Per sopravvivere, all'Afghanistan non resta che l'oppio. Altro successo di Biden
- Mohammad Akbor ci accompagna tra i campi della regione di Nangarhar al confine con il Pakistan, dove la coltivazione di papavero è la prima attività economica. «Se trovassimo una soluzione alternativa smetteremmo ma ora non possiamo. La nostra vita dipende dall’oppio».
- A Kabul la vita scorre tra le preoccupazioni per la scarsità di cibo, la poca corrente elettrica, la svalutazione della moneta locale, la disoccupazione e l'impossibilità di prelevare i propri soldi.
Lo speciale contiene due reportage esclusivi e una gallery fotografica.
Sulle sterminate distese di aridi campi di papavero passeggia Mohammad Akbor. Spalle curve, barba lunga e grigia rasata solo all'altezza dei baffi, pelle rugosa e abbronzata da anni passati a lavorare la terra, il volto e il corpo sono avvolti in un mantello chiaro. Con la mano sinistra tiene chiuso il mantello, con la destra lancia dei semi sul terreno. Adesso la stagione è ancora prematura ma tra qualche mese i semi diventeranno fiori che, una volta raccolti, verranno raffinati in oppio. Infine, in morfina o in diversi tipi di droghe. Soprattutto eroina.
Come Akbor tante altre persone, bambini e anziani, passeggiano e seminano allo stesso modo. La coltivazione di papavero è infatti la prima attività economica del distretto di Jabrihar nella regione di Nangarhar, situato tra la città di Jalalabad e il confine con il Pakistan. All'orizzonte si intravedono le montagne pakistane da cui ogni primavera scendono i trafficanti che acquistano il raccolto per portarlo all’estero, raffinarlo e rivenderlo. Il prezzo al chilo oscilla tra l'equivalente di 680 e 720 euro. «Qui siamo tutti coltivatori di oppio» racconta Akbor «se trovassimo una soluzione alternativa smetteremmo ma ora non possiamo. La nostra vita dipende dall’oppio».
L’Afghanistan è il primo produttore al mondo di papavero. I suoi raccolti soddisfano circa l’80% della domanda mondiale e l’eroina che ne deriva rifornisce il 95% del mercato europeo. «Fin dalla mia infanzia ricordo solo la guerra» racconta Akbor, «prima c’erano i sovietici, poi il conflitto civile, poi i mujahiddeen, poi gli americani, poi l’Isis, ora di nuovo i mujahiddeen. Questo territorio non è mai veramente stato sotto il controllo di un’unica amministrazione. L’unica costante è sempre stata la coltivazione di questo fiore».
L’oppio è diventato così la più stabile forma di profitto per gente di questa regione che ormai ne dipende economicamente. Per questo nessun governo è mai riuscito a bandirne del tutto la produzione. Un periodo difficile, dice Akbor, è stato quello tra i 2014 e il 2020, quando l’Isis ha preso il controllo del territorio e ha vietato la coltivazione. Questo è stato uno dei motivi per cui tale gruppo non è riuscito a radicarsi nella popolazione locale. In molti, rimasti disoccupati e spaventati dalle brutalità dei terroristi, sono fuggiti in altre parti del Paese. Quando l’anno scorso il distretto è tornato sotto il controllo dell’allora governo filoccidentale le coltivazioni hanno ripreso, seppure illegalmente. Oggi continuano sotto i talebani, nonostante il loro portavoce abbia annunciato di volerle azzerare. Cosa che attualmente pare un’utopia. «Se l’Emirato ci ordinerà di fermarci noi lo faremo ma ci dovranno dare delle alternative per sopravvivere. Per ora non ci hanno detto niente».
Al contrario di quanto annunciato la dipendenza dei cittadini da questo questa attività è molto probabilmente destinata ad aumentare. Si tratta infatti di uno dei pochi business floridi del Paese. L'Afghanistan sta vivendo una crisi economica senza precedenti. L'insicurezza alimentare che da decenni lo colpisce è drasticamente peggiorata negli ultimi mesi, da quando sono venuti a meno gli aiuti dei Paesi occidentali e da quando gli Stati Uniti hanno congelato i depositi bancari dello Stato afghano per evitare che cadano nelle mani dei mujahiddeen. I dipendenti pubblici non percepiscono più lo stipendio, il sistema bancario è al collasso e la svalutazione della moneta locale alle stelle. Secondo uno studio delle Nazioni Unite il 22,8 per cento degli abitanti sta fronteggiando livelli di insicurezza alimentare potenzialmente letali. Tra questi 8,7 milioni vivono una carestia, la fase più acuta di una crisi alimentare. Il divieto della coltivazione di oppio getterebbe intere regioni in una immediata catastrofe umanitaria.
