- Boom delle gemme sintetiche, miniere in crisi e nuovi gusti dei consumatori: preziosi sotto quota 4.000 dollari al carato.
- I valori ritoccano i massimi storici, spinti dal taglio dei tassi e dal nuovo presidente Fed.
Lo speciale contiene due articoli
C’erano una volta i diamanti: eterni, costosi, luccicanti, rassicuranti come una promessa sussurrata al momento giusto. La favola, però, ultimamente ha perso il fascino e la luce. E così, mentre l’oro corre sui massimi storici come bene rifugio in piena paranoia globale, la pietra più preziosa del mondo è scivolata ai minimi del secolo.
Le gemme più ricercate viaggiano sotto i 4.000 dollari al carato, contro i 6.811 del 2022. In tre anni un tonfo del 40%. Altro che taglio brillante: qui a essere tagliato è il portafoglio di chi ha comprato scommettendo sull’eternità del brillante e del suo valore. E così si spengono anche le certezze.
La discesa è talmente verticale che persino i grafici di Bloomberg sembrano una pista nera appena battuta. Il «re delle gemme» è sceso dal trono e ora guarda con sospetto i cugini sintetici fino a poco tempo fa considerati pura paccottiglia. Ora, invece, si scopre che sono più economici, più etici, più giovani e soprattutto più in sintonia con lo spirito dei tempi. D’altronde, se i regali di Natale 2025 devono obbedire ai canoni della spesa intelligente, che cosa c’è di più furbo di una pietra nata in laboratorio, che brilla uguale - se non di più - inquina di meno e non si porta dietro il racconto, sempre meno romantico, di miniere, fatica e sfruttamento di tanti lavoratori dalla pelle nera?
I diamanti, insomma, possono anche essere i migliori amici di una donna, ma si stanno rivelando il peggior incubo per i listini. Che cosa è successo nel regno luccicante del lusso extralarge? Presto detto: i mercati chiave si sono raffreddati. La Cina, soprattutto, è passata dall’euforia alla glaciazione, come un anello dimenticato nel secchiello dello champagne. I consumi rallentano, la fiducia pure, e il lusso - che vive di desiderio prima ancora che di reddito - ne paga il conto.
Nel frattempo, i diamanti nati in laboratorio e non nel ventre della Terra hanno invaso il mercato con la ferocia di una tempesta di glitter: identici agli originali, ma con prezzi capaci di far impallidire le miniere. Risultato? Le pietre naturali arrancano, e le miniere sudafricane guardano le centrifughe chimiche con la stessa simpatia con cui un vecchio libraio osserva Amazon.
Il comportamento del consumatore è cambiato: oggi si compra «sostenibile», «etico», possibilmente «carbon neutral». Un diamante scavato nel ventre di una miniera ha smesso di sembrare una storia d’amore e ha iniziato ad assomigliare a un problema di coscienza.
Come se non bastasse, anche la catena produttiva ha avuto la sua dose di guai. In India, cuore pulsante del taglio e della lucidatura, le fabbriche faticano. La domanda rallenta, la produzione pure, e i magazzini si riempiono di pietre che aspettano tempi migliori. De Beers, la storica regina dei diamanti, naviga in acque agitate: Anglo American, la casa madre, ha deciso di venderla, scatenando un’asta che ha più il sapore degli equilibri di potenza che del mercato. L’Angola punta alla maggioranza, il Botswana non ci sta, gli equilibri della geopolitica del Continente Nero si intrecciano con quelli finanziari.
Nel frattempo il mercato resta freddino. De Beers ha tenuto i prezzi fermi nelle ultime vendite e ha persino concesso agli acquirenti la libertà di dire «no, grazie». In un settore dove rifiutare un lotto era considerato quasi un sacrilegio, oggi è diventata prassi. Segno che l’aria è cambiata davvero.
Eppure, non tutto è grigio nel firmamento del lusso. Lvmh continua a mostrare i muscoli grazie a Tiffany & Co., che brilla di luce propria nel portafoglio del gruppo francese. Anche Kering, con Boucheron e Qeelin, rivendica vendite in crescita. Ma la sensazione diffusa è che il diamante, pur restando il simbolo universale dell’amore eterno, stia pensando seriamente di divorziare dal mercato.
In Europa e in Italia lo scenario non è molto diverso. I prezzi sono espressi in dollari, ma al dettaglio entrano in gioco margini, Iva e costi di finitura che rendono tutto apparentemente più caro. In realtà, il valore intrinseco si è assottigliato: se un tempo il diamante era sinonimo di investimento sicuro, oggi rischia di diventare un gioiello da indossare con ironia più che da custodire in cassaforte.
