L’inchiesta sul caso di Satnam Singh, il trentunenne indiano morto sul lavoro a Latina, potrebbe scoperchiare un sistema più vasto di quanto non appaia ora. Per capire meglio di che cosa stiamo parlando bisogna partire dal 2019 quando la Procura di Latina aprì una grande inchiesta per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nella rete finirono diciassette persone, quindici italiani e due cittadini del Bangladesh, quest’ultimi accusati di essere i caporali a cui gli imprenditori si sarebbero rivolti.
Il 19 giugno scorso un macchinario difettoso ha tranciato il braccio a Singh, condannandolo a morte con la complicità del datore di lavoro, il trentottenne Antonello Lovato, che non gli ha prestato i dovuti soccorsi. Il giorno prima la Procura aveva depositato in cancelleria l’avviso di chiusura delle indagini da notificare anche a Renzo Lovato, padre di Antonello.
Nell’atto c’è una piccola galleria degli orrori degli abusi e delle prevaricazioni ai danni degli «schiavi». Cui veniva corrisposto, scrivono i pubblici ministeri, uno stipendio a cottimo «con importi inferiori ai minimi contrattuali». Contestata ai caporali pure la «violazione dell’orario di lavoro»: gli operai venivano sfruttati, senza straordinari, ferie e riposi, per un totale di «48 ore settimanali».
Inesistenti le norme in materia di sicurezza e di igiene: nelle strutture non c’erano bagni destinati ai lavoratori né spogliatoi per il cambio dei vestiti né «docce o rubinetti d’acqua», per garantire loro di potersi lavare o dissetare, né locali dove consumare un misero pranzo. Fatiscenti allo stesso modo erano le case dov’erano appoggiati, per le quali gli «schiavi» dovevano pagare un «affitto» compreso tra i 100 e i 110 euro al mese.
Il sistema di sfruttamento prevedeva che si continuasse a lavorare in tutte le condizioni meteo, anche «sotto la pioggia». Per raggiungere campi e aziende, i lavoratori venivano caricati, come bestie, su automezzi del tutto privi delle minime condizioni di sicurezza che, guastandosi spesso, costringevano gli operai a subire ulteriori condizioni di disagio e sofferenza prima ancora di iniziare la giornata di fatica.
Le condotte illecite sarebbero state commesse a partire dall’autunno del 2019 (quando avvengono le prime perquisizioni) e si sarebbero protratte sino al maggio 2020.
Ma appena la Procura mette un punto e le indagini sono ormai cristallizzate, il 5 giugno 2020, Renzo Lovato e il coindagato Osvaldo Varelli partecipano alla costituzione di una rete di imprese agricole che, in queste ore, ha attirato l’attenzione dell’ufficio Inps di Latina, guidato da Maurizio Mauri, e dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, diretta da Fabio Vitale, che è anche consigliere d’amministrazione dell’ente previdenziale.
L’associazione d’imprese è stata battezzata «Rete Agrilovato società cooperativa agricola», la capofila delle aziende della famiglia di agricoltori per cui lavorava Satnam. Nella rete entrano pure le ditte di quattro Lovato: Antonello, Daniele e della coppia Renzo e Antonino, che nel 2016 aveva percepito 128.000 euro di aiuti pubblici. Della squadra fanno parte pure altre due società legate ai Varelli, compresa quella intestata al novantatreenne Osvaldo. Ma l’anziano, secondo la Procura, sarebbe solo un prestanome, mentre «l’amministratore di fatto della ditta individuale facente capo al padre» sarebbe il figlio Massimo.
Ovviamente al centro del progetto c’è l’utilizzo dei lavoratori. Tra gli «obiettivi strategici» dell’accordo ci sono la «condivisione e gestione in comune del personale con l’obiettivo anche di formazione specifica nel campo» e «consentire il distacco del personale tra le aziende aderenti al contratto di rete, al fine di ottimizzare i livelli di produzione e di favorire la ricollocazione continua del personale attraverso il bacino delle varie imprese aderenti alla rete». Inoltre i firmatari puntano a «gestire i dipendenti in regime di assunzioni congiunte» e di «codatorialità».