I semi che i contadini seminano danno i fiori in primavera. Il raccolto viene poi venduto a dei broker afghani che a loro volta riforniscono le organizzazioni di trafficanti, sia afghane che straniere, che operano sul mercato internazionale. Tra questi broker c’è Muhaimen (nome di fantasia), corpulento uomo di mezza età originario di Jalalabad. Barba scura, indossa un mantello nero e un cappello marrone. Mentre parla sgrana un rosario di pietre dure tra e mani. «Faccio questo lavoro da oltre vent’anni e prima di me lo faceva la mia famiglia. Acquisto il raccolto dai contadini e lo rivendo a dei businessmen che lo esportano attraverso frontiere non ufficiale in Iran e soprattutto in Pakistan, dove poi viene trasformato in polvere». Racconta che il Pakistan è la principale piattaforma da dove l’oppio viene smistato in tutto il mondo. Infatti, i pagamenti per l’acquisto del raccolto avvengono generalmente in rupie pakistane. Attraverso l’Iran è invece più rischioso perché il regime degli ayatollah è decisamente ostile a questo commercio. Recentemente hanno catturato e poi ucciso dei trafficanti afghani, per dare l’esempio agli altri.
Muhaimen ricorda che durante il primo periodo di governo talebano (1994-2001) la coltivazione era stata messa fuorilegge dal Mullah Omar, cosa che aveva generato una verticale salita dei prezzi. Durante i vent’anni di presenza della Nato (2001- 2021) il commercio di oppio è andato a gonfie vele nonostante fosse ufficialmente bandito. «Molti contadini percepivano fondi dal governo afghano e dalle Nazioni Unite perché bruciassero i campi, cosa che poi non facevano e continuavano a seminare». Con l’arrivo dei talebani non è cambiato nulla. «Annunciano di volere bandire la coltivazione ma lo fanno solo per ingraziarsi la comunità internazionale. Nella realtà non possono farlo perché la situazione economica nel paese è troppo fragile. Finché non ci sarà una crescita l’oppio rimarrà una fonte di sostentamento troppo importante per essere eliminato».
Interrogato sul fatto che i derivati del papavero generino migliaia di morti nel mondo ogni anno Muhaimen risponde che lui non ci può fare niente. «Commercio solo per sopravvivere, se avessi un’alternativa smetterei». Più o meno la stessa risposta di Akbor.
La maggior parte dell’oppio viene venduta all’estero, solo una parte minima è destinata al consumo interno. Questa è però decisamente visibile a Kabul. Per le strade ci si imbatte costantemente in nutriti gruppi di senzatetto accovacciati sui marciapiedi che consumano oppio. Qualcuno fumando, altri iniettandoselo nelle vene. Sono solo alcune delle tante vittime di una crisi economica, sociale e umanitaria figlia di quarant’anni di guerra ininterrotta ed ora aggravata da restrizioni economiche. In molti, paradossalmente, pensano che l’oppio sia l’unica soluzione per sopravvivere. Un altro successo della fine della ventennale missione dell'Occidente in terra di Kabul così come scelto in modo unilaterale di Joe Biden.
L'inevitabile isolamento internazionale ha gettato il Paese nella povertà
Per entrare a Kabul si passa per un'autostrada divisa in due corsie lungo le quali le macchine viaggiano su ambo i lati in entrambi i sensi di marcia. Tra le interminabili bancarelle ai suoi lati corrono centinaia di bambini vestiti in abiti tradizionali che fermano le auto e si attaccano alle maniche delle giacche dei passanti, chiedendo qualche soldo. Costantemente si incrociano i posti di blocco dei mujahiddeen talebani: ragazzi di età generalmente compresa tra i 15 e i 25 anni, capelli lunghi, barbe incolte, spesso grossi anelli alle dita. Ognuno ha con sé un kalashnikov, chi a tracolla sulla spalla chi impugnato tra le mani. Indossano larghe tuniche oppure divise militari ornate con toppe bianche e nere ricoperte di scritte che recitano la shahadat islamica. Le stesse scritte che si vedono sulle bandiere che sventolano ovunque. Per le strade, sui pick-up che scorrazzano in giro, sui palazzi governativi.
