Il filosofo Byung Chul Han, già diversi anni fa, notava lo spossamento dell’Occidente, battezzato per questo «società della stanchezza». Ora un altro studioso di vaglia - e, nota bene, non certo un conservatore nostalgico di antiche e più vigorose epoche - raffina la diagnosi. David Le Breton, antropologo di fama e persino di successo commerciale, certifica la presenza di un clamoroso paradosso: siamo la civiltà che più di ogni altra è mossa dal desiderio, vero carburante delle nostre azioni e dell’intero sistema economico, eppure questo desiderio sta scomparendo. Forse non è nemmeno un paradosso bensì una conseguenza nefasta: a forza di spingere al consumo più forsennato ci siamo davvero consumati, ci siamo esauriti secondo le modalità fin troppo diffuse del burnout che caratterizza molte depressioni contemporanee. La questione del sesso è esemplare, come ha ribadito lo psicoanalista Luigi Zoja in un recente volume. Abbiamo erotizzato praticamente ogni aspetto del nostro vivere, i richiami sessuali sono continui e martellanti. Eppure il sesso è rarefatto, si pratica meno e con più difficoltà, che corrispondono poi alla crescente complessità dei rapporti interpersonali.
L’Occidente tramonta nello sfinimento, dopo il grande fuoco dissipatore resta la cenere chiara. Non è un caso che Le Breton nel breve ma potente saggio Scomparsa del desiderio in uscita per Mimesis parli di «biancore». «Il biancore è questa volontà di rallentare o di arrestare il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità sociale di costruirsi sempre un personaggio a seconda degli interlocutori che si ha di fronte», scrive l’antropologo. «Ricerca d’impersonalità, volontà di non concedersi più se non sotto una sembianza neutra. Essa diviene talvolta un modo abituale di vivere. L’individuo trasforma il legame sociale in un deserto al fine di comportarsi da spettatore indifferente che non può più essere raggiunto».
La tesi è semplice e tragica: è difficile reggere il ritmo della società accelerata. È difficile reggere il peso dell’identità sfilacciata dalla modernità liquida e dall’invadenza dei dispositivi digitali. Il risultato è che molti preferiscono farsi da parte, fuggire, rinunciare.
«Il biancore è una chiusura all’evento, un rallentamento dell’energia che induce a vivere al minimo, o addirittura all’arresto e in una sorta di postura zen di distaccamento puro. L’individuo si mantiene alla superficie del legame sociale, nascosto nel suo personaggio, ingombrato da un’esistenza che non sa come condurre. Non dà più agli altri, ma neppure a sé stesso. Si tratta di esistere il meno possibile e di non trovarsi più nel flusso della vita comune. La rinuncia a sé è talvolta il solo modo per non morire o per sfuggire a un destino peggiore della morte».
Nella società della stanchezza, piuttosto che affrontare la lotta ci si fa da parte, si preferisce il distacco dal mondo reale. Non è un caso che oggi abbiano grande successo discipline orientali basate sulla separazione volontaria dal reale. Per Le Breton, questa forma di rinuncia sembra non rappresentare un problema. Egli pare distinguere tra la mancanza di voglia di vivere e la sottrazione volontaria al meccanismo opprimente della quotidianità. Ma quello su cui si muove è un crinale molto pericoloso.
Il biancore a cui egli fa riferimento è il colore del demone meridiano, dell’accidia contemporanea che ho cercato di descrivere nel mio ultimo libro Aretè (Liberilibri). Una accidia che non è pigrizia ma appunto spossamento, rinuncia, mancanza di volontà e di desiderio di vita. In proposito ho richiamato la lezione del filosofo Paolo Virno secondo cui «le forme di vita contemporanee sono segnate dall’impotenza. Una paralisi smaniosa presidia l’azione e il discorso [...]. Le forme di vita contemporanee sono segnate da una impotenza dovuta al l’eccesso inarticolato di potenza, provocata cioè dall’affollarsi oppressivo e assillante di capacità, competenze, abilità». Siamo un motore che romba con la marcia in folle, triste ma vero.
Tutto questo non può essere positivo. Se è vero che sottrarsi all’ansia prevalentemente può essere una coraggiosa scelta di vita, è anche vero che i più rinunciano perché si deprimono. Lo vediamo nelle giovani generazioni ansiose e turbate, nell’isolamento favorito dal digitale. Molti pensatori suggeriscono di rallentare, di mettere un limite alla corsa folle della modernità. Ma troppo spesso, in questo modo, si produce una sorta di elogio della debolezza, si giustifica la rinuncia. Troppo rari sono coloro che invitano a percorrere una via differente, coraggiosa e non rinunciataria. Se l’accelerazione contemporanea esaurisce e deprime, l’alternativa non è farsi da parte e mollare. Ma imporre con decisione un ritmo diverso, accettare la fatica e la difficoltà, cioè farsi carico della realtà senza nascondersi in un paradiso artificiale. Il biancore non si vince spegnendo il fuoco, ma alimentandolo con legna migliore.