Il sospetto di Inps e Agea è che la rete non solo puntasse ad abbattere i costi aziendali anche attraverso la condivisione dei mezzi di produzione, ma anche a sigillare all’interno di un circuito di fiducia la manodopera, compresa quella pagata in nero.
In una rete di questo tipo un giorno il lavoratore raccoglie i meloni per una ditta, il giorno dopo i pomodori per un’altra. In questo modo non c’è più bisogno di cercare all’esterno i braccianti, magari pagando commissioni a società di lavoro interinale o ad altri intermediari, gli stessi che spesso finiscono nel mirino dei controlli. Ovviamente aumentano anche i sussidi statali, per esempio le disoccupazioni agricole, mentre la disponibilità di lavoratori in comune rende più difficili i controlli sul rispetto delle regole da parte della singola azienda.
Dopo la tragedia di Singh rischiano conseguenze penali tutti i partecipanti alla rete? Per quanto riguarda l’accusa di omicidio colposo probabilmente no. Nel contratto le imprese aderenti hanno infatti convenuto che «gli obblighi in materia di sicurezza e salute sul lavoro siano completamente a carico dell’azienda utilizzatrice» dei braccianti.
Nel contratto è inoltre specificato che chi ha in carico i lavoratori «dovrà assicurare» che ognuno di loro «sia impiegato conformemente alle proprie competenze e alla propria formazione». Una precisazione che dopo la morte di Singh suona particolarmente beffarda.
Per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro nessuno degli associati può al momento dirsi al riparo dalle indagini, amministrative e penali.
La famiglia Benetton non deve godere della benevolenza del dio dei trasporti. Infatti prima del crollo del ponte Morandi, nel maggio 2015, prese fuoco il terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino, che venne completamente distrutto. A causare l’incendio fu un condizionatore difettoso e, secondo la commissione parlamentare d’inchiesta che si occupò dell’incidente, tra i responsabili c’era proprio la società Aeroporti di Roma (Adr), del gruppo Atlantia (che ha come maggiori azionisti i Benetton), la quale avrebbe adottato una politica aziendale sulla sicurezza lacunosa. Ma in quel caso nessuno pensò di prendersela con i gestori.
L’allora premier Matteo Renzi non mise in discussione una concessione prorogata alla vigilia della scadenza nel 2009 (governo Berlusconi) per altri 35 anni e definitivamente regolamentata con un decreto del presidente del Consiglio Mario Monti nel 2012 (il ministro delle Infrastrutture era Corrado Passera).
La prima licenza era partita nel 1974, e con il rinnovo divenne settantennale. Peccato che dal 2000 il gestore non fosse più lo Stato, ma un privato. Insomma, per quell’appalto non c’è mai stata una gara. Il Contratto di programma ratificato nel dicembre 2012 da Monti a poche ore dalle dimissioni è a dir poco favorevole ad Adr.
Il Comitato Fuori Pista di Fiumicino da anni sta battagliando per sensibilizzare le autorità sulle presunte anomalie dell’accordo con i Benetton e in questo periodo fervono i contatti con il nuovo governo. Andrea Guizzi, 50 anni ingegnere meccanico e gestionale, è uno dei fondatori del comitato: «Sarebbe opportuno che il ministero delle Infrastrutture e trasporti e l’Enac fornissero la precisa ricostruzione della procedura seguita per il rilascio della proroga».
