In Ungheria «non c’è violazione dell’articolo 8 della Convenzione» europea dei diritti dell’uomo e dei suoi protocolli, nell’impedire a un uomo di porre fine alla propria esistenza attraverso dosi letali di farmaci. Le autorità magiare «rimangono nel loro ampio margine di discrezionalità» di ordinamento giuridico, nel punire l’omicidio anche se commesso da un medico su richiesta o nell’interesse di un malato terminale, ha sentenziato ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), con sede a Strasburgo.
Il 10 agosto 2023 Dániel Karsai, 47 anni, di Budapest, affetto da sclerosi laterale amiotrofica (Sla), aveva presentato ricorso contro l’Ungheria lamentando di essere stato discriminato perché la legge interna non gli prevedeva la possibilità di accelerare la morte, mentre in Paesi come la Svizzera o il Belgio la possibilità per i pazienti malati terminali è concessa dai rispettivi ordinamenti interni.
L’uomo, un importante avvocato specializzato in diritti umani, aveva invocato l’articolo 14 della Convenzione sul divieto di discriminazione, in combinato disposto con l’articolo 8 secondo il quale «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata […] non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto».
Karsai, che ha manifestato i primi sintomi della patologia neurodegenerativa nel 2021, sostiene che presto sarà completamente paralizzato e non sarà in grado di comunicare. Sarà «imprigionato nel suo corpo senza alcuna prospettiva di liberazione se non la morte», la sua esistenza sarà costituita quasi esclusivamente da dolore e sofferenza. Desidera porre fine a questa fase della sua malattia avvalendosi di una qualche forma di morte medicalmente assistita, però né l’eutanasia né il suicidio assistito sono legali in Ungheria, dove chi induce un’altra persona a suicidarsi, o fornisce assistenza, è colpevole di un crimine e sarà punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Perché la legge sanitaria ungherese sancisce il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto delle cure, nonché di vedere alleviato il dolore e ridotta la sofferenza (la valutazione spetta a una commissione medica), «solo se il paziente soffre di una malattia grave che, secondo lo stato attuale della scienza medica, porterà alla morte entro un breve periodo di tempo anche con un’assistenza sanitaria adeguata ed è incurabile», e sempre che ciò non metta a repentaglio la vita o l’incolumità fisica degli altri.
Una persona può dunque rifiutare interventi di sostegno o salvavita, ma per la Costituzione il suicidio assistito o l’eutanasia (Pad) attraverso l’aiuto attivo di un medico non fanno parte del diritto all’autodeterminazione, per questo non sono autorizzati. La Corte europea ricorda che in base al codice etico dei medici ungheresi (ma non solo loro), i dottori «prestano giuramento e sono autorizzati a guarire e ad alleviare la sofferenza del malato, non a togliere la vita a un’altra persona».
I pazienti terminali hanno assistenza di fine vita e diritto alle cure palliative, per mitigare il dolore, alleviare i sintomi fisici e la sofferenza emotiva. Sempre secondo il codice deontologico magiaro, «la medicina palliativa terminale non è la stessa cosa dell’eutanasia. Dopo un’attenta valutazione, il medico raccomanda di non utilizzare una terapia ritenuta inefficace e di utilizzare invece un trattamento che offra le cure necessarie, il conforto, il trattamento sintomatico e il sostegno spirituale».
Non è considerata eutanasia il fatto che il paziente rifiuti le cure palliative, perché la morte avviene quindi a seguito del decorso naturale della malattia; né lo è la somministrazione della minima dose efficace di un farmaco a un paziente giunto allo stadio terminale della malattia «perché il nostro dovere è alleviare la sofferenza e l’intenzione non è quella di causare la morte del paziente».
La Corte europea dichiara di non avere dubbi sul fatto che il divieto penale esistente in Ungheria «debba essere considerato finalizzato a perseguire obiettivi legittimi, quali proteggere la vita di individui vulnerabili a rischio di abuso, preservando l’integrità etica della professione medica». E che molte delle perplessità/obiezioni avanzate dalle autorità contro il ricorso di Karsai riguardano «le implicazioni che il richiesto allentamento della legislazione impugnata avrebbe sugli individui in situazioni vulnerabili e sulla società nel suo insieme».
Scrivono i giudici, a proposito di suicidio assistito ed eutanasia, che «quando all’interno degli Stati membri del Consiglio d’Europa non vi sia consenso né sull’importanza relativa dell’interesse in gioco, né sui mezzi migliori per tutelarlo, in particolare quando il caso solleva delicate questioni morali o etiche, il margine (di discrezionalità riconosciuto al singolo Paese, ndr) sarà più ampio».
La Corte ritiene che cure palliative di alta qualità, compreso l’accesso a un’efficace gestione del dolore, «siano in molte situazioni - e senza dubbio in quella del ricorrente - essenziali per garantire una fine vita dignitosa […] e sono generalmente in grado di fornire sollievo ai pazienti nella situazione del richiedente situazione e permettere loro di morire pacificamente».
Lapidale, aggiunge che la «preferenza personale» di rinunciare a procedure, altrimenti appropriate e disponibili, «non può di per sé obbligare le autorità a fornire soluzioni alternative, come legalizzare la Pad. Sostenere il contrario significherebbe di fatto che l’articolo 8 potrebbe essere interpretato nel senso che comprende la Pad come un diritto applicabile ai sensi della Convenzione, indipendentemente dalle alternative disponibili».