I mujahiddeen fermano le macchine e controllano i passeggeri. L'allerta è alta. In città, infatti, esplosioni e attentati avvengono ogni settimana. Nonostante i talebani lo neghino, tutti sanno che sono opera dell'Isis K, la filiale dello Stato Islamico attiva in Afghanistan dal 2014. Durante gli ultimi anni di presenza delle truppe Nato nel Paese tale gruppo terroristico era riuscito a prendere il controllo di intere fette di territorio, negli ultimi mesi ha però perso terreno a seguito della spietata repressione dei talebani: quando un membro dell'Isis viene individuato viene immediatamente eliminato. Permangono tuttavia delle cellule che continuano a dare battaglia. Secondo l'inviato delle Nazioni Unite in Afghanistan Deborah Lions queste sono presenti in quasi tutte e 34 le province del Paese.
In città la vita scorre tuttavia tranquilla e nessuno sembra preoccupato dai terroristi. Le preoccupazioni riguardano semmai la scarsità di cibo, la poca corrente elettrica, la svalutazione della moneta locale, la disoccupazione, l'impossibilità di prelevare i propri soldi. È l’economia il principale metro di valutazione con cui cittadini misurano l’operato dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, il nuovo regime instaurato dai talebani lo scorso agosto al posto del governo filoccidentale collassato con la ritirata delle truppe della Nato. Se i talebani riusciranno a fare uscire il Paese dalla crisi economica senza precedenti che lo sta colpendo in molti si dicono disposti a sostenerli. Obiettivo difficile da raggiungere, dato che gran parte della crisi deriva dalle restrizioni economiche imposte dagli americani proprio all’Emirato.
I talebani ci stanno comunque provando. Il loro obiettivo è quello di rompere l’isolamento economico e politico internazionale in cui si trovano mostrando un nuovo volto e concedendo ai cittadini una serie di che permessi erano vietati ai tempi del loro primo governo (1994-2001). Per le strade alcuni uomini vestono all’occidentale, con jeans e camicie. Diverse donne camminano da sole, alcune indossano il velo integrale azzurro che copre loro tutto il volto ma tante altre hanno semplicemente un foulard appoggiato sul capo che lascia intravedere abbondanti ciocche di capelli. Nei negozi di parrucchieri vengono esposte scatole di prodotti femminili che mostrano ragazze con il volto scoperto. Alcuni ragazzi sprezzanti del pericolo ascoltano la musica nelle case e nelle auto. Tutte cose proibite dall’ideologia talebana che nel periodo precedente sarebbero state immediatamente punite, al contrario di oggi. «Hanno colto la lezione dell’ultima volta e capito che l’ortodossia li porta ad essere isolati internazionalmente» spiega Mohamed Andalib Ismail, giornalista afghano dell’agenzia Afghan Islamic Press, «si rendono conto che con la rapidità del web le violenze brutali farebbero rapidamente il giro del mondo compromettendoli come potenziali interlocutori». Fine ultimo dell’Emirato è quello di essere riconosciuto dalla comunità internazionale come legittimo governatore dell’Afghanistan, è quindi meglio mostrare un volto umano.
Anche la lotta all’Isis rientra in questo progetto di accreditamento, soprattutto agli occhi della prima potenza del globo, gli Stati Uniti. Nonostante gli americani formalmente non riconoscano l’Emirato e per vent’anni lo abbiamo combattuto sul campo di battaglia afghano le due parti hanno avuto contatti formali fin dal 2010. Nel 2018 la Casa Bianca ha avviato negoziati ufficiali con i talebani in vista della propria ritirata dall’Afghanistan. In cambio di un potenziale riconoscimento gli Stati Uniti hanno chiesto loro di tagliare i rapporti con le organizzazioni terroristiche minacciose per la sicurezza nazionale americana: a partire da Al Qaeda e dall’Isis. I talebani combattono quindi oggi i terroristi nella speranza un domani di essere riconosciuti. Qualora ciò avvenisse verrebbero probabilmente rimosse le sanzioni economiche.
Per i cittadini afghani il futuro è molto incerto. Alcuni si dicono contenti per questa nuova parziale permissività dei talebani e pensano che con la rimozione delle restrizioni economiche il futuro possa essere positivo. Molti temono però che un eventuale riconoscimento internazionale dei talebani li induca a ripristinare l’ortodossia e ad inasprire le repressioni. Le possibili e più probabili alternative sono due: la repressione dei mujahiddeen una volta che saranno stati riconosciuti; la misera legata alla crisi economica qualora rimanessero isolati. In tantissimo stanno quindi fuggendo dal Paese. In fuga dai talebani ma soprattutto dalla fame. E dalla paura per il futuro.