Il paradosso è servito: il diamante, eterno per definizione, ha scoperto di non esserlo affatto. Almeno quando si parla di prezzi.
Il mondo indebitato punta sui metalli. Oro, argento e platino da record
Il 2025 si sta delineando come l’anno della consacrazione per i metalli, sia preziosi che industriali. Oro, argento, platino e rame hanno infranto quest’anno una serie di record storici, spinti da una convergenza di fattori macroeconomici, domanda industriale, restrizioni dell’offerta, tensioni geopolitiche e una crescente sfiducia nelle valute fiat.
L’oro ha superato per la prima volta nella storia la soglia dei 4.400 dollari l’oncia, segnando un incremento del 67% dall’inizio dell’anno, la migliore performance annuale dal 1979. L’oro gestito dalla Banca d’Italia ha visto il suo valore aumentare di 96 miliardi di euro in un solo anno.
Non è da meno l’argento, che ha registrato un rally vertiginoso del 128%, sostenuto da forte domanda industriale e limitazioni strutturali dell’offerta. Il rame si sta dirigendo verso i 12.000 dollari a tonnellata, trainato dalla corsa ai data center e dai possibili dazi americani in arrivo. Il platino fa segnare un +110% nell’anno, anch’esso sostenuto da domanda reale.
Il decollo dei prezzi non è un fenomeno isolato, ma il risultato di un mondo che è cambiato profondamente rispetto a solo un anno fa.
Mentre su argento, rame e platino a guidare il rialzo dei prezzi è un equilibrio precario tra offerta e domanda reale, in un momento in cui il ciclo delle commodity può innescare una rampa di rialzi vertiginosi, per poi cadere a fine ciclo. L’incognita, qui, è la durata del ciclo.
Sull’oro, invece, influisce soprattutto l’incertezza legata all’economia mondiale. Vi è il tema delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, ad esempio, oltre che l’incertezza sull’economia negli Usa, tra inflazione, tassi di interesse e occupazione. Infine, la guerra in Ucraina e i timori di una sua prosecuzione o, peggio, allargamento.
A monte di tutto questo, però, c’è forse un aspetto più rilevante. Un fattore cruciale che alimenta la corsa all’oro è la percezione del rischio legata alle valute. Molti investitori sono preoccupati per l’erosione del valore dei titoli di Stato e delle valute fiat e si rivolgono quindi a valori tangibili. È un fenomeno noto come debasement trade. In questo contesto, l’aumento del debito, non solo di quello pubblico, ma anche di quello privato, spinge i capitali verso beni che preservano il valore nel tempo. Non è importante che ciò accada realmente, si tratta sempre di aspettative.
Ma sono soprattutto il congelamento delle riserve valutarie russe dal 2022 e le discussioni su un loro eventuale esproprio ad aver accelerato e rafforzato questa tendenza in maniera macroscopica, poiché il ruolo dell’oro come attivo di riserva, che può resistere alle sanzioni, ha acquisito importanza. Questo fattore, che possiamo ascrivere alla politica, si somma alle crescenti preoccupazioni sulla svalutazione della moneta e ha rafforzato l’incentivo anche per le banche centrali a mantenere una certa domanda di oro. Tutto ciò ha provocato un aumento delle riserve in oro delle banche centrali, infatti. Complessivamente, nel solo 2025 le banche centrali dei diversi paesi hanno comprato 850 tonnellate di oro da destinare a riserva.
Vi è poi in ballo il futuro della Federal Reserve. Regna una profonda incertezza sulla direzione futura della banca centrale americana. Non si tratta solo di capire chi sarà il prossimo presidente dell’istituto, ma di valutare quanto la FED sarà conciliante rispetto alle richieste del governo americano.
Il rally dei metalli nel 2025, insomma, non è una bolla speculativa, ma il riflesso di un riassetto globale. La combinazione di una domanda tecnologica forte e di una offerta limitata, delle tensioni belliche e di un debito in crescita ha creato un terreno fertile per i metalli. Per l’oro, mentre le banche centrali competono con gli investitori privati per l’offerta fisica limitata, lo sguardo rimane fisso sulla FED. Goldman Sachs recentemente ha ipotizzato che l’oro possa arrivare a 4.900 dollari nel 2026. Certo, ora siamo in quel territorio di confine in cui le profezie si autoavverano, ma i metalli oggi stanno agendo come un barometro della instabilità globale.