Il contratto di programma del 2012, promosso dalla Corte dei conti nel 2013, prevede penali per Aeroporti di Roma, ma con un tetto massimo del 3 per cento sui ricavi annuali, da applicare, ad esempio, in caso di ritardo nella realizzazione delle opere progettate. Il contratto, un po’ come quello con Autostrade, contempla un sostanzioso indennizzo per Adr in tutti i casi di eventuale interruzione anticipata della concessione: dalla revoca per ragioni di interesse pubblico, alla risoluzione, alla decadenza per grave inadempimento. «Dunque tale rimborso è dovuto incomprensibilmente anche in caso di violazione da parte del concessionario degli obblighi previsti», annota Guizzi. Il risarcimento è così calcolato: si tratta della somma di tutti i mancati ricavi previsti nel contratto di programma sino alla scadenza. «Il totale viene ridotto del 10%, solo nel caso di decadenza per inadempimento del gestore», sottolinea l’ingegnere. Paradossalmente il rimborso è massimo se la concessione viene revocata nei primi anni di esercizio, visto che nel piano economico finanziario allegato al contratto, per l’intero arco della durata dell’accordo, dal 2012 al 2044, non è previsto neppure un esercizio con risultato negativo.
I membri del comitato evidenziano che la legge che ha prorogato la concessione prescriveva che il gestore dovesse utilizzare i propri denari per la realizzazione delle opere previste dal contratto. In realtà sembra che l’aumento delle tariffe pagate con i biglietti, suffragato sempre dal governo Monti, abbia permesso ad Adr non solo di non intaccare il proprio capitale sociale, ma anzi di poter diminuire il debito con le banche e distribuire lauti dividendi tra gli azionisti. «Dal 2012 i flussi di cassa delle attività operative sono stati largamente positivi e alla luce di questo sostanziale autofinanziamento degli investimenti, attraverso le tariffe, sembra pertanto venire a mancare il rispetto di uno dei criteri a fondamento della legge 102/2009 (quella che ha sancito la proroga, ndr), cioè l’utilizzo di capitali di mercato da parte del concessionario», ribadisce Guizzi. Per questo il comitato Fuori Pista è intenzionato a chiedere agli organi competenti, dal Mit all’avvocatura dello Stato, una verifica sulla corretta adempienza contrattuale di Adr per verificare la possibilità di procedere ad una rescissione o revisione contrattuale.
La convenzione del 2012 prevede anche il raddoppio delle piste, cioè una grande opera di cementificazione che porterebbe alla distruzione di 1.300 ettari di riserva naturale e che avrebbe come conseguenza l’esproprio, con lauto risarcimento, proprio dei circostanti terreni della famiglia Benetton. «Sulla questione del raddoppio, invitiamo chi di dovere a fare una comparazione con gli aeroporti di Heathrow e di Berlino. Potrà verificare che tali scali con lo stesso numero di piste di Fiumicino riescono ad avere movimenti aerei enormemente maggiori rispetto a quelli del Da Vinci», fa notare l’avvocato David Apolloni, legale dei cittadini che si battono per la tutela del territorio di Fiumicino.
C’è, infine, un altro favore ai Benetton evidenziato dagli esperti anti raddoppio: la cancellazione dell’aeroporto per voli low cost di Viterbo. Lo scalo era previsto nel contratto preliminare dell’ottobre 2012 e avrebbe dovuto essere gestito da Adr. Ma dopo due mesi, accusano i comitati, quel capitolo venne cancellato dal documento, nonostante la contrarietà della Regione Lazio che chiese la convocazione di un tavolo istituzionale al fine di individuare un aeroporto di supporto a quello di Fiumicino per le compagnie a basso costo. Invece, nel contratto di programma Enac-Adr del dicembre 2012, poi recepito dal Piano nazionale aeroporti del 2014, si è provveduto al «misterioso» stralcio dello scalo viterbese e il finanziamento di 325 milioni di euro ad esso destinato è stato interamente dirottato su Fiumicino.
Un’inspiegabile doppia regalia alla società che gestisce l’aeroporto Leonardo Da Vinci. Infatti Adr, oltre a incassare il tesoretto, può sfruttare i voli economici per tenere costanti i numeri dei passeggeri in transito, altrimenti in flessione.



