Secondo il tribunale di La Spezia, una ragazzina tredicenne può cambiare sesso all’anagrafe e avviarsi al cambiamento chirurgico perché ha «maturato una piena consapevolezza circa l’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità come fino ad ora sperimentato», cosa che dovrebbe «consentirle di concludere, altrettanto consapevolmente un progetto volto a ristabilire irreversibilmente uno stato di armonia tra soma e psiche nella percezione della propria appartenenza sessuale».
A testimoniare tale consapevolezza sarebbero «il percorso psicoterapico seguito con costanza, le terapie ormonali praticate con successo e la matura gestione del disagio sociale conseguente al processo di cambiamento». A prima vista tutto appare molto chiaro, molto trasparente, molto informato e molto scientifico. Il fatto, però, è che in Italia riguardo al cambiamento di sesso dei minori la situazione è tutto tranne che chiara e trasparente.
Nel 2024 è stato istituito il Tavolo tecnico interministeriale sui minori con disforia di genere, una struttura di fatto consultiva che ha proprio l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine nell’attuale caos. Tanto per capirsi: a oggi non si sa nemmeno quanti minori abbiano intrapreso percorsi di cambiamento di sesso, a quanti e per quanto tempo vengano somministrati i farmaci cosiddetti bloccanti della pubertà, quanti e con che conseguenze si sottopongano a trattamenti ormonali. Non sono chiare nemmeno le linee guida seguite dalle varie strutture ospedaliere, dato che non esistono indicazioni ministeriali. Questo tavolo si riunirà ancora a gennaio e dovrebbe produrre una relazione che aiuti ad avere qualche informazione in più, ma non sfornerà nulla di risolutivo.
Maggiori passi avanti dovrebbero arrivare grazie al disegno di legge presentato dai ministri Eugenia Roccella e Orazio Schillaci che introduce disposizioni per la appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere, cioè bloccanti della pubertà come la triptorelina e poi ormoni. Si tratterebbe di un giro di vite fondamentale, perché il ddl - benché non possa bloccare la somministrazione dei farmaci come avvenuto in altre nazioni - può stabilire dei paletti chiari. Tanto per cominciare istituirebbe un registro delle somministrazioni: finalmente si saprebbe chi prescrive un farmaco, per quanto tempo e a fronte di quali evidenze. Poi - elemento ancora più rilevante - dovrebbe essere un comitato etico a validare ogni nuova somministrazione.
Attualmente il ddl è in discussione nella commissione affari sociali della Camera, dove si sono svolte negli ultimi mesi varie audizioni, alcune delle quali estremamente rilevanti. Per la prima volta, ad esempio, hanno preso la parola alcune madri di minori con disforia di genere, alcuni dei quali hanno scelto di non proseguire nel percorso di cambiamento di sesso o hanno cambiato idea dopo averlo iniziato.
In particolare sono state audite le rappresentanti di Generazione D, una «associazione culturale apartitica, aconfessionale e priva di scopi di lucro, il cui obiettivo è informare in merito alle problematiche della disforia/incongruenza di genere in bambini, adolescenti e giovani adulti».
La presidente dell’associazione in commissione ha fornito alcuni dettagli sull’associazione. «Oggi tra i nostri figli troviamo bambini dagli 11 anni, adolescenti e giovani adulti con percorsi molto diversi: alcuni sono seguiti da psicologi senza interventi medici, altri hanno iniziato terapie ormonali e altri ancora hanno già subito interventi chirurgici. Registriamo inoltre numerosi casi di desistenza e detransizione, che ci permettono di avere una visione diretta di tutti gli stadi del percorso. Per la quasi totalità, la disforia è insorta improvvisamente in adolescenza, spesso durante o subito dopo il lockdown, periodo nel quale numerosi studi rilevano un aumento generale del disagio giovanile. In tale contesto, la disforia sembra talvolta assumere forme di contagio sociale, alimentate dalla sovraesposizione a social network e influencer. Osserviamo inoltre un aumento di maschi con neurodivergenze o disturbi psichiatrici che manifestano un’identificazione transgender solo in adolescenza, senza segnali precedenti».
Sono elementi, questi, decisamente importanti, che contribuiscono a smontare l’immagine della disforia o incongruenza di genere quale questione monolitica da affrontare in un modo preciso. «I genitori che si rivolgono a noi - circa due a settimana - sono spaventati, disorientati e spesso delusi dalle risposte ricevute nei centri specializzati, dove la disforia viene presentata come una condizione innata e immutabile da assecondare subito per evitare rischi suicidari. In molti casi viene persino rivolto loro, anche davanti ai figli, il quesito: «Preferisce un figlio morto o una figlia trans?» o viceversa, generando una pressione emotiva che ostacola una valutazione serena e realmente informata», dicono ancora gli esponenti dell’associazione. Secondo Generazione D è dunque necessaria «una maggiore cautela nella medicalizzazione dei minori, ricordando che tutti i Paesi pionieri dell’approccio affermativo stanno rivedendo le proprie linee guida. Senza un’adeguata esplorazione psicologica, la disforia di genere rischia di diventare un ombrello diagnostico sotto il quale comorbidità importanti restano invisibili e non trattate». La commissione parlamentare ha ovviamente udito anche voci differenti, tra cui quelle degli attivisti trans. Nota a margine: proprio da profili social legati all’attivismo trans sono arrivati attacchi e insulti online alle madri di Generazione D che hanno scelto di esporsi.
Il dato importante, comunque, è che per la prima volta in Aula siano state raccontate storie vere e diverse dalla consueta narrazione che pone la transizione di genere come unica via per affrontare ogni problema legato all’identità sessuale. Purtroppo, bisogna anche constatare che tale narrazione è ancora molto (troppo diffusa) persino fra le società scientifiche che si occupano del tema. Pochi giorni fa, otto realtà italiane tra cui la Società italiana di endocrinologia (Sie), la Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica (Siedp) e l’Osservatorio nazionale identità di genere (Onig) hanno firmato un appello contro il ddl attualmente in discussione, sostenendo che la legge «rischia di limitare fortemente l’accesso alle cure sanitarie per le persone minorenni transgender». Come spesso accade, a questo appello è stata data grande rilevanza, ma giustamente Generazione D fa notare che «appare doveroso ricondurre il documento alla sua reale portata rappresentativa. In Italia operano centinaia di associazioni e società scientifiche delle professioni sanitarie: secondo gli elenchi pubblicati dal ministero della Salute, il numero supera ampiamente le quattrocento. A fronte di tale pluralità, il comunicato in oggetto è firmato da sole sei società scientifiche, di cui appena due di area pediatrica, affiancate da una federazione e da una associazione culturale che, per definizione, non hanno funzione di produzione di linee guida cliniche». Inoltre, dice ancora Generazione D, «le società firmatarie rivendicano l’esistenza di evidenze scientifiche, ma non producono dati italiani, né su accessi, né su trattamenti, né su esiti clinici. Eppure criticano un decreto che istituisce un registro nazionale dei farmaci, che rappresenterebbe lo strumento minimo indispensabile per iniziare a raccogliere tali informazioni».
Il punto è tutto qui. In Italia sono concesse decisioni allucinanti come quella di La Spezia in totale assenza di dati chiari, di linee guida certe e di consenso scientifico sul tema e alcune realtà che si definiscono tecniche fanno politica e battagliano contro il governo che cerca di mettere ordine.



