero cui mi sentissi particolarmente legato tanto da poterlo eleggere a emblema e se avevo voglia di parlarne in un libro.
Ho cominciato a pensarci, ho passato in rassegna molti alberi che hanno avuto un ruolo nella mia vita e che non si sono fatti dimenticare. Poi mi sono venuti in mente degli alberi non contemplati nelle classificazioni botaniche, che non hanno il loro bel nome latino ma che mai come adesso sono in grado di rappresentarci: gli alberi murati, quelli che affondano le radici dentro i muri delle case degli uomini, visti come una nuova specie crocevia tra più mondi (vegetale, minerale, umana) e prefigurativa. Così ho cominciato da questi e poi ho allargato via via lo sguardo, sugli altri alberi, su noi stessi, sulla nostra specie.
Poi è arrivata la pandemia, che ha caricato questo libro di aspetti nuovi e ne ha fatto qualcosa di inaspettato. Ho cominciato a scriverlo nei mesi di isolamento, mentre ero anch'io murato, come tutte le donne e gli uomini del nostro Paese e del mondo, in un momento cruciale anche della mia vita personale, per di più bloccato da divieto di viaggiare in una casa di Mantova, la città dove sono nato e ho passato l'infanzia e l'adolescenza, scatola nera della mia vita. Così tanti fili si sono intrecciati e la narrazione si è aperta, si è spalancata. Questo libro è la mia risposta di scrittore a questo trauma e il mio appello a compiere un salto di piani e di specie e a dare vita a una metamorfosi.
L'ho scritto giorno dopo giorno, in totale solitudine, in uno stato di ispirazione costante, liberando in un unico flusso narrativo testimonianza di un evento epocale, corpo a corpo col mondo, autobiografia trascesa, abbandono lirico, romanzo drammaturgico e figurale, dialogo, coro, canto, sogno, invenzione.
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C'è una di queste statue, con un albero che le esce letteralmente dalla testa, scaturendo da un occhio, in un giardino abbandonato, poco lontano da qui, dove si può arrivare attraverso una serie di vicoli.
«Ma come hai fatto a nascere proprio lì?» gli ho provato a chiedere. E lui mi ha risposto, perché si vede che quel piccolo albero ardimentoso nato dentro un tombino ha dato l'esempio, così adesso altri alberi si sono decisi a parlare liberamente con me, non fanno più i sapientoni.
«Si potrebbe dire che sei un albero fuori di testa!» mi scappa detto, stupidamente, ridendo.
E allora anche lui ride, o almeno mi pare, da un fremito improvviso che scompiglia le sue poche foglie.
«Ma proprio da un occhio dovevi nascere?» gli domando ancora.
«Non è dipeso da me» mi risponde. «Il vento ha portato qui il seme da cui sono nato. Si vede che c'era una fessura, una piccola crepa in quello che chiami occhio, e la mia radice si è data da fare là dentro».
Mi avvicino di più, per vedere meglio.
«Sì, è penetrata nell'occhio, e poi nella testa, sgretolando a poco a poco il marmo, ha continuato a crescere in quella materia minerale fredda, aspettando che la pioggia le cadesse sopra e facesse piangere i suoi occhi e la sua testa trafitta da una lancia, per carpire un po' d'acqua e farti crescere e lanciarti sempre di più nell'aria, nello spazio...».
«Non credere che per me sia facile stare tutto così inclinato!» mi interrompe.
«Ma lo sai che fai sembrare questa povera sta tua abbandonata come uno dei guerrieri di Omero che combattevano sotto le mura di Troia?»
«Omero? Troia? Che roba è?»
«È difficile da spiegare a un albero. Erano dei guerrieri che si sgozzavano, si sbudellavano, che venivano trascinati da morti dietro i carri, nella polvere. Achille, Ettore, Aiace, Diomede... E ce n'era anche uno che a un certo punto si prende una lancia in un occhio...».
«Magari sono io!» scherza, perché si vede che è davvero un albero fuori di testa.
Osservo meglio la statua, per capire chi è, chi rappresenta, ma non si riesce a capire, perché è stata abbandonata all'aperto da tempo, le sue superfici sono state intaccate dall'umidità, dalla muffa, dai licheni, si capisce solo che è un uomo nudo e che la sua testa è ormai invasa dalla radice dell'albero cresciuta sempre di più al suo interno e che ormai l'avviluppa con la sua matassa di cordoni vegetali e di fili duri allo scoperto.
«E magari...» mi lascio andare a pensare «quando gli alberi si riprenderanno tutto lo spazio che hanno dovuto cedere alla nostra specie - o da cui sono stati scacciati attraverso stragi vegetali e disboscamenti - ed espanderanno a poco a poco le loro radici su ogni cosa che incontreranno sulla loro strada, molti semi trasportati dal vento attecchiranno anche su altre statue abbandonate nei giardini e nei parchi, e poi anche nelle sale deserte dei musei dov'erano conservate, ci saranno dappertutto uomini e donne di marmo trafitti da una selva di lance che non riusciranno a strapparsi dalle teste e dai corpi con le loro braccia immobilizzate e fredde...».
È tutto deserto, ci sono solo io di fronte a questa statua dalla testa trafitta e trasformata in un duro bozzolo di radici.
«Che cosa riesci ancora a carpire da quella testa e da quel cervello di marmo" gli chiedo “adesso che le tue radici li hanno invasi e compenetrati trasformandoli in un nuovo cervello vegetale?»
«Che cos'è il cervello?»
«Come faccio a spiegarti... Il cervello è la centrale del corpo, almeno così dicono, anche se ci credo poco».
«Ah, sì? Così se si blocca quello si blocca tutto?». «Più o meno».
«Come siete fatti male!»
L'albero oscilla un po', sul bozzolo elastico delle radici che tengono avviluppata la testa.
«Noi non abbiamo il cervello» mi dice ancora “«noi abbiamo le radici, il midollo, i cerchi, il tronco, le foglie... e ognuno fa quello che deve fare, anche se non sa che cosa...».
«E tu invece come fai a saperlo? Come fai a sapere che non lo sapete?».
Le sue poche foglie ridono. «Perché sono fuori di testa!»
Mi allontano da lì, ridendo anch'io. Si sente l'eco della mia risata rimbombare nelle stradine e nei vicoli della città vuota.


