La notte tra il 6 e il 7 luglio 1945, quindi due mesi e mezzo dopo la fine della guerra, nel carcere di Schio, in provincia di Vicenza, avvenne una delle più discusse e sanguinarie stragi partigiane. Protagonisti furono gli appartenenti al Battaglione Ramina-Bedin della Divisione garibaldina Ateo Garemi inquadrati quali agenti della Polizia ausiliaria partigiana (istituita alla fine della guerra e composta da ex partigiani). Il clima, in città, era teso a causa di due terrificanti rappresaglie tedesche di pochi mesi prima. Ma altri avevano anche il dente avvelenato con i partigiani, che avevano attaccato le colonne tedesche in ritirata, suscitandone la reazione.
A fine guerra, il locale carcere di via Baratto si era riempito di nuovi detenuti. Alcuni erano fascisti catturati alla fine di aprile, altri avevano solo legami familiari con esponenti del deposto regime, altri ancora erano stati incarcerati per ragioni politiche generiche o con accuse inconsistenti. Anche tra i fascisti, non c'erano comunque personalità che si erano macchiate di qualche fatto di sangue particolarmente efferato. C'era poi un gruppo di notabili della città (dottori, farmacisti, avvocati etc) ma anche operai e appartenenti al popolo minuto. Era stata rinchiusa anche una casalinga, finita poi tra le vittime, che aveva litigato con un affittuario che, diventato partigiano, si era voluto vendicare della donna.
Il 6 luglio 1945, nella prigione erano rinchiusi 99 detenuti: 91 politici, 8 comuni. La sera, tra le 22.30 e le 22.50, una dozzina di partigiani raggiunse il carcere e radunò tutti i detenuti politici in uno stanzone. Dopo qualche ora concitata, in cui anche tra i partigiani ci furono delle discussioni (alcuni, in disaccordo, con la decisione di giustiziare i prigionieri, se ne andarono) si cominciò a sparare. Una quindicina di detenuti, coperti dai corpi dei caduti, ne uscirono indenni. Delle donne detenute parecchie sopravvissero poiché i detenuti maschi, in un estremo tentativo di proteggerle si schierarono davanti ad esse. Quando giunsero, i soccorritori trovarono il sangue che colava sulla scala e sul cortile, arrivando fin sulla strada. Morirono subito 47 prigionieri. Altri 6 spirarono in ospedale. Il conto finale fu di 53 o 54 vittime, a seconda delle ricostruzioni. Quindici di esse erano donne. Altri 17 rimasero feriti. Nel processo che si tenne nel 1952 risultò che, tra le persone colpite, solo 27 erano affiliate al Partito fascista repubblicano. Altre risultarono completamente estranee.
L'eco dell'eccidio fu grande. In altre prigioni italiane, i fascisti cercarono di darsi alla fuga, credendo che ovunque si sarebbe seguito l'esempio di Schio. Lo stesso Pci prese le distanze dalla strage, definendola opera di provocatori trotzkisti. Nei vari processi che seguirono furono emesse delle condanne per i responsabili, anche all'ergastolo, ma grazie ad amnistie e indulti nessuno scontò più di una decina di anni di carcere. Non è mai stato chiarito se l’eccidio sia avvenuto per esclusiva iniziatica dei partigiani presenti o in esecuzione di ordini superiori. Uno dei capi partigiani avrebbe infatti detto ai riottosi: «Gli ordini sono ordini, non si discutono», ma non è chiaro a cosa si riferisse e chi avesse effettivamente dato disposizioni di procedere alle esecuzione. Sul luogo dell'eccidio resta una lapide, posta solo recentemente, e che riporta unicamente i nomi delle vittime, senza alcuna contestualizzazione o spiegazione. Un tentativo di modificarla, facendo riferimento a mezzi sbagliati con cui fare giustizia, fu rifiutato sdegnosamente dai familiari delle vittime. L’ennesima dimostrazione che, in Italia, il cammino verso una memoria condivisa è più accidentato che mai.